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Normandia: un viaggio senza Tempo. Agosto 2017.
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15867572 Inviato: 29 Ago 2017 12:21
 

Gold Beach.
Gold Beach è Arromanches-les-Bains. È il segreto per cui sono morte torturate spie. È l’idea geniale di un uomo: Winston Churchill. È un’opera di ingegneria straordinaria. È la costruzione di un porto trasportato via mare. Ma ci rendiamo conto???? Dal nulla, nel nulla, un porto: militare. In cui n 6 giorni dopo lo sbarco, il 12 giugno, sono stati sbarcati più di 300.000 uomini, 54.000 veicoli e 104.000 tonnellate di rifornimenti. Bastano i numeri a lasciare impressione.

Ma qui, ad Arromanches, c'è molto altro che non lascia solo impressione. Il bianco e nero si fonde con te e ti svuota. Ma calma. Andiamo piano. Intanto una cosa graziosissima: rincontro le tre coppie di motociclisti francesi: ci salutiamo con un sorriso più vivido questa volta. E nel parcheggio ci sono tante moto. Forse è il sole. Forse anche qui come da noi sulle Alpi, come c'è il sole si esce in moto. Non lo so. Ma mi piace leggere le targhe, inglesi, tedesche, francesi e anche italiane. Sono sempre felice quando ne leggo una. Quella “I” è stupenda! Prima di partire cercavo un adesivo della bandiera italiana da mettere sulla targa della mia motina: volevo con me la mia bandiera. Non ne ho trovato mezzo. Forse nemmeno sapevo dove comprarlo. Ma fa lo stesso: ho il mio braccialetto. E ogni tanto lo guardo.

E guardo pure l‘Oceano che da qui dove sono è giù in basso. E si vedono i resti di quel porto così importante per gli Alleati. E non sai quanto è enorme uno dei suoi “pezzi”. Io qui ci cammino sotto e ne scatto fotografie ai pezzi di legno. Che hanno resisto al passaggio della Storia.

E proseguo a piedi. Perché se sei qui non puoi, proprio non puoi, non pagare un biglietto per il “Cinéma circulaire” 360. Io ne acquisto uno cumulativo col Memoriale della Pace di Caen.
Entrare qui, a vedere questo film “Les 100 jours de Normandie” se già hai un minimo letto due cose e provate altre mille cui nemmeno sai dare un nome, è un’esperienza non indifferente. Non è solo visiva, con solo uno schermo di fronte a te. Sei circondato dagli schermi. E il suono invade. Tutto e tutti. Siamo in tanti. E siamo tutti in piedi appoggiati alle sbarre. E scatto una foto alle parole dello schermo, che introducono al significato delle immagini che seguiranno: “Nous avons fait ce film pour que le monde se souvienne qu’ici, en Normandie, l’ideal de Paix est notre héritage commun”. Non sarò mai in grado di descrivere quello che ho visto. Quello che ho ascoltato. Posso solo raccontarti che piangevo. E non ero l’unica. Alcune immagini non sono un film. Quelli non sono attori. Quei ragazzi non si rialzano per mettersi a posto i vestiti. Rimangono per terra quei corpi. Accasciati sulla spiaggia. Persino di alcuni soldati ne vedi lo sparo. Corrono, sono colpiti, cadono. Cadono e sprofondano. Rimangono privi di respiro. Privi di tutto. Sono proprietari solo più di una una cosa: la morte. O forse é la morte diventata la loro Signora e Padrona. Si sta male ad assistere questo film. Ed è incredibile il contrasto. É meraviglioso quel contrasto. Quel montaggio ti sconvolge. Ti ribalta l’anima. Il prima e il dopo. Quel bianco e nero di tutte quelle immagini, ti svuotano di tutto. Annullano qualsiasi eventuale colore. Non potevano che essere in bianco e nero quelle fotografie della Seconda Guerra Mondiale. E poi, dopo che hai vomitato via ogni colore in te, ecco che alla fine ti si riempiono gli occhi con i colori della Normandia della sua Natura nella sua forma più smagliante. L’azzurro del cielo, l’oro di quelle spiagge e il verde di quelle falesie. E l’Ocenao non è sangue. È blu. Immensamente blu. Ed è vita tutto attorno. Bambini e famiglie e anziani a passeggio. E gabbiani, in volo. L’esperienza Arromanches mi ha scossa. E mi vergogno un po’ quando si esce dal cinema. Ma ho una vetrata con l’Oceano davanti a me. Una culla fissarne le onde. Mi sento un istante osservata. Probabilmente sono io che ho un modo di approcciarmi a queste spiagge, vivido. Eppure qui non ho alcun parente a cui possa sentirmi “legata”. Non ho un motivo particolare. Sono italiana. Non inglese o americana. O canadese. E meno che mai sono francese. E nemmeno sono tedesca. Il mio approccio dovrebbe essere quanto più “disinteressato” possibile. Eppure sento cuore, più che testa. Senso d’umanità. Cui sono certa percepisce chiunque qui. Ed esco da quel cinema che ho solo voglia di rinfrescarmi il viso. Ma i francesi sono grandiosi… Quando esci dalla sala cinematografica sei catapultato nel negozio di souvenir. E naturalmente qualcosa prendo: la copia de “Le Journal” del 6 giugno 1944 “L'estate forces alliées ont ouvert un nouveau front à l’Ouest!”. Ed un paio di fotografie: di Rober Capa.

Ma vi prego, soffermiamoci un secondo. C'è qualcosa di magico nelle fotografie. Lo sappiamo bene noi, io sicuro, che oggi, possiamo scattare mille mila foto da publicare ovunque. Perchè sì, l’immagine digitale si materializza in meandri del linguaggio binario del nostro supporto digitale, quale che sia pc o cellulare o tablet, e può davvero arrivare in luoghi e a persone cui propio non ti aspetti. O forse sì. Forse oggi, nel 2017 scattiamo foto da mettere in mostra, dove siamo stati, cosa abbiamo fatto, chi c'era con noi: è la nostra era quella dell’immagine. Ci siamo dentro fino al collo. Ma quante delle foto che bombardano i social sono davvero significative? Quante riescono a colpire? Scuotere anche? Addirittura una coscienza sociale? Quelle dei calciatori? Quelle delle ragazze sempre mezze nude? Col seno di fuori e un viso sempre provocante? Quei mille e mille autoscatti che i giovani in particolare si fanno? I famosi selfie? In ogni posizione possibile immaginabile. Ne è pieno ogni social. Sembra che mai come prima, oggi, si abbia bisogno di “fermare” il tempo. Tutto velocissimo, tutto evolve che non te ne accorgi, e forse le mille foto al giorno, sempre belle e sorridenti, sempre al meglio, anche ritoccate con miriadi di applicazioni, regalano l’illusione che esistiamo, magari per sempre. C'è traccia del passaggio: c'è la fotografia. E ripeto, solitamente è una foto che ritrae benessere. Almeno apparente. E raramente spontaneo. Piuttosto montato è costruito a dovere. Non ci si fotografa mentre si piange. In generale. Perché in particolare, nel mio caso, sono riuscita anche in questo. L’anno scorso sui Pirenei, il Tourmalet mi aveva bucato l’anima. E ho pianto lacrime di cui ho raccontato già in un altro report. Quel momento non potevo che fermarlo con una fotografia. Il mio viso. Le mie constatazioni. Le mie gocce d’acqua piene di tutto. Ma siamo sicuri che sono queste le immagini che hanno il potere di smuovere le coscienze, di una società? Ma per favore, vi prego. Al limite, questo sì, alcune immagini che scorrono sul tamburo incessante ad esempio di fb, ti trasmettono sensazioni belle: io adoro alcuni scatti che mi è capitato di vedere di fotografi professionisti che rendono unico un giorno speciale: il matrimonio. È come se chiedessero il permesso alla gioia, che posa diffusa in una festa così importante, soprattutto per i protagonisti, di essere inquadrata. Ritratta. Appunto in una fotografia. Alcune di quelle che ho visto, ti lasciano una dolcezza infinita. Ed è una cosa bella. Loro, lo sanno fare.

Io non lo conosco il linguaggio delle immagini, non so come si scatta tecnicamente una fotografia, fra obiettivi e messa a fuoco. Ma ne comprendo il loro potere. E naturalmente non sono l’unica. Uno scatto catturato a Jwo-Jima da Joe Rosenthal nel 1945 è divenuto un simbolo per tutta l’America. Voglio dire che il potere delle immagini è ben conosciuto alla politica. Che anche ha censurato in epoca di totalitarismo. Ha vietato alla Stampa, la libertà di parola. Di espressione. Di immagine. Di informazione. Ma ci rendiamo conto? Le manette alle parole? Ai pensieri. È semplicemente qualcosa di impensabile. Eppure. È stato. Senza andare nemmeno tanto lontano: “Repressione in Turchia: giornalisti arrestati. Erdogan sceglie i rettori” intitola il Sole 24 ore. E non era il 1945. Ma l’altro ieri: il 31 ottobre 2016.

I coraggiosi però, quelli che furiosamente non possono essere soggiogati, sono sempre esistiti, spinti da quella pulsione feroce di raccontare una cosa sola: la realtà. La verità. Così come si presenta. Atroce anche. Ed i giornalisti ed i fotoreporter della seconda guerra mondiale, e di tutte le guerre, questo hanno fatto e fanno. Ti sbattono in faccia quella dura verità, quella che non vuoi vedere, preferisci far finta non esista, mentre sei comodo a casa tua, ma loro, con le loro fotografie, ti obbligano, almeno quell’istante in cui ti scivolano sotto gli occhi a renderti conto di ciò che accade. In una zona del mondo. E non puoi più fare finta di niente. Credo che ce lo ricordiamo tutti quel bambino, sulla spiaggia. E ricordo l’introduzione di Mario Calabresi nel suo articolo su “La Stampa” pubblicato il 3 settembre 2015 dal titolo “La spiaggia in cui muore l’Europa”: non si può girare la testa.

Quello scatto fotografico, come quelli di Robert Capa nello sbarco hanno il potere di confinare il Tempo in uno spazio. Di delimitarlo. Dentro un’inquadratura. Quella della macchina fotografica. Ma dietro un obiettivo c'è, sempre, un essere umano. Che si muove. È vivo, e vive emozioni. Sensazioni. Paura, odio, rabbia, angoscia, ansia, amore. Che Robert Capa ha sentito addosso. Ha ritratto. Era imbarcato insieme ai soldati il 6 giugno 1944 ad Omaha Beach. Ha conosciuto e condiviso con loro l’orrore. La morte. La conquistata di un pezzo di quella spiaggia. E il prezzo pagato. Per la libertà dell’Europa. È a lui che si rivolge il mio senso di gratitudine per aver reso immortali frammenti del D-Day. Quei suoi undici scatti, o meglio quelli che sono rimasti dei molti di più che aveva inciso, ti lasciano addosso la drammaticità del momento vissuto, persino sulla sua di pelle. Appunto quella di un fotografo. E in Normandia, in ogni museo, in ogni Memoriale, hanno saputo tributare a Capa il suo giusto merito. Hanno saputo utilizzare il suo materiale in diversi contesti che sempre ti lasciano di sasso. Conosci quasi a memoria quei bianchi e neri che ti svuotano.

Ma appunto, come dicevo, quando hai finito di vedere quel filmato al cinema 360 di Arromanches, vuoi una cosa sola: i colori. Ed oggi io ne ho tanti. Perché oggi, c'è un sole da favola a riscaldarmi la pelle, il cuore. E me lo godo seduta sul prato di fronte all’Oceano. E il paesino di Arromanches è graziosissimo. Piccino con i suoi localini e negozietti. E cammini in discesa per arrivarci. E ti fermi a scattare ancora due fotografie: un altro carro armato fra le casette di fronte al mare. E quella bandiera che sventola sempre il suo centenario significato: Libertè, Egualitè, Fraternitè.

I bambini giocano sulla spiaggia, ragazzi seduti, gente che passeggia, è tranquillo qui. E prelevo il mio souvenir più significativo: un po' di sabbia. Di Gold Beach.

E ritorno sulla mia moto. Non prima di aver scattato una foto ad un ciuccio e delle piccole croci di legno accanto ad un monumento. Il presente che omaggia il passato.
Riparto: ho una meta importante da raggiungere: Colville-sur-Mer. Omaha Bech. Il cimitero Americano: 9.387 tombe.
 
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15867584 Inviato: 29 Ago 2017 12:50
 

Il cimitero americano su Omaha Beach.
Non è come ti potresti aspettare. Non lo è stato per me. Anzi. Mi è parso quasi un’attrazione turistica. E pure ben organizzata. Addirittura alcuni cartelli stradali sono trionfali in merito: enormi. Il parcheggio è talmente grande che ci sono fuori i “ vigilantes” con pettorina a dare le indicazioni. C'è una coda sconcertante. C'è il parcheggio con tanto di scritta “director” come nei film. E c'è il parcheggio specifico per le moto con tanto di logo. E felice, incontro per la terza volta le tre coppie di motociclisti francesi tanto che mi dicono pure “Vieni con noi”…

Ma no… io giro da sola. Come quel film di Bertolucci “Io ballo da sola”… E qui, ti assicuro, sei tutto fuorché da solo. Siamo tantissimi, in fila per la toilette, in fila per il Memoriale del cimitero, in fila ho visto addirittura per scattare delle foto. L’ultima cosa che ho percepito qui è il raccoglimento. Sono 9.387 tombe ma è tutto fuorché silenzio. Gente che cammina ovunque. Seduta ovunque. Beve acqua. I bambini corrono. Le ragazze ridono e si scattano i selfie. Persino la gendarmerie francese appoggia la schiena al colonnato. È tutto fuorché quel solenne che ti colpisce magari nei film. Avevo pianto per “Salvate il soldato Rayan”, per quel veterano, che lì in ginocchio davanti ad una croce proprio di quel cimitero chiedeva alla moglie lacrimando “Me lo sono meritato?”. Chi sopravvive ad una guerra, come affronta il resto della sua vita? Con quale stato d’animo? Io non lo so. Non lo posso immaginare. Forse con una intensità che noi non conosciamo.

Ricordo un video, uno fra le diverse testimonianze reperibili addirittura, e per fortuna, su You Tube: un anziano veterano raccontava che non perdeva giorno in cui non esprimesse il suo affetto a sua moglie, ai suoi figli e nipoti. La sua vita non era certo qualcosa da far scorrere invano. Da sprecare.
Di video-testimonianze ve ne sono diverse nei memoriali presenti in Normandia. Anche qui, in questo del Cimitero Americano. Ma prima di entrarci fai la coda: devi passare dal metal detector e la tua borsa passa ai raggi. Vedono tutto quello che hai. E mi vogliono fermare. Io sono in tenuta nera motociclistica, imbottita di ginocchiere e gomitiere, ho una borsa da serbatoio con dentro di tutto. Non ho proprio l’aspetto della turista in vacanza. E di questi tempi, comprendo mi si chieda se ho un coltello. E la domanda è stata posta in modo piuttosto secco e fermo. E la risposta tranquillissima: “Sì ho un coltello. Di quelli svizzeri, mi serve per la moto. Sono una motociclista”. Ancora un po’ e aggiungevo “me lo ha consigliato un amico: 8€ alla LDL…”. Prima di lascarmi entrare nel Memoriale le “Guard force” si sono consultate. E naturalmente mi hanno lasciata passare. Bene: non sono un pericolo pubblico. Almeno a piedi…

Il Memoriale americano all’ingresso del cimitero è la celebrazione degli Stati Uniti d’America. La linea del tempo è strutturata da far invidia a qualsiasi libro di storia per la scuola. Semplice e chiara: anni e fatti. Che ho ripercorso tutta. E poi vetrine: gli effetti personali, il materiale militare, le divise, gli stivali, l’elmo. E poi le zone cinema: ti siedi, vedi, ascolti. E ti commuovi. Ti raccontano la vita di un soldato americano che studiava all’Università, giocava a football ed è partito. Per la guerra. Lontana km e km e km da casa sua. E non è più tornato. È morto in Francia. In guerra. E non è il solo.

