stefano54 ha scritto:
Al solito Ferdy aveva ragione.L'ho trovato, smontato e mi sono ritrovato in mano una pipata di tabacco!!
S'e' disintegrato.Beh, ne ho fatto uno con una spugnetta recuperata dal mio meccanico e domani faccio un salto in Honda a vedere se me ne rimediano uno "original".
Saltando di palo in frasca, ho trovato questo racconto che m'e' piaciuto particolarmente.
Magari qualcuno di voi lo ha gia' letto, ma io lo posto lo stesso;e' suggestivo e parla della nostra passione.
Grazie al solito preparatissimo (e cortesissimo il che non guasta) Ferdy ed un saluto a voi tutti Reveristi.
vecchie ruote
La mia vecchia Honda restava con me anche quando non avevo da dare niente, da raccontare niente.
Uscivo dal lavoro esaurito ed entravo in casa appena il tempo di salutare i gatti e le persone, e poi afferravo la giacca e andavo a tirare fuori la moto dal garage. Lei era rossa e tozza, ma non mancava di restituirmi un po' dell'affetto che provavo per lei.
L'avevo comprata già brutta, sebbene nuova. Era un modello nato quasi dieci anni prima e nel 1996 per averla dovetti aspettare cinque mesi, che arrivasse dal Giappone. Dieci modelli importati quell'anno, l'ultimo.
Ma io, guarda e riguarda, non potevo scegliere altro. Non volevo un mostro di potenza, sessanta cavalli andavano benissimo. Volevo una bicilindrica, niente carena, dalla posizione comoda e con una sella fatta per starci bene anche in due, perchè al numero due io c'ho sempre tenuto molto.
E così ecco la NTV 650, quasi tredici milioni allora, tutto quello che mi ero messo da parte nei primi quattro anni di lavoro. Già, il lavoro ...e l'antidoto.
Lei era l'antidoto ai veleni della Coop. Quel posto di perbenisti vestiti da salvatori del popolo, aveva fatto a me quello che la Cecoslovacchia aveva fatto a mio padre nel 1968: ecco i russi, mi ero detto. Ma sbagliavo, erano molto italiani.
Così montavo sulla mia NTV, che si chiama anche Revere e che io chiamavo sempre così, e partivo. Del resto nel 1996 il ginocchio mi aveva già lasciato del tutto, e la macchia in bici la sognavo e punto. Allora con la Revere si andava per la Toscana. L'orario di lavoro aiutava, si usciva alle 15:30, e il clima permetteva tanta libertà, bastava una bella giacca.
La lunga strada che porta da Follonica a Massa Marittima era spesso la mia apertura. Una lunga fila di alberi a destra ed a sinistra insaporiva il passaggio tra i campi ora verdi, ora dorati ora regolarmente arati che non si poteva non notare. Le colline di tanto in tanto erano sormontate da enormi casali, tra cui quello di Farina, ex presidente del Milan, forse il più bello di tutti.
Quando passavo dalla Marsiliana, la vecchia e tortuosa strada che esiste dalla notte dei tempi, avevo anche di più da vedere. C'era un recinto di Chianine che venivano a curiosare sul rosso della moto se ero abbastanza bravo a fare piano, la scuola della Forestale che mi lasciava sempre senza parole per il viale di cipressi che correva sul crinale della collina per portare ad un borgo intero, altro che casale. Ed infine il "Mulin Presso", del cinquecento, ancora tutto intero, ancora robusto e mirabile. Ci vedevo i carri pieni di uva tirati dai buoi magri del Rinascimento a portare il ricavato della vendemmia per il vino di stagione. Non importava che quelle strade io le vedessi da quando ero bambino e ci andavo in bici prima e in motorino poi, l'effetto era sempre lo stesso: colori, profumi, suoni incantati.
Dalla strada per Massa potevo svoltare verso Nord, Montebamboli, tante volte conquistata in bicicletta, per poi ridiscendere verso Suvereto e infine svariare per la Val di Cornia. Oppure potevo passare sotto massa e andare verso Montieri e poi dirigermi verso Siena. Oppure sempre da lì verso Monterotondo e Castagneto Carducci, allora passavo davanti alle vigne dell'Ornellaia dove ero stato un paio di volte.
Se piegavo verso sud costeggiavo il Lago dell'Accesa, temuto perchè di origini vulcaniche e con improvvisi mulinelli, o forse solo perchè il Mago Sili aveva deciso di stabilirsi lì. Continuando si poteva andare verso Roccastrada e Roccatederighi, i cui centri cittadini d'estate si animavano di sagre, feste dell'Unità e concerti jazz.
