BMW, che in passato aveva due linee di prodotto, oggi presenta nuovi modelli in continuazione; la Yamaha cerca nuovi mercati affidandosi all’estero per la progettazione di moto nuove come l’MT03; la Triumph ripropone uno scrambler; la Ducati entrerà nel mercato dei supermotard. E’ indubbio che ci sia un grande fermento nel mondo delle moto, e che questa accelerazione sia sempre più forte.
Dal momento che spesso ci si chiede il perché di scelte che sembrano tanto bizzarre, può essere utile una piccola analisi economica della situazione.
Ma per capire cosa avviene oggi, occorre fare un passo indietro, avendo come riferimento il mercato italiano.
Se nel dopoguerra i motori hanno significato per il paese la voglia di modernità, di cambiamento, di libertà e benessere, la moto è stato il primo approdo per molte persone a questo mondo. Non è un mistero che la Lambretta (e poi la Vespa) abbiano rappresentato il primo mezzo di trasporto meccanico per la maggior parte degli italiani. In anni in cui l’auto era guardata come un mito irraggiungibile, appannaggio di pochi fortunati, ed ancora dovevano arrivare le vere auto di massa (Fiat 600 e 500), l’attenzione si concentrò sulle due ruote, che i bassi stipendi di allora permettevano di comprare. Anche se con molta fatica.
Non dobbiamo infatti dimenticarci che gran parte delle moto prodotte dalla fine degli anni ‘40 a tutti gli anni ’60 furono soprattutto veicoli volti alla massima praticità ed economicità d’uso, come la Ducati, che ebbe successo grazie al Cucciolo, un veicolo decisamente economico, non comparabile con l’attuale immagine di quel marchio.
Ma dalla seconda metà degli anni ’70 sia nel mercato dell’auto che in quello della moto, accade un fenomeno nuovo fino ad allora; la concorrenza con i prodotti esteri. Per anni il “basso di gamma” della produzione di veicoli era stato soprattutto in mano ai produttori nazionali, Fiat per l’auto, Gilera, Benelli, Moto Morini e molti altri per le moto. L’alto di gamma invece si divideva abbastanza equamente tra la tedesca BMW e l’italiana Moto Guzzi.
L’avvento delle grandi compagnie giapponesi fu un duro colpo per i marchi nazionali, sia di auto che di motociclette, che furono impreparati a rispondere ai nuovi parametri di qualità a basso prezzo, ma anche di innovazione tecnologica e di sportività.
Per spiegare quello che accade oggi, il modo migliore è analizzare le ragioni della sostanziale sconfitta dei produttori nazionali di moto tra gli anni ’70 ed ’80.
La forza che muoveva i grandi gruppi giapponesi non era il basso costo del lavoro (come si diceva allora), ne gli orari massacranti degli operai. Per troppo tempo le nostre aziende furono portate ad avere un atteggiamento di “impotenza” verso questi prodotti che giungevano sempre più numerosi ed erano sempre più richiesti, quasi la colpa fosse dell’iniquità del sistema economico.
Ma la ragione andava cercata soprattutto nella diversificazione dei gruppi giapponesi e nelle loro dimensioni. Come si può leggere
nell’articolo di Jacktornese sulla storia di Kawasaki, la capacità giapponese fu proprio quella di creare gruppi altamente diversificati nei prodotti, garantendosi quindi la sostenibilità degli investimenti. In parole povere, la presenza nel gruppo di alti ricavi in settori diversi da quello delle moto (nell’esempio di Kawasaki, i treni), permise loro di non aver bisogno di ritorni immediati sugli investimenti, che si tradusse con una politica di produzione di molti modelli, in tanti paesi diversi e, non necessitando di forti ricarichi, di politiche di prezzo spregiudicate!