L'unico modo che ho per immaginare l’equipaggio di 5000 navi e non so più quanti mila aerei che arrivano dall’altra parte del mondo è quello di immaginare il contrario. I ragazzi USA sono venuti a combattere in Europa una guerra cui Hitler non aveva concretamente ingaggiato sul loro suolo natio (o meglio lo aveva sempre desiderato e pensato e provato pure a mettere in atto: ma dei suoi 007, che avrebbero dovuto far saltare ponti a New York, nessuno riuscì nell’impresa). Voglio dire, persino ad oggi, quanti ragazzi italiani sarebbero disposti a smettere di studiare, lavorare, uscire la sera, lasciare la ragazza, la famiglia, le partite a calcio, magari le uscite in moto, gli amici, per andare a combattere, e morire, che sò in una ipotetica Australia sottomessa, in un ipotetico Cile schiacciato. Magari in Afghanistan. In Siria.

Questi Americani, come i Candesi, sono venuti da lontanissimo per affrontare le tenebre che offuscavano l’Europa. E sono sbarcati in forze da quel 6 giugno 1944. Ed hanno soverchiato insieme agli inglesi, francesi e certamente i russi, finanche gli italiani, la Germania di Hitler. L’hanno chiusa. Posta al silenzio. E poi anche spartita. È difficile immaginare quale fosse il reale sentimento di un soldato, ufficiale o meno, dell’esercito Americano. Per cosa combattevano quei ragazzi? Per chi morivano? Perché non tornavano più a casa, e non facevano più l’amore come le loro ragazze? Perché gli è stato negato il futuro? In onore di cosa hanno sacrificato il loro sangue? Hanno rischiato la loro vita per cosa? Davvero per l’ideologia anti-Hitleriana? Per lo stendardo della democrazia? O forse molto più concretamente per cameratismo, senso del dovere e patriottismo?

Persino nella Grande Guerra, leggo in “La via del coraggio” che un soldato scrive “Vivere tra uomini che mangiano il loro ultimo boccone, per sempre, e danno anche il loro ultimo respiro per un amico, questo è cameratismo, il cameratismo della trincea. La sola cosa pulita nata in questa vita di crudeltà e sudiciume. Essa cresce in purezza dall’oscenità che la circonda”.

Il senso dell’onore? Lo storico Marc Bloch ha osservato, sempre ne “La via del coraggio”, che “Pochi soldati, eccetto i più nobili o i più intellettuali, pensano al loro Paese quando rischiano la vita in guerra. Semmai è al loro senso di onore personale che si appellano”. Onore signori. Onore. A me che sono italiana, la prima associazione di idee che mi viene spontanea su questa parola è la mafia: gli uomini d’onore. E non è bello. E non è l'unica associazione, purtroppo: voglio dire, in Italia è stato in vigore per legge il delitto d’onore. Abrogato solo nel 1981. Rendiamoci conto.
E non era certo quel tipo di onore che difendevano gli americani. Anzi. Credo possa essere quanto più sia vicino alla definizione di onore ne dizionario della lingua italiana: la dignità personale in quanto si riflette nella considerazione altrui, reputazione. Il valore morale, il merito di una persona, in quanto conferisce alla persona stessa il diritto alla stima e al rispetto altrui. L’onore è assimilabile all’identità morale di un individuo. Un soldato. L’intera truppa.

I soldati americani si rispettavano fra loro, avevano stima dei loro superiori. Si fidavano. Combattevano ed eseguivano gli ordini. O almeno, facevano il possibile. Perché qui, sono ad Omaha Beach. Qui non c'è il possibile. Qui c'è stato l’im-possibile. Da immaginare.

Io sto camminando su suolo americano. Perché questo cimitero è terra degli Stati Uniti d’America. E l’oceano é di fronte a queste 9.387 croci in marmo bianco di Carrara, perfettamente allineate in qualunque direzione tu possa camminare. E non finiscono mai. Mai. Mai. Tu cammini e non finiscono mai. Io a dire il vero cammino sulla via affianco all’Oceano. E pure quando mi dirigo verso il centro del cimitero, commino sulla via pedonale. E poi mi fermo perché sento delle campane che suonano a morto. Ma non sono vere, il suono arriva da un altoparlante. Non capisco subito. Vedo movimento in una zona. Si raggruppano tutti lì, a passi veloci. È il primo ammainabandiera. Come nei film. O quasi. Poi accanto di nuovo: altoparlanti risuonano una musica militare. E la seconda bandiera americana scivola giù. Fino a toccare i lembi le mani di chi deve piegarla. Sembra un’operazione di routine. Non sento particolare trasposto in tutto ciò. E poi vi assicuro c'era il mondo. Turisti ovunque e cellulari ovunque. E mi avvicino. A quel prato. È verdissimo. Pulitissimo e cammino. Ma non oso, noto, addentrarmi. Non ci riesco. Non riesco a camminare lì sopra. Rimango ai confini. E ho bisogno sempre del supporto onnipresente dell’Oceano. Ogni onda mi sussurra “Sono qui. Ci sono io”. E cammino in silenzio. E vorrei scattare anche io fotografie. Ma qui è diverso. Non c'è “ricerca” di una particolare inquadratura. O scelta di colori, primi o secondi piani. Qui ti accorgi che il tuo cellulare e una qualsiasi foto appaiono infinitamente stupidi. Inutili. Insignificanti. Non hanno nessun valore. Sono superflui. Qui sono riuscita appena a scattare foto alle stelle alla base delle aste che sorreggono le bandiere. Qui, ho scattato foto a due nomi: mi hanno lasciato una tenerezza, immagino dalle origini italiane: Mario A. Boni - New Virginia e Angelo Rizzuti New York. Quando sei qui, non riesci a cercare un nome particolare tipo Roosvelt per esempio. Qui, non riesci a connettere. Quelle croci bianche su quella distesa infinita di prato ti inglobano. Ne sei sopraffatto. Non ne vieni fuori. L'unica cosa che viene fuori è il mal di pancia. Una voragine. Un mal di testa, fastidiosissimo. Il cimitero americano l’ho percorso solo sui confini. E sono arrivata al “Giardino dei dispersi”. Incisi sul suo muro 1.557 nomi. E fa impressione. Credimi.
E sono proprio i nomi dei soldati ad avermi più di ogni altra cosa devastato in questo cimitero. O meglio nel suo Memoriale. Perché tu non lo sai, ma mentre cammini all’interno del Memoriale, tu leggi cose e vedi cose. Ma da un certo punto in avanti senti una voce femminile. Incessante. Martellante. Penetrante. Tanto che vorresti metterti le mani alle orecchie e dire “Basta ti prego, basta. Non ne posso più.” Il senso dell’udito ti spacca lo stomaco. Quella voce, quei nomi ti entrano dentro. E sai che sono i nomi dei soldati, dei ragazzi, che avevano vent’anni, ed erano belli come il sole che sono morti per te. Ogni nome è la storia di un ragazzo la cui vita si è spezzata, sacrificata per la libertà che sto camminando. Respirando. E quei nomi, ognuno di essi, è americano. E quando attraversi quel corridoio grigio che ti appare il più lungo della terra, ed ogni tuo passo lo senti pesante tonnellate, non puoi non fermarti. Un attimo. È da lì che arriva la voce. Ed è da lì che entri in una stanza ovale bianchissima. E sono lì, affissi i volti di alcuni militari che sono morti in Normandia. Ed in quel cimitero i loro corpi sono sepolti.

E c'è una vetrina. E mi commuovo. Un fucile piantato su pietre, l’ elmo sopra il suo calcio. Essenziale. Ne avevo dipinto un acquerello anni e anni fa. Di una poesia scritta da un soldato. Quasi un centinaio di anni fa. Null’altro che quel soggetto era nella mia testa. Nelle mie mani. Carezza su acqua.

Ma, prima di uscire da quel Memoriale, prima di camminare sul quel prato verde di fiori di marmo bianchissimo, mi siedo. Ho solo chinato la testa, nel vuoto e ho pianto.

Poi, avevo bisogno dell’Oceano, affianco a me.

Non so quanto tempo io sia stata lì. Sospesa. Nel vuoto e nel nulla. Ma quando sono uscita dal cimitero il parcheggio si stava svuotando. Una, due moto. Ed io volevo ancora una cosa. Scendere a prendere la sabbia di Omaha la sanguinosa.

Ci arrivo. E sono felice che la logistica della situazione mi imponga attenzione più a come parcheggiare la moto che su altro. Sterrato e pietre. Rosse.

E guardo questa spiaggia ed il suo monumento. Ed è la più bella fra tutte. Semplicemente perché è la più piena di tutte: di bambini. E asciugamani, e colore, e fidanzati e famiglie e ragazze e ragazzi. Omaha è colore. È quella speranza che ti buca l’anima e di cui hai bisogno di aggrapparti fino all’ultima goccia. Omaha è la voce dei bambini ed i loro castelli di sabbia. Ed è solo è solo quella la sabbia che raccolgo: il loro passi di gioco, le loro piccole mani che costruiscono.

Nessuna foto. Nemmeno per scelta. Ma tanto, non sarei stata in grado. E risalgo sulla moto. E percorro lentamente, tutta la strada lungo quella spiaggia.
Il 6 giugno 1944 l’Oceano aveva il colore del sangue, qui. Qui sono morte 4.400 persone. Qui, uno dopo l’altro 27 carri armati affondarono. Qui, “Le imbarcazioni avanzavano. Ora gli uomini potevano vedere la giungla mortale degli sbarramenti di acciaio e di cemento. Erano sparsi dappertutto, coperti di filo spinato e incappucciati di mine. Erano orribili e crudeli come gli uomini si aspettavano.” Qui, “Lungo tutti i sei chilometri e mezzo di Omaha Beach i cannoni germanici scorticavano la flotta d’assalto. Era l’ora H. E misero piede a Omaha Beach quegli uomini malinconici che nessuno invidiava. Per loro non sventolavano insegne di battaglia, ne risuonavano corni o buccine. Ma avevano la Storia al loro fianco”. Qui, un soldato, un uomo, quasi sono riuscita a vederlo “ Stava là gettando sassi nell’acqua e piangendo piano come se il cuore gli si stesse spezzando”. Non si sarebbe spezzato anche il tuo? Non avresti pianto anche tu? Io si. Io piango mentre scrivo, a te.

Non si può immaginare quel che è stato a Omaha Beach. Ma ti assicuro, ne avverti il riverbero delle vibrazioni.

E sono stanca. E ho mal di pancia. E mi fanno male le spalle mentre guido. Il mio collo avverte tensioni sconosciute. E voglio andare via. Via. Via. Basta. Voglio solo più pensare al cibo. Perché i vivi mangiano. Si nutrono. Ed io ho fame. Voglio un supermercato. Voglio mille corsie di cibo. E nemmeno so come, te lo giuro, finisco a Bayeux. E trovo il mio supermercato e manca un quarto d’ora alla chiusura. Zucchine, frutta, pane, pomodori, un dolcetto.

Torno in campeggio. Mi preparo il mio buon pasto e tempo nemmeno di cucinare il sugo per la pasta e la bombola del campingas mi abbandona. Non ci credo. È finita. Zero gas. Zero pasta. Ma porca troj@. Amen… troverò altro. Tanto più che questa sera a Luc sur Mer ci sono i fuochi d’artificio.

E l’atmosfera è la più bella che potessi mai vedere a Sword Beach. Festa. Tutti fanno pic nic sulla spiaggia, tutti organizzatissimi, le famiglie, gli amici. Asciugamani e tovaglie, bottiglie di vino freddo e piatti… E sorridono! Chiacchierano… Mangiano e brindano in compagnia… e i bambini lanterne di luce, sfilate ad illuminare il loro futuro, il futuro del mondo. Hanno illuminano i miei pensieri. È così armonioso quello che sento attorno a me che vorrei Renoir seduto qui, vicino a me. Lui sì, sicuro avrebbe capito cosa stavo provando, lui sì, sicuro avrebbe dipinto i colori delle mie emozioni. Avrebbe ritratto quella spiaggia, vestita di vita. Profumata di dolcezza e allegria.

Ed arrivano anche i fuochi e fa paura il rumore che si disperde sull’Oceano. E non puoi non pensare a cosa poteva essere il fragore del bombardamento navale e aereo. Ma, ho una coppia di fronte a me. Motociclisti. Seduti sulla sabbia, lei appoggiata su lui. Il casco accanto. E penso ad una cosa sola: Voi giovani che siete morti su queste spiagge, avete donato la vostra vita per questo. Per questa coppia. Per tutto l’amore da cui mi sento avvolta questa sera. Una coperta.

E torno nel locale dove ho iniziato questa giornata.
Troppo densa per essere digerita.
Ho bisogno di una birra.
 
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15867641 Inviato: 29 Ago 2017 14:52
 

...faccio il possibile per colorare un po' và....
Vurrja mai che tutta sta giornata fosse da endovena pure per il "malcapito" lettore o lettrice....



Saint Aubin sur Mer Sword Beach...
 
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15867692 Inviato: 29 Ago 2017 17:02
 



Courselles-sur-Mer. Juno Beach.
 
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15867698 Inviato: 29 Ago 2017 17:19
 



Arromanches-les-Bains. Gold Beach.
 
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15867699 Inviato: 29 Ago 2017 17:21
 

Grazie per tutte le emozioni che regali, le sensazioni che sai condividere con tanta intensità ma con, almeno apparentemente, semplicità assoluta...
È sempre un piacere leggerti, confesso che ho imparato ad aspettare la fine dell'estate per scoprire i tuoi racconti icon_smile.gif
 
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15867717 Inviato: 29 Ago 2017 18:15
 

Mi fa sempre strano vedere che qualcuno "casca" da queste parti e legge le mie prolisse e prolisse righe...

E che tu abbia lasciato traccia del tuo passaggio in un post, oppure no, ti ringrazio sempre, per il tuo tempo qui dedicato.
Nulla è scontato.

Proseguirò nel racconto fino all'ultimo giorno, in cui la moto torna da dove è partita. Ed io pure...

Grazie per la tua pazienza...
To be continued...

atram 0510_saluto.gif 0510_saluto.gif
 
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15868046 Inviato: 30 Ago 2017 13:36
 

Atram... sei grande! Leggerti mette i brividi, una frazione di quelli che ti scuotevano durante il tuo viaggio.
Leggere questa tua esperienza sui luoghi della Seconda Guerra Mondiale mi ha fatto venire voglia di prepararmi (facendolo bene, come hai fatto tu), ad un itinerario sui luoghi della Grande Guerra... che da Padova sono ad un'ora di strada (in realtà molto meno dato che l'armistizio del 4 novembre è stato firmato qui). Asiago (nel sacrario ci sono più di 50.000 soldati tra italiani ed austoungarici, la maggior parte senza nome), le Dolomiti, la Carnia:
le nostre moto piegano sulle curve disegnate dai soldati di quella Guerra, passando più e più volte i vecchi confini.

GRAZIE Atram, adesso mi metto a studiare e poi, forse, se ne avrò la forza, vi farò sapere.
Aspetto il seguito.
 
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15868514 Inviato: 31 Ago 2017 11:35
 

MARTEDÌ 15 AGOSTO DA LUC SUR MERE A CAEN E RITORNO : VIA.
Memoriale della pace - cimitero inglese -


Oggi comincia il viaggio.

Nella notte ho avuto freddo, ma pare che sia sole questa mattina. Ed ho due appuntamenti: colazione con l’Oceano e il Memoriale della Pace di Caen.

Sapevo che avrei fatto colazione allo stesso locale, caldissimo, solo da ieri.
Sapevo che avrei visitato il Memoriale dal primo giorno che ho pensato alle spiagge dello Sbarco.

Di Caen non mi interessava altro. Sebbene ci sia stata una durissima battaglia qui, che ha visto coinvolti entrambi gli eserciti Alleati e Tedeschi pronti entrambi alla più totale distruzione, quale è avvenuta, di Caen ho bisogno di una cosa sola. Il Memoriale. Se sei qui, proprio non puoi perderlo. Non puoi, davvero.