Io ormai conoscevo ogni curva di quelle strade, e sapevo dove andare in ogni stagione. C'era una strada per ogni veleno da smaltire. D'inverno ad esempio, potevi andare verso Prata per poi svoltare prima di Boccheggiano, al bivio del Gabellino, verso Tatti e Roccatederighi. C'era un bar con gli affettati che profumavano lontano un miglio. Ti fermavi senza neanche chiuderla la moto, e ti facevano il panino con le fette di pane toscano, quello sciapo. Poi ripartivi sotto gli sguardi poco interessati e ancor meno invidiosi dell'oste e degli avventori. D'inverno, come sarà ora, i boschi cedui si trasformavano in bianche distese d'ossa. La brina gelava sui poveri rami e il fiumiciattolo che segue la strada faceva ghiaccio qua e là.
Io ci andavo piano perchè le strade erano viscide di ghiaccio e di brecciolino dell'epoca delle miniere, finita non da molto. Si era del resto nella zona delle "Colline metallifere" della Maremma, una specie di Sulcis toscano, delle miniere di carbone di Liverpool. Saccheggiato il sottosuolo, i minatori di Boccheggiano, Niccioleta, Gavorrano e dei paesini lì intorno, si erano trovati con la prospettiva di rimanere senza lavoro. E così quelle poco utili miniere si sono trasformate per anni in una cassa mutua per gente che aspettava di andare in pensione con la silicosi e morire a sessantacinque anni. I paesi erano ormai spettrali, malgrado la natura. E le strade erano poggi e buche, di conseguenza.
Io lanciavo lo sguardo alternativamente tra le colline scampate alle miniere e la strada a cui cercavo di scampare io, mentre quasi sentivo le gomme aggrappersi disperatamente a quel poco di stabile che la strada offriva. Impossibile che la mia testina saltasse sullo stesso solco del vinile, in quel posto. Ci provavo: "ti rendi conto a che livello di meschinità sono arrivati?", ma poi arrivava una curva e la frase finiva lì.
La mia Revere bofonchiava tranquilla coi suoi due cilindroni paciosi purchè restassi intorno ai duemila giri e comunque sotto i cinquemila, quota che superavo di rado perchè allora si decollava. Il freddo talvolta prendeva le mani e allora aspettavo il paese seguente per scaldarmi con un caffè o un tè. Il bar era sempre in mezzo alla piazzetta, non si poteva sbagliare.
Ci trovavi i soliti minatori in pensione a giocare a carte, col puzzo del fumo raffermo incarognito nei tavoli e nei flipper, su cui mi divertivo a leggere i record scritti come si faceva dieci anni prima sul bordo del tabellone. Di tanto in tanto, quando sapevo che c'erano, come ad Arcidosso, andavo nelle sale da biliardo a veder giocare. Mio nonno era stato un campione, del resto a Livorno si giocava tanto, e sapevo distinguere lo stile, sia che si giocasse a boccine, che invece si prediligesse la nobile Goriziana.
Ogni tanto vedevo sguardi incuriositi su questo giovanotto che invece di fare le corse con le moto a punta tutte carenate arrivava e ripartiva piano piano. E si fermava a guardare giocare a bocce o a ridere delle leticate per una calata a scopa che dimostrava una contata sbagliata o un'ammicco di troppo. Certe volte, a Pitigliano, mi divertivo anche a sentire l'accento un po' contagiato dal vicino Lazio.
La mia Revere mi liberava dai miei pensieri, si liberava con me dei brutti pensieri, e mi portava nel cuore della Toscana meno conosciuta. Così quando sono andato in viaggio di nozze con Elena, lei è venuta con noi, e lo stesso è stato poi in Sicilia, in Calabria, in Francia, fino a Milano, quando ci siamo trasferiti, e lei si è scontrata con me frontalmente con una Tipo milanese.
Ho pensato che fosse finita per lei (e sincermente per un'attimo anche per me). Ma sei mesi fa è finalmente ripartita, dopo due anni di garage, e adesso mi accompagna di nuovo al lavoro tutti i giorni. E come allora, appena ci salgo sopra, i pensieri svaniscono nel simpatico borbottare del bicilindrico a V, ormai con 53 mila chilometri sulle spalle. Averli, e non sentirli. Il prossimo anno saranno dieci anni che io e lei ce ne andiamo sulle strade, ma lei adesso ha una nuova amica, la mia Elena.
Lei, che dopo tante mie insistenze nel 2004 ha preso la patente e finalmente guidato la Honda NightHawk che le ho regalato nel 1999 (!), Elena dicevo, ama di tanto in tanto guidare la Revere, che orgogliosa di tanta bellezza, sfoggia uno stile che non vedevo più dai tempi della Toscana.
Nessun problema, io adoro anche la NightHawk di Elena, specie quando la mia Revere è pochi metri più avanti.
Scritto da Andrearighe
E bravo il sospettoso Stefano , puoi anche con quei soldi andarti a fare una pizza magari con la tua lei e lasciar perdere la Honda, la spugnetta va bene così, piccola e sottile, che entra giusto giusto dentro quella scatolina, non sono quelle le parti che devono essere per forza originali e che possono crearti problemi. Sicuramente ti sei attenuto al mio post e cioè imbevuta di olio 80/90 e strizzata. Ma di questo ne sono certo... . Ciao.