E le nostre aziende italiane? La differenza con l’auto è esemplificativa. Fiat aveva già negli anni ‘80 capito la necessità di rafforzarsi per poter investire nella qualità come le aziende giapponesi, e fece politiche di forte concentrazione acquistando man mano tutti i produttori di auto del paese. I produttori di moto invece, politicamente meno influenti ed abituati a combattersi tra di loro, non riuscirono a fare altrettanto; Ed i gruppi che erano alle spalle di quelle aziende, spesso ricche famiglie di appassionati, non avevano certamente i mezzi finanziari per fare fronte ad i cambiamenti che la nuova situazione richiedeva. Quindi continuarono a vivere parzialmente di rendita, consapevoli che il nostro mercato è un mercato tra i più grandi al mondo, per le moto, e che gli acquirenti sono appassionati che fanno spesso scelte “di cuore”. Ma così facendo ottennero solo la rovina lenta ed inarrestabile delle loro quote di mercato.
Poi, negli anni ’90-2000, e’ iniziato un processo nuovo e radicale anche in Italia. Complici le nuove teorie economiche per le quali nei mercati saturi, le “nicchie” sono l’unico modo -insieme con le economie di scala- per avere successo, i grandi gruppi finanziari si sono finalmente accorti delle potenzialità dei nostri marchi e dei nostri prodotti, ed hanno incominciato ad investire.
La rinascita più celebre è quasi certamente quella di Ducati; l’acquisto da parte di un gruppo finanziario americano prima (la Texas Pacific Investments) , ed italiano poi (Investindustrial), ha dato all’azienda la possibilità di espandersi su scala globale con risultati impensabili nei mercati americani e giapponesi. Poi è stata la volta dell’MV Agusta, infine la recente creazione del cosiddetto polo “Colaninno” con la concentrazione di Piaggio, Guzzi, Aprilia, Gilera e Derbi.
Oggi, con i marchi italiani ricapitalizzati e concentrati particolarmente nelle fasce ad alto valore aggiunto del mercato, si potrebbe pensare che finalmente il mercato nazionale abbia trovato una sua stabilità, e che ci siano nuovi equilibri consolidati.
Non è così, e l’esempio col passato è calzante. Oggi il cambiamento si chiama Cina. 1.500.000.000 di potenziali acquirenti di moto, in una situazione di sostanziale creazione dal nulla di un mercato dei mezzi di trasporto, ed in un contesto di grande sovraffollamento nei centri urbani.
Una manna per i produttori stranieri, ma anche una situazione che ricorda l’Italia degli anni ’50, con molte officine meccaniche cinesi che incominciano a produrre le prime moto, e che in un paese così popoloso significa anche creare dal nulla gruppi industriali immensi. La vicenda dell’acquisto della Benelli da parte di un gruppo cinese è allarmante, in questo senso.
Cosa comporta tutto ciò per gli equilibri mondiali? Moltissimo. Innanzitutto la necessità di rafforzare ulteriormente i gruppi proprietari per investire in quel paese. Inoltre la competizione tra Giappone ed Italia (ma anche di BMW e Triumph) è destinata ad acuirsi sempre di più; se infatti fino ad oggi il mercato del basso di gamma era saldamente in mano ad Honda (che da sola ha il 50% del mercato mondiale di moto) ed alle altre giapponesi, in futuro potrebbero essere i cinesi ad occupare queste fasce di mercato, portando i produttori giapponesi a competere in nicchie di prodotto oggi appannaggio di marchi italiani, inglesi e tedeschi.
Il cambiamento è sotto gli occhi di tutti, una lotta per occupare le fasce alte del mercato da parte di tutti i produttori, che cercano sempre più di entrare anche nei settori non tradizionali, ove vi siano aspettative di crescita o di forte redditività.
Per noi acquirenti non è mai un male, e certamente si tradurrà in un aumento della qualità generale e di una maggior possibilità di scelta. Basta un rapido conto di quanti sono i modelli disponibili oggi rispetto a ieri e della frequenza con cui ne vengono proposti di nuovi.
Chi vincerà non lo sappiamo, ma di una cosa possiamo esser certi, cioè che il futuro prossimo vedrà marchi, nazionalità ed equilibri molto diversi da oggi.