Prima però quella dolcissima colazione. Una coccola di quel tipo sarà difficilissima trovarla altrove. Tutto, dal locale, a come ti accolgono come ti servono, tutto mi piace di questo caffè-restaurant. E al mattino si sta da favola. E oggi voglio proprio prendermela comoda. Ho una solo meta che comporterà, lo so già , minimo quattro ore di visita. Ed io non batto ciglio. Anzi. Ne ho trascorse altrettante nei musei della mia Torino, figurati se non reggo queste ore a Caen.

E sono serena, questa mattina la guida sul D-Day è rimasta in tenda. Ci sono solo io e il mio te e pane e marmellata, un croissant e il succo di arancia. E l’Ocean… Cosa vuoi di più dalla vita? Nulla. Credimi. Anzi no, io voglio due o tre cartoline bellissime del negozio qui di fronte a questo bar: dipinti di acquerello di paesini che ho riconosciuto come Honfleur e di questa spiaggia e queste cabine… ed è tutto colorato. Amo i colori. A volte ne sento il bisogno.
Passeggiata sul lungo mare e poi con tranquillità mi preparo. Niente paraschiena. Caen non è lontanissima. E nemmeno niente più piumino sotto la giacca. Che sì, qui ho guidato così: sono una freddolosa…. Gran casino in moto. Col caldo ti puoi spogliare, aprire tutte le fessure della tenuta tecnica e viaggiando aria entra. Almeno un po’. Ma se hai freddo, te lo tieni e sai già che non può che aumentare col tempo. A meno che non esca il sole.

Ci siamo. Via. E però, la strada che percorro mi porta a fiancheggiare un’area delimitata: lapidi bianche nel suo interno. Non so quante fossero, ma erano tante. E giro la moto e torno indietro. Sono qui, ho tempo a disposizione e voglio entrare in questo cimitero. Inglese. La Dèlivandre: 927 tombe, scopro esserci. Nessuna particolare segnalazione o ingresso maestoso. Tutto è la semplicità. Ed avverto qui, sola ed unica visitatrice, in questo silenzio, su questo prato verde di sole, quell’atmosfera che si immagina avvolgere un cimitero: raccoglimento. Su ogni lapide c'è il nome del soldato e lo stemma inciso del corpo militare di appartenenza. Sembrano opere d’arte queste insegne così scolpite, di alloro e corona reale. È come se lasciassero quel sapore di Casata, di nobiltà suonata persino da cornamuse a stoffe scozzesi. Ogni colore un Clan. Una famiglia. Un figlio morto. E c'è qualcosa che risalta fra quel verde e quel bianco. Quel tetto color smeraldo sullo stipite bianco della propria lapide come porta d’ingresso di ogni soldato, nell’oltretomba. È una ghirlanda rossa, delicata, appoggiata ad una lapide. Mi avvicino e per farlo devo camminare sul prato. Come chi ha depositato quei fiori proprio lì davanti e su essi un biglietto: “Grateful thanks to John from the people of Edingley for your sacrifice”. Quel piccolo ma significativo pezzo di carta scritto di pugno è l’Oggi riconoscente. E l’autore voleva così bene alle sue parole, e così altrettanto ne ha avuto cura del luogo di destinazione, che ha messo una busta trasparente attorno ad esse, per evitare che la pioggia potesse sciacquarle via. Ho scattato una foto a questo particolare. Il Grazie per il sacrificio. Questa cosa mi ha toccata. E qui, ogni lapide bianca, ogni ultima pagina di un libro finito troppo presto, è presente una frase. Come una citazione. Un pensiero. Una può scuoterti e lasciarti voragini di riflessioni: “They never fail who die in a great cause. Byron”. E ne sono convinta: non falliscono mai quelli che muoiono per una grande causa.

È stata guerra civile in Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre che ha lasciato allo sbaraglio un esercito di uomini. E di donne e bambini e anziani. Il popolo italiano. Chi ha vissuto quegli anni di orrore ha sorretto più che mai sulle proprie spalle il peso di una scelta. La responsabilità di una decisione. Scegliere da quale parte stare. In quali valori credere. Per quali principi combattere. E per essi, anche, morire. E sono morte migliaia di persone in Italia. In questa guerra dalla stessa lingua, suddivisa però fra bandiere nere e rosse o solo drappi e simboli e idee di qualcosa che stava già nascondo. Magari la democrazia, quella del tipo cui il popolo governa sè stesso.
E mi viene in mente Aldo e il suo magnifico e straziante libro “Possa il mio sangue servire”. Un uomo, un padre, un comunista, soprattutto un resistente, Eusebio Giambone scrive alla figlia dodicenne, nella sua ultima lettera prima di essere giustiziato dai fascisti, parole che incidono la coscienza, di qualsiasi lettore. “Il tuo papà è stato condannato a morte per le sue idee di Giustizia e Eguaglianza. […] Per me la vita è finita, per te comincia, la vita vale la pena di essere vissuta quando si ha un ideale, quando si vive onestamente, quando si ha l’ambizione di essere non solo utili a se stessi ma a tutta l’Umanità”. Muore fucilato al Poligono di tiro del Martinetto il 5 aprile 1944. Nella mia città. Aveva 41 anni. La mia età. Io, non sono niente, non sono nessuno. Sento solo che a fallire, sono io. Cosa sto facendo di tutto ciò che ci hanno lasciato? Sono morti per chi? Che cosa ne è stato fatto del futuro che loro non hanno mai vissuto? Eusebio e mille altri con lui, avrebbero potuto avere inciso lo stesso epitaffio di quel soldato inglese, sepolto a Delivandre.

Comincio ad avere caldo e ancora una tomba mi lascia una lacrima priva di acqua. Non sapevano di chi fosse quel corpo, temo nessuno potesse più riconoscerlo. Non sapevano nemmeno quando e per quanto tempo avesse combattuto, ma era un soldato. Caduto in guerra. Una grande croce bianca nel centro della lapide. E quella scritta di cui già ho accennato “Know unto God”.

Via. Via di qui. Moto. Un po’ d’aria, strada, asfalto. Rotonde e traffico. E arrivo a Caen. Parcheggio motina e ogni volta che lego il casco al manubrio col filo-lucchetto da bici, penso sempre ad un amico motociclista che me lo aveva consigliato… Ché sì, gli amici motociclisti mi hanno dato una mano nella preparazione tecnica delle robe per la moto… Molto già c'era dai Pirenei, ma quel lucchetto lì è stato un consiglio geniale.

I miei genitori, che sono stati in Normandia più di una volta, mi avevano vividamente consigliato di visitare quel Memoriale. Anzi IL Memoriale. Ed avevano assolutamente ragione. Il solo fatto che esista dà da pensare. Ed è riconciliazione ogni suo rimando. Il fine ultimo è e resta uno solo: la Pace. Questo museo è nato dall’idea di un uomo, Jean-Marie Girault. Probabilmente il seme che avrebbe germogliato molto più tardi, si era già depositato quel 6 giugno 1944. Aveva 18 anni, era un volontario della Croix-Rouge française. Croce Rossa Signori. Croce Rossa. Movimento nato in Svizzera, nel 1863 dalle menti di cinque brillantissimi uomini, medici e generali, che non vedevano differenze nel colore del sangue dei soldati. In piedi e poi sdraiati sulle terre battagliate ed insanguinate di Solferino e San Martino nel 1859. Soccorso medico umanitario, neutrale e imparziale. A cui hanno aderito ad oggi 190 Paesi. I medici non hanno frontiere. Lo sappiamo anche noi nel 2017.

Ero sdraiata a prendere il sole in spiaggia, sotto il mio bell’ombrellone e non pensavo ad altro che crogiolarmi. Diverse estati fa. E ringrazio all’infinito sempre il piacere della lettura. Quella che persino arriva da giovani mani di colore che hanno viaggiato chissà quanto e chissà qual è la loro storia. Mi riferisco ai ragazzi che in spiaggia ti vendono libri, poesie africane, favole africane, addirittura ricette africane. E guerra africana. Costa d’Avorio. Mi aveva colpito il titolo “Un giorno come tanti” e l’autore: un dei medici di “Medici Senza Frontiere”. Italiano, Mirco Nacoti. Terapia intensiva, pediatrica. Doveva rianimare d’urgenza un bambino di 2 anni. Lì, in Costa d’Avorio. Scrive Mirco “Rianimare costituisce un non luogo. È un non luogo di cui puoi talvolta percepire la sacralità inviolabile. Ma devono esserci ordine, silenzio e rigore. E poi devi sperare che in quella zona e in quel tempo di nessuno ci sia qualcuno che si impossessi delle tue mani, dei tuoi pensieri, e riconduca tutto in territori e tempi più umanamente commensurabili”. Quel bambino non si salvò. Morì. Sotto gli occhi di Mirco. Era il 2004. E in Costa d’Avorio è ancora Guerra.

Quanti, fra giugno e luglio morirono sotto gli occhi di Jaean? Quale “ordine, silenzio e rigore” avevano i medici soldati nella seconda guerra mondiale? Quello dei bombardamenti? Quello delle macerie? Quello di grida disperate? In quali condizioni pazzesche operavano? Quanti uomini e donne e bambini e anziani morivano fra le loro braccia? Non lo so. Non sono capace di immaginarlo. Ma a Caen è stato così. Si moriva. Sempre. Per almeno altri 30 giorni dopo lo sbarco. Un mese. Ed i nazisti sono stati i primi ad uccidere, già dalle prime ore del 6 giugno 1944: 75 prigionieri vengono fucilati nel cortile della prigione. E la guerra era accanita fra i 40 carri armati della temibile 21a Panzerdivision, e gli Alleati cui dovevano sbarcare i numerosi rinforzi. Qui a Caen a comando del generale Montgomery. 7000 morti solo nell’esercito alleato. E bombardamenti incessanti su tutta Caen: 2500 tonnellate di bombe in meno di un’ora. I ricoveri fra le fiamme e le macerie e la distruzione e la desolazione sono una scuola e un’abbazia. Saranno stati ricovero persino per la memoria? Saranno mai riuscite quelle persone a depositare da qualche altra parte fuori dai propri sensi, i ricordi? Assistiti anch’essi?

Il Memoriale della Pace di Caen è stato costruito su un sito particolare. Piuttosto significativo: il bunker posto di comando del generale Wilhelm Richter comandante della 716a divisione di fanteria. Non sono riuscita a visitare il bunker, fuori nel giardino del Memoriale. Non ne potevo più. Volevo solo più uscire, a fine visita, volevo solo più andare via.

Quando sei davanti al Memoriale ne senti subito la sua imponenza e semplicità. Una frase percorre tutto il lungo, alto muro bianco: “Il dolore mi ha stroncato, la fraternità mi ha risollevato, dalla mia ferita è sgorgato un fiume di libertà”. Sei sull’ Esplanade “General Dwight D. Eisenhower”. Ad accoglierti i colori delle bandiere sprigionanti energia nella loro danza al vento. A sventolare ognuna la loro propria storia. Qui condivisa. C’è persino una scultura che mi fa sorridere: ho una maglietta uguale, solo che nella mia, poi spunta fiore dalla canna… È una pistola con un nodo appunto alla canna.. La scultura è in ferro… quasi cerco un fiore…

Un controllo veloce alla mia borsa prima di entrare, per fortuna nessun ingresso con porta metaldetector… Appena all’interno del Memoriale ne rimango subito sbaragliata. L’ingresso è enorme. C’è un aereo da guerra posizionato come se stesse volando davvero. Mi pare sia gigante. E mi viene in mente un passo che ha dell’eroico ne “Il Giorno più lungo”. E sono tedeschi i protagonisti. E sono solo due. Per tempra e coraggio l’ho adorato il tenente colonnello Josef “Pips” Priller, uno dei più grandi assi della Luftwaffe. Uno che non aveva mezzi termini con i suoi superiori al comando. Diceva quello che pensava senza alcuna remora. Fatto è che il suo stormo di 124 aerei in Normandia non c’è. Due giorni prima l’Alto Comando ne ha ordinato il suo trasferimento. Spassoso leggere che “Il linguaggio di Priller, secondo la sua successiva ricostruzione, è assolutamente irripetibile.” Chissà quali santi non ha tirato giù quando l’Alto Comando gli ha ordinato di metter il suo stormo in allarme… Stormo di ben n 2 aerei tedeschi a difendere oltre 6km di coste della Normandia, quel 6 giugno 1944. Poi gli comunicano che l’invasione é cominciata. Deve “attaccare”. La cosa più bella? Si preoccupa e raccomanda col suo pilota del secondo aereo: Wodarczyk. “Stammi a sentire, siamo noi due soli. Non possiamo permetterci di dividerci. Per l’amor di Dio fai quel che faccio io, esattamente. Volami dietro e segui ogni mio movimento”. Ma il sanguigno Priller sapeva bene anche un’altra cosa: avrebbe potuto essere il loro ultimo volo: “Andiamo là da soli, noi due. E non credo torneremo indietro”. E decollano e sono sopra un’armata di 5000 navi. E virano e virano ancora, e schivano colpi e ancora sono veloci. Fino a quando il fuochista di prima classe Robert Dowie imbarcato sull’inglese Dunbar, vede tutti i cannoni contraerei della flotta aprire il fuoco contro Priller e Wodzarczyk. “I due caccia passarono intatti attraverso quell’inferno, virarono verso terra e finirono in alto, nelle nubi”. Questo tipo di azione con questo tipo di risultato, permise a Dowie di disconnettersi dalla guerra in sè e di apprezzare le doti di coraggio, sangue freddo e tecnica di due combattenti, due piloti dell’aviazione tedesca. Tanto che egli disse “Tedeschi o no, buon fortuna, ragazzi, avete del fegato”.

Non so, ma, è come se ci fosse per esclusive nicchie di reparti di una forza militare, quale. He sia la bandiera, una forma di rispetto per il nemico. La sua tattica, la sua preparazione. E forse nell’aviazione, è così. Le battaglie aeree diventano veri e propri duelli nel cielo. Il “Barone Rosso”, Manfred Albrecht von Richthofen, ha fatto storia nella Prima Guerra Mondiale.
 
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15868515 Inviato: 31 Ago 2017 11:36
 

Ed è propio dalla fine di essa che comincia il Memoriale della Pace di Caen. Pago e ritiro in reception il mio “registratore-audio-guida” in italiano che per altro è davvero funzionale: è tipo un cellulare con pochi tasti. È sufficiente comporre il numero con cui viene presentata ogni area e cominci ad ascoltare l’audio. Ce ne sono circa 30. In alcuni, sono presenti pure gli approfondimenti. Che ho ascoltato per intero. Nell’assurdo di tutto, sono contenta di essere proprio qui e di rimanerci altre quattro ore.

Inutile dire che l’intero percorso è strutturato in modo estremamente aderente ad una cosa sola: i fatti. È complicatissimo il lavoro dello storico. È al di sopra delle emozioni. Dei legami personali, di simpatia o antipatia per questo o quello. C’è perfino un audio specifico su questo punto. Ed é un bene che sia così. A passeggiare qui siamo in tanti: francesi, spagnoli, inglesi, olandesi, giapponesi, tedeschi e italiani. E certo da altre parti del mondo saranno venute qui in visita le persone. E sarebbe interessante scoprire e capire con quale spirito entrano e cosa gli resta quando escono.

Sarò più precisa: la Seconda Guerra Mondiale colloca i paesi europei e del mondo in due fazioni. Gli Alleati, contro il nazismo di Hitler. I liberatori contro il totalitarismo. Ed è qui che viene rappresentata l’Italia. Una gigantografia di Mussolini, nel pieno del suo vigore. E non poteva essere altrimenti. Noi italiani non siamo i “liberatori”, noi non siamo dalla parte dei “bravi” (non certo privi di interessi), la nostra storia ce lo conferma, lo dimostrano i fatti. Basta leggere la dichiarazione di guerra alla Francia e Gran Bretagna di Benito Mussolini, o meglio ancora ascoltarne il suo discorso agli italiani il 10 giugno 1940. Era acclamato da folle intere in piazza in tutta Italia. Fa impressione, ve lo assicuro, prendetevi il dis-piacere di vederlo: l’Istituto Luce è un pozzo incredibile, fonte di documenti storici che sono le radici della mia Italia. Eppure già allora, c’erano personalità vibranti di tutt’altra idea e principi. Beppe Fenoglio uno di questi: alla sconfitta Italiana di El Alamein lui esclama “Finalmente!”. Leggendo quel meraviglioso libro di Cazzullo che mi ha ribaltato l’anima, “Possa il mio sangue servire”, scopri una scena fantastica riguardo quel 10 giugno 1940. Ed era Torino, e posso quasi sentirla per strada uscire da una finestra quell’energia: La Marsigliese. Messa a tutto volume da Edgardo Sogno Rata del Vallino, che al “Vinceremo” del Duce si sintonizzò sulla radio francese. Al discorso del primo ministro Dalaidier era seguito l’Inno Nazionale. Che lui aveva deciso di far arrivare a tutto il suo quartiere: era quella, la Francia, la Nazione cui si andava a combattere. Contro.

Il Memoriale di Caen ha il coraggio di mostrare ciò che è stato. E in ciò che è stato, anche in Italia, è ben descritto in un audio cui sono stata contenta di ascoltare: è un giornalista straniero che racconta di aver visto camice nere in piazza e comunisti riunirsi di nascosto come i primi cristiani. Il tono ovviamente è rammaricato. Ma c'erano. Quelli che la pensavano diversamente, ci sono stati. E sono le personalità italiane, che hanno fatto La Resistenza. Hanno messo le fondamenta per la nostra Repubblica così come la conosciamo. Le basi della nostra Costituzione.

Il Memoriale di Caen ti aiuta a conoscere l’Italia e il posto che ha avuto nella storia del conflitto, col punto di vista esterno. Ovvero come l’Europa e il mondo hanno considerato il nostro Paese durante la Seconda Guerra Mondiale. Un Paese che “nemmeno” era riuscito ad invadere la Grecia. Me lo ricordo bene quel “nemmeno” nell’audio. Eppure anche la Grecia è stato teatro di morte dei soldati italiani per mano dei nazisti. L’Italia al Memoriale di Caen è lo sbarco di Anzio, è lo sbarco in Sicilia. L’Italia è il Paese combattuto dagli Alleati. L’Italia è il Paese che firma un Armistizio dalle conseguenze micidiali, causate anche da un fuggi-fuggi generale degli Alti Comandi.

Ma a Caen sono coerenti. Raccontano i fatti. E c'è qui, una sezione dedicata solo alla “Strana Guerra” ed il modo che hanno avuto i francesi, a Parigi in particolare, di “accogliere” i nazisti di Hitler. Ci sono fotografie di ragazze francesi in costume a prendere il sole che ridono e scherzano con i soldati tedeschi: anche loro ad abronzarsi. Una parte della Francia ha collaborato con la Germania. L’altra parte però, veniva braccata, torturata e uccisa. Anche nella bella Parigi.

E dopo quello che ho letto sulla risposta nazista ai resistenti italiani, sempre su quel terribile libro di Cazzullo, non mi è difficile immaginare cosa abbiano passato anche i resistenti francesi. A Torino il centralissimo albergo “Nazionale” era luogo di torture inenarrabili. Ti dico solo che quando ho visitato il Museo Diffuso della Resistenza a Torino, in una video testimonianza, un partigiano, un uomo, ormai anziano, abbassa gli occhi e quasi piange, e non pronuncia una sola parola su ciò che trovò, quando entrò, in quelle stanze.

Probabilmente qualcosa che Jean Moulin, uno dei capi della Resistenza francese, subì incessantemente dai nazisti. Tanto che persino qui al memoriale è scritto che è morto per le sue stesse ferite. Inferte. Ed è ben documentata anche questa zona dedicata alla Resistenza. Al discorso di De Gaulle. Ai maquis du Vercors. Il mio Vercors che tanto ho adorato in moto quando sono andata a fare un giro in questa primavera. Ed un tratto di strada, già lì, mi aveva trapassata: il suo Memoriale. Rastrellamenti, fuoco e fiamme di paesi interi. Orrore e morte. Sorte tragicamente comune a non so più quanti paesi italiani. Che a leggerne sul libro di Cazzullo, tu, vomiti. Piangi e poi vorresti solo vomitare. Uno a caso Sant’ Anna di Stazzema. Morti 560. Di cui 130, ripeto, 130 bambini. Devi immaginarli 130 bambini ciascuno attaccato alle gambe della sua mamma, in braccio al suo papà. Presi di soprassalto dalla violenza nazista. E, fascista. Perchè sì, c’erano anche italiani ad uccidere italiani. Fu un atto di terrorismo. Ed è pazzesco, che io scopra da internet, la presenza di un armadio, a Roma, negli scantinati della sede attuale del Consiglio della Magistratura Militare, rimasto chiuso per 40’anni con le ante verso il muro. L’armadio della Vergogna conteneva documenti fondamentali per la ricostruzione dei fatti. Di più di un eccidio, accaduto in Italia, per mano addirittura tricolore.


Ma, se qui a Caen, camminando lungo tutto il percorso, col mio braccialetto verde, bianco e rosso al polso, mi sento io a disagio, triste, provata, angosciata e arresa per ciò che l’Italia di Mussolini è stata e ha fatto in guerra, come mai si sentiranno i tanti tedeschi che vedo accanto a me? Te lo dico: piangono. Perchè in questo Museo che come una macchina del tempo ti porta nel 1940 e oltre, nei luoghi e nelle emozioni della Storia, c’è una zona dedicata solo agli ebrei: Sterminio. Addirittura in un angolo particolare c’è una scritta preventiva che raccomanda l’ingresso non ai bambini. Che sì, qui di bambini ce ne sono tanti, un po’ sono attratti dai video, un po’ si annoiano, i più grandicelli ascoltano anche loro l’audio. Ma è un audio apposta studiato, accessibile e decodificabile dalle loro orecchie, e forse, emozioni.

Ma tanto ovunque tu sia, in questa zona stai male. Ci sono le stelle di David, i quaderni dei bambini francesi ebrei, e quanto ho odiato la mia ignoranza nella lingua francese lo so solo io. Non ho potuto leggerli e capirli. Ci sono i purtroppo famosi, abiti a strisce. Ci sono le testimonianze, e non so dirti quale sia la più devastante. Lo sono tutte. Uomini e donne sopravvissuti in Ucraina che hanno visto con i loro occhi cosa è accaduto per mano nazista: bambini uccisi a calci. Gente che scava fosse. Si spoglia e muore mitragliata. E ci sono foto. E se tu ti fermi, le vedi bene quelle donne in fila con i figli in braccio. Nude e spaventate. In attesa di essere fucilate. Il loro crimine? Essere ebree.

Signori, io sono italiana, io abito a Torino. Torino è la città di Primo Levi. Non sono mai riuscita a leggere “Se questo è un uomo” in un unico periodo. Ho dovuto, vergognosamente ne sono consapevole, prendermi delle pause. E se non credo nelle preghiere credo certo in ogni singola parola di Primo Levi, da lui scritta e lasciata a me, a tutti noi, a tutto il mondo. Come monito, se non, giusta, minaccia:

Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e i visi amici:
considerate se questo è un uomo,
che lavora nel fango,
che non conosce pace,
che lotta per mezzo pane,
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna
senza capelli e senza nome,
senza più forza di ricordare,
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore,
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca
i vostri nati torcano il viso da voi.

Le avrò scolpite io nel mio cuore? Ci sono davvero riuscita? E tu?
Sicuro le aveva con se la signora tedesca seduta accanto a me. Il video muto. In bianco e nero. Un bambino ebreo, lo scheletro di ciò che fu, sdraiato sul marciapiede. E a decine le persone ben vestite, ben in carne, che camminavano avanti ed indietro per negozi, totalmente incuranti, indifferenti, a quel piccolo corpo. Di un bambino. Entrambe piangevamo. Per un attimo ci siamo guardate e quasi, abbracciate.

Perchè sì, qui a Caen, ad un certo punto, senti il bisogno di un abbraccio. Che non è arrivato. O meglio, non sulla mia pelle. Perché il resto sì, è stato l’abbraccio del mondo libero agli oppressi. Ed è cominciato con il D-Day, lo sbarco del 6 giugno 1944, l’inizio di uno spiraglio di luce fra le tenebre. E tutto ciò che ne è conseguito: la battaglia di Normandia, l’avanzamento, la Grande Armata Rossa, il cuneo, l’accerchiamento della Germania. La presa di Berlino. Il suicidio di Hitler. Il suicidio dei membri dell’Alto Comando, ognuno nella sua casa. Tutto sapientemente documentato.

Arrivo alla fine di questa visita stremata. Ultimo video dedicato al processo di Norimberga. E ci sarebbe da aprire un’altra grande parentesi su questo evento storico cui non pongo la dovuta attenzione. Nessun generale tedesco si dichiara “colpevole”. Sembrano persino uomini comuni, vestiti in abiti civili. Uno, non so chi, mangia noccioline mentre gli si mostrano i filmati dei campi di concentramento. E sono condannati a morte. Definita nel video “dignitosa”: pastiglie di cianuro.
Questo pugno di uomini, che teneva le redini di una Germania, un popolo, alla fine nazista, non so più fino a che punto, sono morti per crimini di guerra, crimini contro l’umanità, crimini contro la pace. Leggi internazionali già esistenti nella Convenzione di Ginevra.

Prima di uscire dal Museo, è presente ancora un breve percorso storico che entra nel dettaglio dello sbarco e della battaglia di Normandia. Qui, ciò che più mi fa impressione sono i libri bucati, trapassati dai proiettili. Ogni singolo libro poteva essere un soldato. I libri non sanguinano. Le persone sì.

Ultimo, servito come gran finale, ad accesso libero, un film della durata di non so quanto tempo. Ma la sala è un vero e proprio cinema. Ed io mi siedo, se non accascio, su una poltrona. Il video è simile a quello di Arromanches, il nesso è lo stesso, il prima e il dopo. E qui però, non sono le immagini a nutrirmi di riflessioni, piuttosto le esclamazioni degli spettatori. Inglesi. Hanno detto solo “Churchill”. Ma è il modo in cui lo hanno pronunciato, stupiti e felici di essersi riconosciuti in lui e nelle sue parole, in uno dei suoi celebri, accorati, forti discorsi, accennato anche qui durante il film:

“Non ho altro da offrirvi che sangue, fatica, lagrime e sudore». Abbiamo di fronte a noi un cimitero dei più penosi. Abbiamo di fronte a noi molti, molti lunghi mesi di lotta e di sofferenza. Se chiedete quale sia la nostra politica risponderò: di muover guerra, per terra, mare e aria, con tutto il nostro potere e con tutta la forza che Dio ci dà, di muover guerra contro una mostruosa tirannia, mai superata nell’oscuro deplorevole elenco dei delitti umani. Questa è la nostra politica. Se chiedete quale sia il nostro obiettivo vi rispondo con una parola: la vittoria, la vittoria ad ogni costo, la vittoria malgrado ogni terrore, la vittoria per quanto lunga ed aspra possa essere la via; perché senza vittoria non vi è sopravvivenza.”

Io, italiana, posso solo constatare che l’Italia era riconosciuta nelle parole “mostruosa tirannia”, o se preferiamo “oscuro e deplorevole elenco di delitti umani”.

Non esiste nel mio retaggio storico, possibilità alcuna che io possa essere fiera di un personaggio politico italiano, dell’Italia durante la Seconda Guerra Mondiale, come quei ragazzi inglesi seduti in quella sala lo dimostravano per il loro Churchill.

Sono stanca. Confusa. Accaldata. Ho nausea e mal di testa. La storia del mio Paese ha contribuito a versare orrore nell’Europa. Da qui, non si può scappare. Da qui, si può solo rinascere.

Ed io voglio il sole. Voglio i colori. Ancora oceano. Voglio la mia moto.
E voglio andare via. Non voglio più stare qui. Torno a Luc sur Mer.

Penso e rifletto e mi pongo però una domanda: perché al Memoriale di Caen non c’era ombra di ciò che ogni singolo esercito ha perpetrato in qualunque Paese, liberato o conquistato? Troppo difficile da spiegare? O semplicemente ammettere?
Una sola parola: stupri. A livello mondiale.

Ho pianto come tu non sai, a leggere tutto quel che ho letto, da qualsiasi fonte, nel gelo del mio inverno, passato a prepararmi “tecnicamente” alla Guerra in ogni suo profilo.

“Me lo lascino baciare. Come sta? Sta bene? È cresciuto?”.
Una mamma che a piedi aveva camminato per miglia e miglia per solo sapere come stava quel bimbo generato dallo stupro di chissà quanti sodati.
Era una donna friulana o forse veneta. Nella prima guerra mondiale.

Ogni guerra è così. Ogni fottuttissima guerra.
Anche quelle di adesso.

Ma per fortuna esistono scrittori incapaci di imbavagliare le parole. Alberto Moravia “La ciociara”.
Esistono giornalisti che non temono di di raccontare i fatti, persino personali.
Finanche degli abusi fra commilitoni che combattono una stessa causa.

Ho la bocca amara. Non ne posso più. Voglio andare via.

E adoro, sentire mille volte le voci dei bambini. La mia moto è bellissima lì fuori. Ho già preparato il borsone fluo… Mi chiudo nella tendina, e un po’ dormo. Forse, sogno. Sorrisi.
 
15868520
15868520 Inviato: 31 Ago 2017 11:47
 

... Scusate per l'attesa ...ma a l'è tut un casin...

Si è impallato pure il tablet...
Insime alla mia vita quotidiana: lavandini della cucina otturati... Sai che gioia sturare... Ho fatto un macello.......

Ma volevo finire di scrivre anche questo 15 agosto...


Ps Piecio_Point: sono sicurissima che un itinerario sulla Grande Guerra in Italia, da attraversare in moto, sia qualcosa "da fare".

Personalmente l''Italia in generale, in moto, mi manca. Conosco poco. Ed è un gran peccato. Da brava motociclista rimedierò...............


Un sorriso per tutti, ciu
atram
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15868555
15868555 Inviato: 31 Ago 2017 12:40
 



Il Cimitero Americano. E, l'amore.
 
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15868557 Inviato: 31 Ago 2017 12:42
 



Il cimitero inglese "La Delivandre"
 
15868569
15868569 Inviato: 31 Ago 2017 13:02
 



Il Memoriale della Pace di Caen.
 
15869127
15869127 Inviato: 1 Set 2017 13:26
 

Continuo a leggere con piacere, anche perchè ho sempre studiato con attenzione la storia della seconda guerra mondiale.

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Edo
 
15869387
15869387 Inviato: 2 Set 2017 7:57
 



Mie carissime e miei carissimi...

Nella speranza vogliate scusarmi per l'assenza di questi giorni (settembre a scuola è un periodo di fuoco, ed in più oggi sono ad un matrimonio...) vi lascio almeno una fotografia:

Non so più dove... un semaforo rosso ed un riflesso improvviso: io. Sorpresa e meraviglia, ero felice di scoprirmi così. Semplicemnte una motociclista, in viaggio. Fuori e dentro me.

Un sorriso per tutti!
A presto...

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atram
 
15869605
15869605 Inviato: 2 Set 2017 22:13
 

Ciao Marta, bellissimo il tuo viaggio e bellissimo il tuo report continuero a leggere man mano che scrivi, sono contento che sia andato tutto bene.
 
15870971
15870971 Inviato: 6 Set 2017 0:39
 

Carissimi tutti,

Vi chiedo ancora scusa se non riesco ad essere costante come vorrei. Ma, ho avuto l'impressione mia, personalissima, che questa "pausa" nella scrittura e pubblicazione del mio 16 agosto 2017 sia stato forse persino un bisogno. È stato un viaggio pazzesco per me, questo in Normandia. Ha smosso pensieri. Emozioni. Che anocora adesso non so dove e come "collocare".

MERCOLEDÌ 16 AGOSTO DA LUC SUR MER A TORIGNI SUR VIRE : BASTA.
Bayeux - Cimitero tedesco La Cambe - Point du Hoc - Utah beach - Sanit Mer Eglise - Saint lo, Torigni sur vire.


Oggi comincia il viaggio.

Mi sveglio presto. Fuori dalla tenda è tutto umido, goccioline sdraiate brillano ovunque nel campeggio. Aspettano di salire sul treno “Raggio di sole” per scendere alla fermata “Cielo”.

Sento il mio viso serio mentre controllo che il mio equipaggio sia ben piazzato sulla moto, borsone, tiranti, tenda, ganci, ragno (…che nel mentre si è pure snodato) e nella mia testa so già che questo giochetto “monta-smonta” da qui in avanti lo farò ogni giorno. Non voglio più soffermarmi in un luogo. Voglio girare. Ma prima ho mete importanti. E tutto sommato troppo ravvicinate: non c’è stato abbastanza asfalto, sotto le gomme della mia moto, a garantire aria fresca ai pensieri, fra una meta e l’altra. La visiera su è servita a poco.

Almeno una cosa buona c'è: il navigatore ha ripreso a funzionare, niente più schermo nero a caso e relativo mio umore neronero, non certo a caso. Strano però: si sono cancellati tutti i miei percorsi precedenti. Ho perso tutti i miei Pirenei e i miei “giri stellini”, la cosa mi rattrista un po’(nota dell’autore: bisogna assolutamente tornare sui Pirenei).

Bene, tutto è pronto: via. Sono imbardata dentro la tenuta tecnica che comincio a sentire un po’ larga, saluto Luc sur Mer, Sword Beach, e mi dirigo a Bayeux.

Bayeux.
Ero già stata qui, al volo, spersa completamente dopo Omaha Beach. Nemmeno sapevo come avevo fatto a finire lì. Ma avevo visto poco niente: volevo solo cibo. Oggi no, sono tranquilla e voglio percorre quella via, quella del centro di Bayeux, quella che ho visto sulla Guida al D-Day, quella in cui da una foto in bianco e nero si riesce a sentire la gioia e la festa di un’ intera città che cammina al fianco di un Generale: De Gaulle. Più di 2000 persone ad acclamarlo, ad accogliere i liberatori. Era il 14 giugno 1944. Bayeux era stata occupata per quattro lunghi anni dai tedeschi. E nessuna bomba su essa: l’unica città ad essere stata risparmiata in Normandia dagli Alleati. Persino Eisenhower fa visitare proprio questa cittadina a suo figlio.
Bayeux è graziosa e la via del centro è ricca di negozietti e localini, anche casette a graticcio e poi c'è una chiesa enorme. Io non so nulla di Arte e Architettura, ma ad occhio qui le chiese sono tutte molto simili, guglie altissime spuntano fuori ovunque, vetrate immense e decori sparsi. Certamente ogni mattoncino avrà un significato, ma io non ho voglia di varcare la soglia della porta di questa “Casa del Padre”. Scatto solo due foto. E mi accorgo di non avere voglia nemmeno di andare a vedere il famoso arazzo che l’UNESCO ha registrato nella memoria del mondo: 86 metri di tela ricamata, narrante una guerra. Quella eterna che fu fra Francia e Inghilterra. Ma pare che qui si cantino le gesta eroiche dei combattenti, non l’animo del popolo.

Quello che ha provato il popolo, uno in particolare, lo scolpisce in una sola occhiata un altro quadro: Guernica. Bombardata a tappeto dai tedeschi il 26 aprile 1937, da qualche parte avevo persino letto “come regalo ad Hitler” o qualcosa di simile. Atrocità. Dramma nel dramma. Azione terroristica a favore del Generale Franco.
Ora, io non so molto della storia spagnola, ma so che al male, si contrappone il bene. Alla tirannia, la resistenza. Costretta alle armi e all’assassinio per difendere quel valore definito libertà. Scene non indifferenti sono presenti nel film, drammatico quanto particolare ed intenso, “Il labirinto del fauno”, in cui uomini e donne vengono torturate e bambini, uccisi.

Quanti ne sono morti a Guernica di innocenti? Quale orrore stava cominciando a scatenarsi sul mondo? Chi lo avrebbe mai immaginato? Fu uno, senza esclusione di colpi. Quanto deve aver scosso Pablo Picasso, il bombardamento di Guernica, la sua Spagna? Il suo popolo, i suoi concittadini? Indifesi. Civili.
Quale angoscia, rabbia, ansia e agitazione, quale orrore, tristezza e sofferenza, quali sentimenti si possono provare in una situazione del genere? Come riuscire a vomitarli fuori da sè? Forse un Artista, Pablo, non poteva fare altro che dipingerli. La guerra in un Capolavoro, appunto, Guernica. Quale sarà stata la spesa emotiva di Picasso? Quale prezzo ha avuto, sul piano dei sentimenti, ogni sua pennellata? Non sono riuscita a trovarla questa informazione fra le mille critiche a questo quadro così immenso, famoso e significativo. Personalmente, sono due i tratti che più mi colpiscono di tutta la tela che tanto mi piacerebbe vedere con i miei occhi a Madrid: la spada spezzata e il fiore in mano di chi la teneva, caduto magari in battaglia, e il lumino, quello piccolo, quello con una fievole fiamma, che interpreto speranza, sorretta in alto, in un futuro difficile da immaginare, ma che può ancora esistere. Il bombardamento aereo di Guernica nel 1937 fu quasi un “collaudo” di tutto ciò che da li a poco sarebbe stato. Morte di milioni di civili. Guerra Totale.

Vado via da Bayeux. Dal suo traffico, la sua chiesa, il suo arazzo che non ho visto, dai pensieri che già sento presenti a non darmi tregua. Guerra è una cosa sola: morte.
E mi dirigo in un’altra zona piuttosto densa di questo aspetto così penetrante della Normandia. La Cambe: il cimitero tedesco. 21.160 tombe.

La Cambe.
Non so come cominciare. Non so da che parte iniziare a raccontarti quello che ha attraversato la mia presenza, la mia persona, in questo luogo. So solo che qui ho pianto lacrime di una tristezza, insondabile. Il sito del cimitero non è bello e scenografico come quello americano su Omaha Beach: qui non c'è l’Oceano. Qui c'è la superstrada a venti metri. Qui non c'è la mega segnalazione, non c'è il mega parcheggio per auto, moto, camper e pullman. Qui non c'è l’ingresso trionfale, o il megagalattico museo-memoriale. Qui non ci sono le centinaia di turisti a colorire e distrarre. Qui, non ci sono cerimonie d’onore, visite presidenziali e chissà quali celebrazioni storiche. Qui non c'è il bianco delle lapidi inglesi o il luminoso marmo di Carrara delle croci americane. Qui c'è malinconia, sconcertante. Qui c’è null’altro che pietra. Scura. Granito. Che raccoglie ogni lacrima. Ogni carezza. Qui ci sono gruppi di croci, basse affondate sulla terra. Qui ci sono quadrati dagli angoli stagliati, adagiati sul prato. Sempre verdissimo. Sempre curatissimo. Qui ci sono alberi a delimitare il confine di questo cimitero. Hai tutto a vista, subito, da quando parcheggi. Non fai in tempo a tirare giù il cavalletto che hai già occhi velati per quel che stai assistendo: un uomo e due giovani accanto a lui, forse un padre e i suoi figli, sono in piedi al cospetto di una tomba, fra alberi e silenzio. Si abbassa il giovane e lascia un bacio sulla sua mano e quindi sulla lapide. Lo segue forse il fratello, fra jeans strappati e scarpe da ginnastica. E poi l’uomo, accarezza quella tomba. Ed in piedi, fermi, tutti e tre, dicono qualcosa che io non so. Ed in silenzio vanno via.
Normandia è Germania quanto non si può immaginare. Normandia è la gioventù tedesca mandata a morire. Combattere e, morire. È la parte del popolo migliore che se ne va. Molti, per sempre. Sono i giovani a dover sacrificare i loro sogni, la loro freschezza, la loro vitalità, la loro gioia, la loro vita. In tutti i cimiteri di guerra è cosi. Anche in questo. Questo tedesco. Sono soprattutto i giovani a morire.
Mi commuove la scritta all’entrata, in francese. “Le cimitère Allemande de La Cambe: dans la même Terre de France.” E quasi accarezzo le parole “Mélancolique dans sa rigueur, il est celui de soldats qui n’avaient pas tous choisi ni la cause, ni le combat. Eux aussi ont trouvè le repos dans notre terre de France”.

Quanti soldati tedeschi hanno scelto di combattere? Quanti davvero su un’intera nazione non vedevano l’ora di sparare al nemico? Quanto la propaganda nazista ha coinvolto così profondamente gli animi dei giovani? Certamente i fanatici sono esistiti. Anche in Italia. La X Mas ha scritto pagine oscure a casa nostra. Ed erano italiani a muovere mano alle gole di altri, italiani. Ci sono pagine devastanti nel capitolo “Massacri e massacratori” contenuto in “Possa il mio sangue servire”. A pagina 83 di questo libro ho chiuso gli occhi e ho lacrimato. E scritto come se avessi potuto veramente con una carezza su un foglio di carta stampata, arrivare al viso di quel bambino: “Sole qui. Sole. Qui. Per favore. Sole.”

Possiamo davvero credere che tutti i giovani tedeschi ed addirittura i “richiamati alle armi” avessero voglia di andare in guerra? Di combattere per la Germania su terra francese? Perchè per quanto occupata la Francia, non certo parlavano francese i tedeschi soldati di fanteria, e quel suolo normanno non certo era percepito “natio” o “casa” da essi. La famiglia, le fidanzate, le madri, le mogli, la loro casa era lontana, era in Germania. Non in Francia. Penso ad un film, bellissimo “Storia di una ladra di libri”: Geoffrey Rush è anziano, soldato tedesco. E la cantina di casa sua è speranza. Bombardata. Dagli Alleati. E muore una ragazzina. Una tedesca, civile. Nel senso più bello del termine.

Tutti i tedeschi erano veramente così a favore di Hitler? Così contro gli ebrei? Il Giardino dei Giusti, testimonia altro.

Tutti questi 21.160 soldati, sepolti qui, sotto i miei occhi, volevano morire per “la causa di Hitler”? Ne siamo sicuri? Io no, non lo sono. Anzi, ricordo un film, terrificante perchè narra fatti realmente accaduti. Danimarca: mine. Disinnescate dai prigionieri soldati tedeschi. Giovani. Giovanissimi. Morti a migliaia in questo compito ingrato dettato più dall’animo umano, dall’amarissimo sapore di vendetta. Il film è “Land of mine”, coraggioso all’alba del 2015 nell’interpretazione di una realtà nera scritta in Danimarca, contro la Germania.

Sì, è facile qui in Normandia lasciarsi trasportare dai poderosi eventi storici. Dagli Alleati. Da questo sbarco che ha cambiato il volto dell’Europa. L’ha resa libera. Ad un prezzo inimmaginabile. E dentro questo costo, umano, ci sono, anche, i tedeschi. C’è anche il sangue tedesco versato sul suolo francese. E chino la testa quando varco la soglia d’ingresso del cimitero. E mi sento spenta e desolata. Incredula. Incapace, di comprendere. Cammino sul prato, tutto è vuoto ai miei occhi. Anche qui i “senza nome” si presentano vestiti solo più di lettere scolpite “zwei deutsche soldaten”. Sì, ci impiego un attimo a capirlo, qui, a La Cambe, ci sono tombe che ospitano più di una salma nello stesso luogo. Ed è incredibile. Anche qui, le tombe, non finiscono mai. Mai. Cammino passi lenti in quest’erba e soffro pensieri che non so dove originano. C'è riflessione qui. C'è persino una cura che non ho percepito negli altri cimiteri. C'è una presenza di tanto in tanto, fra linee di croci, di tombe che è delicata. Non ghirlande, non fiori colorati. Ma foglie e sassi, una ghianda. Ma si intuisce che è il passaggio di qualcuno. Di oggi. Un pensiero, una preghiera. L’unico colore che vedo é un lumino rosso. E poi, foglie dipinte già d’autunno. Questo cimitero, in autunno, immagino sia un dipinto, di raro silenzio. E bellezza.

Qui si sente una calma strana. Avvolgente. Una quiete insolita. Non ero preparata a questo. Non ero preparata al senso di pena e pietà e rammarico e mortificazione percepiti a pelle camminando qui. E salgo gli scalini del monumento centrale: una grande croce di granito, nero. E sono stanca e affaticata. E un mancorrente sorregge le mie mani. Il mio peso. Dietro me tre uomini e una donna della gendarmerie. Mi guardano. Uno stenta un “bonjour”. Io credo di non aver risposto. Ho solo pianto. In silenzio. Perchè da lì, lì in alto hai una visione più ampia. Del dramma umano, della guerra. Puoi girare a 360 gradi ed essere sempre con gli occhi sulle tombe di questi ragazzi, giovanissimi. E non capisci più quale senso ci sia in tutto ciò che hanno vissuto loro, e che a me è arrivato. Chino la testa di fronte a tutto. Sono affranta e costernata. Non mi sento molto bene. Un gendarme rimane lì. Non so se a fissare me o il cimitero. Ma sento la sua presenza.
Scendo poi gli scalini, non reggo più quella vista. E cerco l’uscita. Via. Fuori. Ho bisogno di un po’ d’acqua sul mio viso. Ed è così che entro in una semplice stanza allestita con pannelli che però raccontano la storia di quel cimitero. Della guerra. Anzi di tutte le guerre. Cercavo una toilette per rimodellare il mio volto in forme più serene ed ho trovato il coraggio. Non mio certo, ma quello dei tedeschi che curano questa zona commemorativa. È un preambolo dell’UNESCO ad intitolare le molteplici fotografie delle guerre presenti nel mondo, ad oggi, “Comme c’est dans le coeur des hommes que naissent les guerres, la défense de la Paix doit, elle aussi, naître du coeur de l’homme”. Mi colpisce una citazione di Kant Immanuel “Der Friede ist das Meisterwerk der Vernunft.” La pace é il capolavoro della ragione. E Kant era un filosofo, tedesco. C'è un perché se Hitler ha messo al rogo i libri. Ma di certo non ha potuto farlo con le menti. Meno che mai, ancora una volta, con quelle dei sopravvissuti ai campi di sterminio.

E qui a La Cambe, in questa stanza illuminata dalle luci al neon, ci sono foto di campi, di prigionieri. Tedeschi. E i volti delle foto sono impressionanti: giovani. Troppo giovani per uccidere ed essere uccisi. Ma poi immagina, fra gli Alleati e la popolazione francese lì in Normandia, nel 1944 quale umore, quale disposizione d’animo, poteva essere presente nei confronti di quei tedeschi, prigionieri di guerra? Temo il disprezzo. L’odio. Il desiderio di vendetta? Probabile.
Eppure queste 21.160 tombe di soldati tedeschi sono qui, posate, sul suolo francese. Certo, fra loro, non c’era Erikh Priebke. Storia tedesca del tutto romana.

Ma qui, a La Cambe c’è il coraggio della riconciliazione, di quei passi mossi a distanza di anni, camminati col bastone, dai veterani di entrambe le linee: alleati e tedeschi. Avevo letto un’articolo su Repubblica del 5/6/2004 “«Diciassette anni avevo, la Normandia era il mio primo viaggio lontano da casa, mi sentivo un privilegiato ad andare in un posto così», racconta Gockel, che ha raccolto questo suo pezzo di vita in un libro dal titolo "Le porte dell' inferno". Da allora è tornato tante volte, a cercare tombe e notizie di compagni caduti. Ma così ha incontrato veterani alleati, e con loro ha stretto amicizia. «Un giorno ho trovato un americano che era stato sotto il tiro della mia mitragliatrice, e che la sera del 6 giugno aveva dormito nel letto dove io avevo passato la notte il 5. Da allora sono stato tante volte negli Usa»”. Ci rendiamo conto di queste parole?

Mi viene in mente un altro film. La pace. La riconciliazione. Il dramma umano per arrivare ad essa. Il lacerante percorso emotivo del protagonista de “Le due vie del destino” è impressionante. Esiste il perdono? Può esistere l’amicizia là dove è stato odio feroce? Perchè guerra è anche questo: prigionieri. Con tutto ciò che consegue ad appartenere a questo status. Bestiale. Esiste il coraggio della riconciliazione?

Una cosa è sicura, qui a La Cambe il coraggio è persino nei progetti educativi: ci sono studenti che si prendono cura dei cimiteri militari. Non ho capito se proprio di questo o di altri, ma il valore in sè lo trovo considerevole. Al di là delle religioni, il passaggio dalla vita alla morte è qualcosa di sacro, riconosciuto nella sua solennità persino dagli uomini primitivi. Percepito persino dai pachidermi che ricoprono l’elefante morto di foglie e rami e girano in tondo. Quel trapasso sancisce il senso del Presente. Il senso di eterne domande. Molte ancora senza risposta.

Quando ero ragazzina credevo che la morte fosse il momento topico della vita. Il momento in cui acquisisci un potere eccezionale di comprensione delle cose del mondo. Tutto quello che non capivi, non sapevi, solo la morte avrebbe potuto svelarti. Finalmente la visione del Tutto. Ma appunto, ero molto, molto, giovane. Mi affacciavo al mondo chiedendomi il perchè di ogni cosa. Desideravo solo comprendere l’Ignoto. E speravo che nella morte ci fosse il senso della vita. Oggi, che ragazzina più non sono, sono certa di una cosa: nella morte é presente, se non il significato ultimo della vita, sicuramente quello della memoria.

Mi ricordo da studentessa che adoravo Ugo Foscolo, e persino Giacomo Leopardi. Ricordo che in un tema, immaginai di essere seduta accanto a loro in una carrozza. Ci parlavo. E loro rispondevano.
Odiavo il mio libro di letteratura, non in una sola pagina era presente il volto nè dell’uno nè dell’altro. Meno che mai la loro grafia. Almeno un versetto. Per fortuna mia madre aveva una ricca enciclopedia: la fonte, all’epoca, di ogni informazione. (È incredibile come sia cambiato, in meglio anche, il tempo in cui vivo. L’accesso alle fonti d’informazione è inesauribile. Cui però sempre è necessario domandarsene l’attendibilità). Comunque fu grazie alle pagine di quell’enciclopedia che potei raffigurarmi il volto di Ugo e persino di Giacomo: c’erano le foto dei loro dipinti lì su quella carta lucida. Ed era con loro che avevo voglia di chiacchierare. Non per forza con le mie compagne. Mai, e poi mai, con i miei professori. L’unica cosa che avrei voluto fare non si poteva fare. Questione di condotta. Non puoi deliberatamente dire ad alta voce “Mavvvafffanculovà” e pensare di essere promossa. Lo pensi, ma te lo tieni per te soltanto. E stop. E temo, gravemente temo, che ciò, nonostante siano passati oltre vent’anni, non sia mutato. Probabilmente ho allievi in classe in cui potrei trovare il riflesso di me stessa, da ragazzina. Non é bello. Ma è la realtà. La scuola italiana ha qualcosa che non va. Me ne sto interrogando da un po’, ma è come scavare una buca nella sabbia, in mezzo ad una tormenta del deserto. Non se ne viene fuori. Eppure quella scuola mi ha lasciato il titolo di studio per poter lavorare nel mio oggi. Eppure quella scuola mi ha lasciato la possibilità di scrivere le mie idee, seppur spesso ritenute “fuori tema”. Quante insufficienze ho preso in italiano, non per l’ortografia… Solo in quinta qualcosa cominciava a essere “condivisibile” dai docenti. Persino alla maturità. Ma stop. Sto dilagando troppo. Torniamo a Foscolo. Torniamo a ciò che mi è venuto in mente più di una volta in terra normanna. Fermiamoci un mezzo istante istante su “Dei Sepolcri”. Il suo inizio.

Perché dopo aver visto ciò che ho visto fiancheggiando Verdun, poi Mont Huon, La Delivandre, Colleville-sur-Mer, e La Cambe avró nella mia testa ho circa 40.000 tombe. E Foscolo mi torna in mente, e parecchio. A cosa servono le tombe? Hanno un senso i cimiteri? “All'ombra de' cipressi e dentro l'urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro?”.

La morte fa paura. È un dato di fatto. Preferiremmo non ci appartenesse. Non fosse parte di noi e della nostra vita. Ed in effetti, qui in occidente, è abbastanza così. Quali sono i contatti diretti che abbiamo con essa? Forse dipende dal mestiere. Se sei un medico di rianimazione in servizio in ambulanza quanto in ospedale, probabilmente hai la morte negli occhi, ogni giorno. Forse se sei un poliziotto della stradale, anche. Probabilmente pure sei sei un vigile del fuoco. Certamente se sei un operatore qualsiasi, di una qualsivoglia agenzia di “Pompe funebri”. O magari lavori per fornire alle Forze dell’Ordine, informazioni utili, tratte dall’esame scientifico di un corpo assassinato. Insomma, io certo, non sono esposta alla morte nel mio quotidiano. Anzi, non ho l’esperienza concreta della morte di qualcuno fra le mia braccia. Sempre che sia ammesso, concesso, morire, oggi, fra le braccia di qualcuno. Io stessa forse lo vorrei, egoisticamente per me: esalare il mio ultimo respiro, vivendo l’ultimo calore umano di un abbraccio. Una carezza. Ma di chi? Fra le braccia di chi, vorresti morire? Pensiero assurdo. Lo so. Ma se hai dato una risposta, credo che, quella, sia la persona a cui vuoi più bene al mondo.

Quanti soldati sono morti in tutto il mondo in questa guerra? Quanti civili?
60.000.000. Sessanta milioni. Di persone. Di anime. Per qualcuno, immortali.
Quante, saranno state accompagnate da un abbraccio? Non lo so. Immagino poche.

Ad oggi, forse, non è cambiato nulla. È da soli che si muore. In una stanza d’ospedale. In un ospizio. Naufraghi in mezzo al mare. Nostrum.

E, non abbiamo cuore, per i nostri cari, quelli che sentiamo vicini, in affetto, quelli cui vogliamo bene, non abbiamo cuore per loro di dire “ è morto”. Quando la notizia arriva, sono altre le parole che si pronunciano. Persino nei telegiornali. È scomparso, ci ha lasciato, se n’è andato, è trapassato, è passato a miglior vita, è in Cielo… Riusciamo a dire di tutto, ma non semplicemente la realtà, evidentemente così dura da accettare. Le due parole “ È morto” non ci sono. Persino i medici non riescono. Il trauma é troppo ingestibile. Per mio fratello dissero solo “Il ragazzo non ce l’ha fatta. Abbiamo fatto tutto il possibile.” E, ad ascoltarle quelle parole, erano mia madre e mio padre. E si trattava di loro figlio. 23 anni. E mia madre non capiva cosa significasse. Non ce l’ha fatta cosa?”. Continuare a vivere. La parola morte è inaccettabile. Impronunciabile. Non la consideriamo proprio come parte della nostra esistenza. È troppo pesante. Morire è un verbo. Il verbo è un’azione. E non esiste modo, per sopportarla. La morte È. Punto.

Firse per le persone che se la tolgono da sè, la vita, riusciamo a dire “Si é suicidato”. Ha voluto farla finita, si è tolto la vita. Si è dato (al)la morte. E per loro, secondo la chiesa, non c'è rito funebre. Non lo meritano. Non ne sono degni. O non lo so. In Giappone sarebbe diverso. Ma in quella terra considerata sacra dai giapponesi, il suicidio è un modo per poter esprimere il proprio modo per recuperare un onore che evidentemente è stato leso. O solo una forma di obbedienza cieca alle richieste, all’epoca della seconda guerra mondiale, di un dio-imperatore. È tutto pazzesco. Tutto. Questo passato sanguinoso. Persino questo cimitero, militare, tedesco. E sempre lo sono i miei pensieri. Stressanti.

Io non so più quale sia la funzione dei cimiteri. Non so più se hanno ragione di essere. Qui in Piemonte alla “festa dei morti” (sai che festa..) si dice “vado a trovare il nonno” (rendiamoci conto..) e il 2 novembre i parcheggi dei cimiteri sono pieni. Si porta un fiore, si sta davanti ad un pezzo di marmo. O almeno questi i ricordi di bambina. Non riuscirò mai e poi mai a dire “Vado a trovare mio fratello”. Al cimitero. È da pazzi.

Eppure, ho scoperto esserci un giro temo miliardario e secondo me monopolizzato, attorno alla morte e le tombe e i cimiteri. Persino “privati”. Voglio dire, se nella mia città desideri una data collocazione, se non sepoltura intesa come cremazione, devi pagare, già da vivo. Cosa? L’affitto della “celletta”. Per 70 anni. Che è già un bel tempo direi… Quello necessario a dimenticare. Di generazione in generazione. Del tuto se ne occupa la SOCREM. Quanto vorrei un giorno leggere un’inchiesta giornalistica sulla gestione dei cimiteri italiani. Così, solo per capire. Perchè io non capisco. Più nulla. È nel cimitero che risiede la memoria del caro estinto? Posso davvero pensare che sia su una lapide incisa la memoria di mio fratello? Ma per favore. Vi prego.

Il luogo della memoria è, secondo me, qualcosa di molto più potente: la parola. Parliamo mai dei nostri cari morti? Quando? Per quanto? E come? Di solito riusciamo a farlo solo nel bene. Non si sa perché, ma nella solennità della morte tutti diventano “buoni”. Il ricordo delle persone morte è sempre ricolmo di un’aurea positiva. Hanno fatto di tutto in vita, come mio nonno, tradito regolarmente la moglie, giocato magari d’azzardo, menato i suoi figli, talvolta i nipoti, ma non ho mai sentito dire da nessuno, “… però era un figlio di putt@n@“. Al suo funerale non c’ero. Coincidenze: ero a Parigi. Scrissi una lettera letta da mia cugina. E scrissi ciò che pensavo. E lei non censurò nulla. Ho saputo poi che non piacque a molti. Sai quanto può importarmi? Immagina.

La memoria di chi è morto, la persona a cui volevamo bene, può essere soprattutto nel racconto agli altri, i nostri figli, i nostri nipoti, di “Chi era” colui che ora non c'è. Più. E dovrebbero essere parole sincere e serene. Lucide. Non l’aggrappo ad un passato dolente. Nostalgico. Che confrontato col presente, lo svuota di senso. Forse ci vogliono anni. Forse per convivere con la morte di un figlio, un fratello, o qualsiasi legame si abbia col proprio caro, ci vogliono anni. Ma non è, opinione personale, nel cimitero che risiede la sua memoria. Non è andando al cimitero che si “onora” il ricordo di qualcuno. Anzi, devo essere una buona vittima del digitale, perchè a dire il vero, devo ammettere che anche solo su fb, quando compaiono le fotografie dei Grandi della cultura artistica, letteraria, scientifica, o dello spettacolo, morti e stramorti, mi piace “condividerne l’immagine insieme al loro pensiero espresso in una loro citazione”. Forse un giorno esisteranno cimiteri digitali. Riti funebri con migliaia di “like”. O magari lapidi di marmo con schermi digitali: un tuch e un video racconta pezzi della tua vita. Roba da pazzi. Sto impazzendo.

E dire che se fosse per me, per me stessa, vorrei un funerale vichingo. Spiaggia, oceano. Una barca fra legna e fiori. Il mio feretro sopra. Ed il fuoco. Onde e vapore. E sulla spiaggia magari, occhi sereni, di persone sedute in silenzio, a contemplare il Mistero, della morte.

Devo aver sbagliato secolo e zona di nascita sulla terra…
E sono pazza da legare. Perchè nessuno sa quando la morte lo coglierà. Nessuno di questi ragazzi, in questo cimitero militare, sapeva l’esatto istante in cui sarebbe morto. Ma forse avevano una certezza, quella almeno di una sepoltura. Almeno, dignitosa. Almeno utile. A ricordare a noi, la guerra. Il suo risultato. Il suo dolore. Hanno un senso i cimiteri? Quelli militari, a mio avviso, si. Più che mai. Quelli civili? Non lo so. Non lo so più. Ma certamente, per chi li frequenta, hanno un significato, profondissimo. Che non posso certo, non rispettare.

Torno alla mia moto. Spersa nei miei milioni di pensieri. Ho una strana fame. Incomprensibile. Ancora una volta. E mangio. Lì seduta su una panchina, fra la mia moto, la mia libertà, il mio mondo e quel prato, quel cimitero. Quelle croci. Mastico un panino, condito di sale e acqua. Chi arriva al parcheggio storce un po’ il naso da me, che oso addirittura “mangiare” seduta proprio lì. Ed io che so quanto pesa la mia testa, quanto strozzato sia il mio stomaco, i miei pensieri di bile, affondo i denti su un pane cui prego mi dia energia per sostenere il resto della giornata.

C’è altro che voglio vedere. La Pointe du Hoc.
 
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15871412 Inviato: 6 Set 2017 20:58
 



La Cambe. Cimitero tedesco.
 
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15871941 Inviato: 7 Set 2017 18:17
 

La Pointe du Hoc.
Arrivo lì che ho un caldo tremendo. E di nuovo, su questo sito storico, americano, trovo coda e parcheggi ampi. Ed invidio tantissimo una coppia che ha una goldwing col baule di un tir e ci mettono dentro di tutto. E camminano freschi come due rose, loro. Io ho la moto stracarica, e sono imbardata di tutto e di più. Ma voglio vedere con i miei occhi questo posto. Questo luogo di battaglia, feroce: 255 renger sbarcano su questa spiaggia. Ma c'è una falesia alta 30 metri da scalare. E lassù, bunker che sputano fuoco fino a 20 km di distanza. E mitragliatrici e mine e filo spinato e 125 fantini e 80 artiglieri. E bombe. Sempre. Era un obiettivo militare degli Alleati da silenziare immediatamente. Quei cannoni avrebbero potuto devastare la spiagge, ed il relativo successo dello sbarco, di Omaha stessa. E tutto questo lo si legge in un libro. Una guida al D-Day. Ma esserci è diverso. Qui ci sono all’ingresso tre o forse più, grandi “pagine di pietra” in cui è incisa una frase pronunciata da Presidenti USA che qui in Normandia hanno omaggiato i soldati americani, morti in Europa, per la libertà del mondo.

Anche alla Pointe du Hoc è presente una piccola struttura, curatissima, adibita a memoriale. Anche qui per entrare è necessario attendere in coda. Un operatore, penso personale americano, non lo so, deve controllare col metaldetector ogni persona, ogni borsa. Quando arriva il mio turno, il giovane uomo con tanto di divisa blu “guardforce” mi squadra dalla testa ai piedi. Lui è bello come il sole e la mia tenuta tecnica da motociclista lo fa sudare freddo. Mi parla persino in italiano. È meticolosisssimo. Controlla tutto nella mia borsa da serbatoio. Apre tutte le pochette. Tutte. Niente coltello svizzero questa volta. Ora deve perquisire me. Lo squadro per un tempo infinito. È serissimo ed impegnatissimo. Ci impiega una vita a passare il metaldetector lungo il mio corpo, di cui sono scoperte solo le mani ed il viso. Suona pure l’allarmino. Comincia a toccare tutte le tasche della giacca, interne ed esterne. Figurati, ce ne sono solo 200. Il top è quando si abbassa per controllare le gambe, interno ed esterno. Secondo me era a disagissimo. Ma bello come il sole. Mi fa girare, è dietro la mia schiena e cerca di capire cosa io indossi. Alza le giacca tecnica, tocca il paraschiena. E mi invita a rigirarmi di fronte. Incontra un attimo i miei occhi, svia subito su altro, e come esausto del suo lavoro, professionalissimo mi dice “ok” e mi cede il passo per entrare nel memoriale. Bene, non sono una donna pericolosa. Anche se, per un istante, indegnamente, ho pensato “Qui sono morti soldati affinché io e te ci incontrassimo”.
Se la mia vita fosse un film, sarebbe stato bello scrivere pellicole di dolcezza. Sarebbe stato bellissimo aspettare la fine del suo orario di servizio. Chiedergli se si sarebbe potuto bere qualcosa insieme. E parlare un po’. Mi sarebbe piaciuto scoprire la sua vita. Cosa lo ha portato lì, in Francia, proprio alla Point du Hoc? Non lo saprò mai. La mia vita non è un film. La realtà è tutt’altra cosa.

Però, la situazione “surreale” addirittura a tratti leggera se non “sensuale”, che si era creata lì al controllo ingresso del memoriale con quel tipo, mi ha ricordato una pagina dolcissima e sincera, su cui avevo lasciato un sorriso, persino di felicità quando la lessi. Quanto vale la guerra? Quanto vale quel 6 giugno 1944. Per qualcuno, vale una cosa sola: l’amore. Probabilmente avrei potuto essere io mille e una volta. O forse no. “La graziosa Anne Marie, di 19 anni, faceva l’istitutrice a Bayeux, a quindici chilometri da Vierville. Il giorno dopo cominciavano le vacanze estive. Le avrebbe passate alla fattoria. E l’indomani, un americano alto e sottile, del Rhode Island, che non aveva mai visto in vita sua, sarebbe sbarcato sulla spiaggia, davanti alla fattoria di suo padre. E lei lo avrebbe sposato”. Da “Il giorno più lungo”. In questo frangente “Il giorno, anche, del cuore”.

Forse quel 6 giugno è stato tante cose. Forse per il veterano di guerra americano, di cui mi spiace non ricordarne il nome è stato “Il giorno dell’amicizia”. È lui che racconta in un video, in questo memoriale, la sua esperienza qui, alla Pointe du Hoc. E siamo in tanti seduti sulle panchine davanti allo schermo. E ci sono anche, tedeschi. E fanno una cosa: si commuovono. Ed io con loro. Perchè quello che non ti aspetti è il racconto di un uomo che parla solo di amicizia, guerra e amicizia, fra lui e un altro commilitone. Fra lui e tutti della compagnia. Erano soldati, erano renger, e hanno fatto ciò che Eisenhower aveva richiesto loro. Anzi lo aveva chiesto a tutti i suoi soldati. Le risorse migliori del mondo libero: i giovani. E quelle parole hanno inciso la storia “The eyes of the world are upon you. The hopes and prayers of liberty-loving people everywhere march with you… The free men of the world are marching together to Victory! I have full confidence in your courage and devotion to duty and skill in battle. We will accept nothing less than full Victory!”.

Ma riusciamo ad immaginare lo stato d’animo di questi guerrieri? Coraggio e ardore, passione e preparazione tecnica. Tanta. Il reparto renger, da quel che ho letto, era allenatissimo al compito, rispetto ad altri. Erano fisici di giovani nel pieno delle loro forze, della loro bellezza, energia. Messa al servizio della libertà. Al prezzo della morte. Vite spezzate.

Come la voce, di quel veterano, spezzata, che racconta in quel video, con quei suoi occhi lucidi, come, é morto il suo amico. Lo senti così vicino che sì, hai lacrime sul tuo viso senza che tu te ne randa conto. Non puoi fare altro. Il futuro, del suo amico “is gone”. Quell’uomo lo ha visto morire. Ha visto morire il suo amico, caro certamente. Non riesco ad immaginare. Ho amici cari. Tu hai amici cari? Li hai visti morire? Io non riesco ad immaginare ciò che in molti qui hanno vissuto, 70 anni fa. E devo dirti una cosa, su queste testimonianze, di chi la guerra l’ha combattuta, vissuta ed è sopravvissuto/ ad essa: hanno tutti lo stesso viso. Italiani al museo della Resistenza di Torino, ucraini al memoriale di Caen, o qui un americano all Pointe du Hoc, hanno tutti in comune lo sguardo. Gli occhi. Bassi, spenti, lucidi e arrossati i contorni. Svuotati, dal racconto. Che non se ne va. Mai. Per quante volte lo abbiano pronunciato, risiede in loro, in profondità sconosciute.

Esco dal memoriale, che di nuovo sento i miei occhi pressati. Troppo da sopportare. Comincio ad essere stanca. Ma cammino, fra sole e rumore di passi verso quella punta. Quella roccia sull’Oceano. La Pointe du Hoc.

Ma non mi aspettavo di vedere quelle conche. Grandi. Profonde. Ovunque: 700 tonnellate di bombe furono vomitate dal cielo alleato in pochi minuti, 124 aerei. E la più grande armata navale che fosse mai esistita, anche, quel 6 giugno ingaggiò fuoco qui: solo la Texas tira più di 600 salve da 356. Qui, alla Point du Hoc, gli Alleati dovevano polverizzare 6 cannoni che avrebbero potuto disintegrare le spiagge dello sbarco. Cannoni che per altro erano stati smontati e nascosti dai tedeschi stessi in un frutteto. Fu proprio quel veterano cui il volto e il racconto ancora ho di fronte, quello ascoltato nel video del memoriale, a scoprire il nascondiglio.

Fa impressione. Qui fa tutto impressione. I bambini che giocano a salire e scendere nelle buche di terra bombardata 70 anni fa, le posture corporee dei turisti fotografi che cercano di catturare chissà cosa, un motociclista con una tuta di pelle dai colori improbabili, i mille clik che si susseguono costantemente, i selfie, i passeggini, un bambino su una sedia a rotelle. Qui tutto fa impressione. La vista. L’Oceano. Le falesie alte. Altissime. Persino una barchetta da diporto lì sotto ormeggiata tranquilla. E, il bunker. Da cui sparavano. È aperto. A tutti.

Mi fa male già da fuori. Gli giro attorno, ed entro. C'è tantissima gente. Luci al neon. Pannelli di metallo con nomi incisi. C'è quello che non puoi immaginare. Io non ci riesco. Sono proprio sulla fessura sottile esterna. Quella che permetteva di proteggere il corpo e con le mitragliatrici sparare fuori. Sparare e sparare ancora. A 180 gradi. E forse di più. E non sono capace di capire cosa è stato qui.”
Regan, forse riuscì a descriverlo. Fu il primo presidente USA a mettere piede in Normandia. Su suolo americano. Le sue parole sono incise in una di quelle pagine pesanti di pietra, cariche del prezzo della libertà, all’entrata di questo sito Overlord. Forse le sue, sono le migliori per descrivere la Point du Hoc: le pronunciò per il quarantesimo anno di celebrazione del D-Day, e alle spalle del Presidente c’erano i soldati che lì avevano scritto il D-Day. “Questi sono i ragazzi di Pointe du Hoc, questi sono gli uomini che scalarono la scogliera, questi sono i campioni che hanno aiutato a liberare un continente, questi sono gli eroi che hanno contribuito a porre fine alla guerra. Lanciarono scale di corda su questa scogliera e iniziarono a issarsi. Quando un ranger cadeva, un altro prendeva il suo posto. Quando una corda veniva recisa, un ranger ne prendeva un'altra e ricominciava a salire. Scalavano, rispondevano al fuoco e mantennero l'andatura. Presto, uno per uno, i ranger arrivarono in cima e conquistando i terreni in cima a queste scogliere, iniziarono a riconquistare il continente europeo. Duecentoventicinque ranger vennero qui. Dopo due giorni di combattimenti, solo 90 potevano ancora portare delle armi. Dietro di me c'è un memoriale che simboleggia le baionette dei rangers che vennero conficcate in cima a questa scogliera. E davanti a me ci sono gli uomini che ce le piantarono".

Io sono piantata dentro il bunker, rigida. Stranita. Forse stordita. Da tutto. E davanti a me ho la scena più bella del mondo. Di quelle che scatti una foto e il contrasto ti lascia una lacrima. D’incomprensione. Eppure di speranza. Sono bambini davanti a me. Di una terra lontana sul viso. Di quelle che se sei lì, così, pensi a solo due parole: Hiroschima, Nagasaki. E ricordo un film interessante: USS Indianapolis. Merita la visione per quelle semplici ma significative battute fra il capitano americano dell’Indainapolis, affondato dopo aver consegnato in missione segreta, il carico di uranio della prima bomba nucleare, e il capitano giapponese del sommergibile I-58, che autorizzava il lancio anche di missili umani. Come avrebbe girato la storia, se quel capitano avesse ingaggiato fuoco al sottomarino, prima, dello scarico di ciò che compose la bomba atomica, lasciata deliberatamente cadere dagli americani su Hiroschima? Quale onore può esserci in un militare, un capitano, un uomo, nell’eseguire sempre gli ordini, persino le missioni di cui on si conosce il fine? Quali ripercussioni ha la guerra sugli animi di chi la combatte? Quel famoso confine fra dovere e obbedienza vs libero arbitrio e coscienza, cui spesso mi interrogo, può esistere anche in un militare?

Io non lo so. Ma qui, nel cemento grigio di questo bunker, voglio vedere solo l’Oceano. Solo i bambini. E adulti, che in silenzio solo si abbassano all’altezza dei figli accanto a loro. E non fanno altro che rimanere in ascolto. Di sè. Dei loro bambini. Del tutto che li circonda. L’Oceano. Il Cielo. Il silenzio. La pace. La Normandia è anche questo.

Ed io esco da quel bunker. Ho bisogno di sole. Di aria. E voglio vedere quel monumento di pietra. Quel simbolo, la baionetta, che qui, appartiene ad ogni soldato. E sorvola un elicottero, militare. Fa impressione quel suono sordo nel cielo: sempre più vicino. Siamo tutti col viso in su. Il pilota lo si vede bene bene. Incredibile. Ha comandato al suo elicottero un inchino alla Point du Hoc. L’avanguardia dell’esercito di Oggi, ringrazia, il coraggio dell’esercito di ieri: corde e rampini. E baionette.

Sono stanca. E dire che se non fosse così intriso di una storia drammatica, quanto necessaria, ed è proprio qui il conflitto personale di pensieri ed emozioni mie, questo posto sarebbe stupendo. C’è una vista incantevole.

Cammino verso l’uscita. Accanto a me, per caso, quell’uomo, in divisa, bello come il sole. Forse ho occhi pieni di tutto. Forse lo ha notato. Passi lenti. Di entrambi. Non una parola. Lo sento vicino. Vorrei un abbraccio. Forse non è nella lista dei suoi doveri, abbracciare e sostenere le motocicliste che piangono al Point du Hoc. Fra buche di bombe e bambini.

Mi dirigo verso la mia moto. È un approdo su essa ogni volta. Il mio sostegno. Il mio rifugio. Il mio ponte con la realtà. La pragmatica. La concretezza. I piedi per terra. Il mio tutto in questo viaggio. La adoro. Come farei senza di lei?

Risalgo. La accendo e constato che non parte sempre al primo colpo. Ma funziona lo stesso. Ne sento vibrare il motore. Mi deve portare a riempire l’ultimo sacchetto con la sabbia delle spiagge dello sbarco. Di questo viaggio: la mia Normandia.

Mi manca solo più Utah Beach.
 
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15872537 Inviato: 8 Set 2017 21:51
 



La Pointe du Hoc.
 
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15873765 Inviato: 12 Set 2017 7:45
 

azz non ho seguito il post per un po ed è diventato veramente un malloppo da leggere... beh auspicherei che tu abbia tutto salvato nel pc...se nella malaugurata ipotesi il post venisse cancellato...
 
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15873940 Inviato: 12 Set 2017 12:37
 

rotfl.gif rotfl.gif "malloppo"...

Rende bene l'idea 0509_si_picchiano.gif

Ps. Credimi... temo sia il mio tablet a volersi "salvare" da me... Potesse direbbe "No, ti prego, basta..... non ce la posso fare....." ...

0509_si_picchiano.gif .... riuscirò persino a terminare il racconto di questo viaggio.... delirante....

E grazie sempre a chiunque sia passato di qua...

Un sorriso,
atram 0510_saluto.gif
 
15874024
15874024 Inviato: 12 Set 2017 14:59
 

dai atram... finiscila questa storia eusa_clap.gif eusa_clap.gif eusa_clap.gif
 
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15874098 Inviato: 12 Set 2017 19:06
 

Utah Beach.
Non è lontana dalla Point du Hoc. E vedo traffico e parcheggi enormi fra sterrato, buche ed erba. E quando sono ferma, le manovre sulla moto sono per me difficilissime. Basta una piccola pendenza, un sasso, pietre o sabbia, persino sotto gli stivali quando ho i piedi giù, che tutto diventa un problema. Volare in un avvallo è un secondo. Sono i momenti peggiori quelli delle manovre. Ma anche qui, riesco comunque a piazzare la mia errina. E davanti a me un bel prato verde, un ampio spazio all’ingresso del museo di Utah Beach, un paio di locali, un bunker e alcuni monumenti.

Mi attrae uno, semplice, basso e colorato, pare sia in cemento dipinto da vernici. È il cippo 00 “Voie de la Libertè 1944”, segnala la strada della libertà che arriva fino a Bastogne in Belgio, Ardenne. Una dura battaglia fra Alleati si svolse da quelle parti, per lo più americani paracadutisti della 101a e l’esercito tedesco, le panzer-divisionen. Era l’inverno del dicembre del 1945. C'è la neve nelle fotografie di quegli eserciti, fra boschi e freddo: 3000 morti.

Qui c'è sole e mi scalda, lo sento sul viso. E ci sono turisti, fra le barriere a croci di metallo di Rommel. Lasciate prima di arrivare sulla spiaggia. Scattano tutti, in sfoggia di occhiali da sole e magliette succinte, un sacco di foto. Io non so più cosa mi colpisce maggiormente. Se il luogo e la sua storia, o solo tutto ciò che ho sotto gli occhi. Perché ha dell’incredibile. Quelle statue e i selfie. Non so chi sia l’artista, ma con me, ci è riuscito fin troppo bene. E l’ho odiato per questo. Per la sua capacità di comunicare. La guerra. Non è tanto la barca utilizzata nello sbarco col portellone giù, non è la sabbia lì sotto di Utah Beach, forse non sono nemmeno quel manipolo di soldati di metallo grigio che statici, corrono con i fucili in mano. É la misura. Quelle statue, sono in scala 1:1. Io nemmeno me ne rendo conto subito. Perchè anche io scatto qualche foto, ma sono lontana. Solo quando mi avvicino, quando sono affianco ad una di esse, guardo la mia altezza e quella di quel soldato americano di metallo. Così reale nel suo viso. Nella sua divisa, il suo elmo. Così concreto in quel frammento. Dello sbarco. Di quel D-Day così lucidamente evocato. Quasi ho paura. Di me. Della mia follia e dei miei pensieri, le mie emozioni. Avrei desiderato lasciare una carezza sul viso di quell’uomo di ferro. Quasi un abbraccio, mio a cadere, stanca e amara di tutto, nel realizzare costantemente Cosa, È, Stato, Qui. In Normandia. Cosa ha significato quel 6 giugno 1944 qui e ora in me: posso abbracciarti soldato? Avresti potuto essere mio fratello. Posso essere triste per te? Avresti potuto essere un mio caro amico. Posso piangere con te? Avresti potuto essere il mio fidanzato. Posso prendere la tua paura e trasformarla in polvere di stelle? Avresti potuto essere il padre di mio figlio. Posso stringerti a me e guardarti negli occhi, nel tuo ultimo respiro? Avresti potuto essere mio figlio. Posso toccarti il cuore, soldato? Mentre tu uccidi, per non essere ucciso? Mi avresti sentita? No. Lo so. Non mi avresti sentito. Non mi sente nessuno. Io, lo so.
Posso fare una cosa sola, soldato: ricordarti. Fa male, ma devo. Siete morti in 200 qui a Utah Beach. È qui che Theodore Roosvelt vede falciare i suoi uomini dal fuoco di cannoni tedeschi. È qui che vede emergere dal fumo una faccia annerita, senza elmetto, senza equipaggiamento. A camminare sulla spiaggia in uno stato di completo shock. È qui che Roosvelt, un generale, corre verso quel soldato, chiamando un infermiere. E quel soldato, quell’uomo, dagli occhi sbarrati, é qui che si sente chiamare “Figlio” dal suo generale che, come un padre, potrei credere, gli mette le braccia intorno alle spalle e gli dice con calma “penso che per te sia meglio tornare su una barca”. Quanti “Son” ci sono in Normandia? Quanti ne sono sbarcati? Quanti, non torneranno più?

Era Utah Beach il settore designato dallo stato maggiore, a raccogliere tutti gli eserciti Alleati, nel caso lo sbarco, su una spiaggia o addirittura nella sua globalità, avesse fallito. E lascia pensieri, la previsione anche, del fallimento, in una guerra. Nessuno ha la sfera magica. Nessun generale, nè da una parte, nè dall’altra poteva prevedere il futuro. Nessuno lo sa, cosa accade fra un attimo. Si può presupporre ma non, averne la certezza.
Mi aveva suscitato tenerezza e quasi compassione leggere un messaggio scritto di persona dal Generale Eisenhower, da pubblicare nel caso il D-Day avesse, appunto, fallito. Sapete, scrivere è qualcosa che smuove. Scrivere di ciò che già hai vissuto è, tornare lì. Quasi a rivivere le sensazioni di quel momento. Le evochi in un pensiero e le parole sono come staffette che si passano il testimone dell’emozione fra uno spazio e l’altro. Ma tu sei nel tuo sicuro presente, e per quanto giungano persino lacrime ancora a bagnare il tuo viso, pensando al passato, ti alzi, prendi un fazzoletto e ti strofini gli occhi. E magari ti versi anche un calice di vino Moscato ad addolcire righe digitate in 2.0.

Ma quando scrivi del futuro? Quando scrivi di qualcosa di cui non sai assolutamente nulla dell’esito degli eventi? Non parlo degli auguri, magari di buon inizio d’anno, lì c'è sempre il positivo: la speranza. Il desiderio del meglio. Parlo di quel futuro che ti auguri all’infinito non si avveri mai. Ma sai dal profondo di te che può esserci. Può accadere. E le emozioni valgono uguale. Come si sarà sentito il Generale Ike, il giorno prima del D-Day a scrivere “il futuro” mettendo in conto una previsione di fallimento dello Sbarco? Cosa avrà provato quel 5 giugno 1944 ad immaginare di dover comunicare alla sua Nazione, alle Nazioni di tutti gli Alleati, parole scritte come “L’esercito, l’aviazione e la marina hanno fatto tutto ciò che potevano fare con coraggio e attaccamento al dovere. Se c'è qualcuno da biasimare o se c'è una responsabilità da assumere, questa è soltanto mia”? Persino in questo messaggio, quanta umiltà c'è e quale carico di responsabilità è già pronto ad assumersi il comandante supremo delle forze alleate? Ci vuole coraggio anche per questo. Coscienza e consapevolezza dall’inizio alla fine, qualunque essa sia. Coerenza, quasi rara oggi: cosa è davvero accaduto l’11 settembre 2001 nel mondo? Cosa conosciamo poter essere vero? È concesso il “ragionevole dubbio”, quello del tutto personale?Esisteranno nel mondo altri “armadi della vergogna”? Siamo eventualmente pronti ad aprirli e reggerne il peso?

Per fortuna, quel 6 giugno 1944, il popolo del mondo libero fu messo a parte che l’operazione Overlord, non fallì. E quelle parole angoscianti Eisenhower non le pronunciò mai. Anzi, l’addetto stampa USA il colonnello Dupuy diede per radio alle ore 9.33 la notizia al mondo “Sotto il comando del generale Eisenhower, forze navali alleate, appoggiate da potenti reparti aerei, hanno iniziato stamane lo sbarco delle armate sulla costa settentrionale della Francia”. “Finalmente la tensione è stata spezzata” intitola il “Times” di Londra. E nelle fabbriche militari inglesi si canta God Save the King. Mentre in America ci si ferma. In solenne meditazione. Ci si inginocchia sul ponte delle navi Liberty in lavorazione. Si recita il Pater Noster, mentre l’Oceano della Normandia si tinge di rosso.
Ed Hitler era convinto, lontano, nel suo “quieto falso mondo di Berchtesgaden”, che quello, non fosse l’attacco principale. Ma lo fu. Fu l’armata navale, spettrale, quale nessuno poteva immaginare. Forse nemmeno gli Alleati stessi. Tutta la rabbia e la potenza del mondo libero: scatenata.

E tu, statua di freddo, soldato di ferro, con tutta la tua potenza, mi scuoti e mi ribalti l’anima. E imprimi in me una cosa sola: D-Day. Normandia. Faro nell’Europa del 1944. Radici di libertà, oggi. É questo che ho nelle mie mani mentre metto la sabbia di Utah Beach nel sacchetto. Il sacrificio della libertà. Sono questo i miei sacchetti di sabbia raccolta sulle spiagge dello sbarco. Sono “Possa il mio sangue servire”. Hanno lo stesso rosso. Hanno lo stesso valore. Sono lo schiaffo sul viso che mi comanda quesiti scomodi “Cosa ne ho fatto io, di quel che è stato versato? Quali sono le mie responsabilità nei confronti del mio Paese? E l’Italia stessa, nei più alti organi del potere legislativo, esecutivo e giudiziario ha responsabilità nei confronti dei suoi cittadini? Potrei perdermi in un delirio di domande retoriche e non ritrovarmi più.
Forse è questo il mio problema, personalissimo. Mi sento disorientata. Sento la mancanza, se vogliamo, di una guida, cui riconoscermi e fidarmi.

Quando ero una bambina, alle medie, ricordo che il professore di francese ci aveva fatti alzare tutti. Un minuto di silenzio. Il primo dei tanti che, a scuola, non immaginavo di ascoltare. Tutti in piedi, testa chinata e pensieri tuffati nel vuoto. Era morto Sandro Pertini. Era febbraio del 1990. Per me era morto il Presidente della Repubblica Italiana che sbracciava e applaudiva ai mondiali di calcio la sua Nazionale di Calcio come fosse stato “uno di noi”… Sono ricordi di calore e felicità. Ma, a quarant'anni capita che riponi occhi su persone che non hai “vissuto” nella loro pienezza, ma che in un qualche modo, ami. Ho riascoltato tramite youtube alcune sue interviste, alcuni suoi messaggi al popolo a Natale o Capodanno. Pertini amava i giovani. E le sue parole erano dirette a me. Forse, a noi. E leggere di lui in “Possa il mio sangue servire” mi ha lasciato dolcezza e ammirazione. Ma vederlo in un video, camminare, passare accanto alla bandiera italiana, prenderne un lembo con le mani, baciarlo e lasciarlo andare giù, col più alto senso di rispetto e onore, e immensa semplicità, mi aveva commossa.
È la vita di Sandro Pertini ad attribuire significato infinito a quel suo gesto. Un partigiano. Un Presidente della Repubblica. Amato da tantissimi. Combatteva per la libertà.

Qui, a Utah Bech, e in tutte le altre quattro spiagge, Omaha, Gold, Juno, Sword, quel 6 giugno 1944 combattevano, e morivano, per la libertà. Dell’Europa.

Torno alla mia moto. É ancora in pedi. Stanca anche lei. Non si accende al primo colpo è come se avesse bisogno, come me, di più gas, energia, per ripartire. Ed io la trovo lungo il mio itinerario: voglio Saint Mer Eglise.

Saint Mer Eglise.
È questa una zona militare, per gli Alleati, di cui avere pieno controllo. Delimita il confine dello sbarco. Si deve garantire la riuscita dello sbarco a Utah Beach. È qui, nelle prime ore del D-Day, che ha inizio l’Operazione Overlord, “la più gigantesca operazione militare aeroportata mai tentata prima di allora: 882 apparecchi (rendiamoci conto) con a bordo più di 13.000 uomini della 101a e della 82a divisione americana”. I primi, la prima volta in guerra, a diciotto anni. I secondi veterani dello sbarco in Sicilia e a Salerno. Ed è pazzesco leggere ne “Il giorno più lungo” che “Solo 6.000 soldati sono in grado di combattere. Il lancio è troppo impreciso. Molti si perdono, altri annegano, intrappolati nel loro paracadute o affondando a causa del peso del materiale trasportato. I sopravvissuti si riuniscono grazie ad un piccolo giocattolo metallico che imita il verso della cavalletta. Per sfortuna di alcuni soldati, il suo rumore si confonde con quello del fucile Mauser tedesco”. Non si può immaginare. Sopravvivi al lanci, credi di chiamare un tuo compagno, di vedere una divisa conosciuta, e invece, muori.

Mi aveva toccato leggere sempre nello stesso libro la sanguinosa e fulminea liberazione di Saint Mer Eglise. Del paracadutista John Steele, precipitato col suo paracadute proprio sulla guglia del campanile della chiesa. Povero ragazzo, ferito ad un piede dallo sparo di un fucile, cosa dovette assistere da lassù: uno spettacolo atroce. Una zona del paese é in fiamme. I cittadini sono in fila a passarsi di mano in mano secchi di acqua, sorvegliati nella notte da una trentina di soldati tedeschi con mitra spianato. Nessuno può scappare. E nel mentre però i paracadutisti americani stanno compiendo il loro dovere di soldati. Muoiono per questo.
I tedeschi, anch’essi sono soldati e hanno ordini: uccidere il nemico. Aprono il fuoco su tutto. E nell’inferno di una sorte dannata, alcuni paracadutisti carichi di esplosivo cadono addirittura fra le mura delle case in fiamme. Orrore. John si finge morto. E la campana suona, ma non copre le urla e i pianti di Saint Mer Eglise.

È strano camminare su questa piazza, vedere la vela del paracadute mossa dal vento, immaginare che al posto di quel manichino, c’era un uomo. E ovunque Saint Mer Eglis dice una sola cosa: paracadutisti. E questa parola, non mi lascia indifferente.

Mio padre era un paracadutista civile. Poi fece il militare: Brigata Folgore. Poi finì il servizio di leva obbligatorio per lo Stato e continuò a lanciarsi da civile. E a volare in ogni modo possibile immaginabile. Mi ha raccontato di tramonti, vissuti nel vuoto, che io non conoscerò mai sentiti così. Ha un ricordo vivido della sua esperienza del “militare”. Degli amici che lì ha incontrato. Con uno in particolare è sempre rimasto in contatto, che nel tempo è divenuto fraterno. Le figlie del suo amico paracadutista sono state le mie più care amiche nella mia giovinezza. Ma quel basco bordeaux che è appeso in casa accanto alle scarpine da ragazza di mia madre, è il ricordo di un’esperienza da lui vissuta positivamente, in tempo di pace. Forse non tutti gli exmilitari paracadutisti, o forse di tutte le armi, hanno ricordi positivi del proprio servizio di leva. Una sola parola: nonnismo. Ne ho letto articoli. E costruito pensieri. La filmografia si spreca su questo argomento così delicato: “Codice d’Onore” vede un Jack Nicholson che difende la sua posizione di colonnello della base navale di Guantanamo, con parole aspre e crude. Muro e libertà: in quanti reggono la verità? Chi è di sentinella sul muro? Sono i muri la soluzione? C'è da perdersi. Ci sarebbe un’altra parentesi enorme da scrivere sui muri presenti nel mondo. Il mio preferito? Quello di Berlino: 9 novembre 1989, il suo crollo.

Quanti muri hanno costruito sulle spiagge della Normandia? Quanti muri sono stati abbattuti dagli eserciti? Quanti paracadutisti sono caduti su tetti di case e fienili, e chiese? Nei filmati di Arromanche, di Caen, tu non puoi immaginare fossero come gocce d’acqua, in balia del vento, esposti agli spari, nel vuoto del cielo, a cadere giù, ed escono in tantissimi fuori da quegli aerei. Non ti capaciti di quanti ne possano contenere. Quanti uomini ci sono lì? Mille mila. Quanti soldati? Fra i parà, per quel che ho inteso io, i paracadutisti, sono anche più che soldati.
C'è una foto, bellissima, di Eisenhower e i suoi paracadutisti, sulle soglie del D-Day, in quel Prima, fatto forse di silenzio e mistero, di preparazione e tecnica, di duro allenamento e sacrificio, di rispetto di un’ordine, militare, di una gerarchia, militare, di una causa, umana.
Eppure, alcuni volti, di quei ragazzi, sono cosi giovani.

Era giovane pure lei, 22 anni, Paola del Din, partigiana, italiana, paracadutista, in zona di guerra. Quale storia incredibile ha questa donna. Quale modello di pura energia e umiltà è, questa nonna di 93 anni. “Non cercavamo nè denaro, nè potere, nè carriere, cercavamo solo di salvare l’Italia” da “Possa il mio sangue servire”. Altro che le ragazze patinate in copertina su giornali e tv. E fb e instagram. Altro che me e questo viaggio.

Che non sopporto più. Basta.

Basta Normandia. Basta morte e cimiteri, basta bandiere e monumenti. Basta pensieri dilanianti e inconcludenti. Basta compassione e pena. Basta tristezza. Lacrime e pianti. Basta. Sono stata una pazza a pensare di poter reggere questo viaggio. Lo sbarco. Il D-Day. Di poterlo affrontare da sola con un semplice diario di carta e la mia penna. E la mia moto. Basta. Non ne posso più. Decido di tralasciare completamente tutta una zona che credevo di fare, quando programmavo a casa. Non vedrò mai Barfleur, Querqueville. Non vedrò mai il faro Gros du Raz. É fisica la sensazione, non voglio più calpestare la Normandia e questa costa. La Storia mi fa male. Questi ultimi tre giorni mi hanno fatto male. Basta. Via. Via di qui.

Voglio andare via. Sono stanca.
Voglio l’incanto. Voglio Le Mont Saint Michel.

Ma sono ancora lontana. Eppure la mia moto è in quella direzione che va. E attraverso un paesino. Saint Lo. Mi ricorda qualcosa. So che è accaduto qualcosa, ma non so cosa. E poi arrivo davanti ad una Chiesa. Qualcosa a prima vista non quadra. Architettura antica e moderna. Poi, con sguardo più lento, quadra fin troppo bene. La parte antica della chiesa è scolpita dai bombardamenti della guerra dei 100 giorni di Normandia, che hanno distrutto una parte della facciata principale d'ingresso. La parte moderna, è la scelta di ricordarlo. Sempre. Guerra è distruzione. E, dolorosa, ricostruzione. Via da Saint Lo. Non reggo più nulla.

Nemmeno ci arrivo a Le Moint Saint Michel.
Mi fermo prima. Un semplice campeggio a Torigni sur Vire.

Comincia a piovere. Sono stanca e monto la tenda.
Continua a piovere. Sono stanca e ordino una birra.
Cammino e il cielo piange sul mio viso.

Guardo la mia moto,
sento piangere pure lei.
 
15875208
15875208 Inviato: 15 Set 2017 7:53
 



Utah Beach.
 
15875556
15875556 Inviato: 15 Set 2017 22:46
 



Saint Mer Eglise.
 
15875596
15875596 Inviato: 15 Set 2017 23:29
 

GIOVEDÌ 17 AGOSTO DA TORIGNI SUR VIRE A CORSELLEURS - LE MONT SAINT MICHEL: INCANTO.


Oggi comincia il viaggio.

Notte di pioggia e freddo. Non ho dormito nè bene, nè serena. Ma un po’ mi sono riposata. É mattino presto e sta ancora piovigginando. Decido di prendermi tempo per un te caldo. Il piccolo bar del campeggio ha appena aperto, unica cliente a quell’ora. Il proprietario è un tipo sui 55-60 e mi fa morire… La moglie gli aveva detto che capisco il francese, ma evidentemente a lui piace l’inglese e mi parla in inglese, ed io capisco più il francese che l’inglese… Un te caldo da delirio… Ma è bello, quest’uomo ha una risata spontanea travolgente. E alla fine mi parla in francese. E mi augura quella cosa bellissima che dicono solo in Francia “Bone route”… Buona strada…

Mammamia come ne ho bisogno. Quell’uomo non sa quanto. Voglio solo buona strada per me e la mia moto. Per me e la mia vita. È la cosa più bella da augurare ad un motociclista… E così, serena fra passi di pioggia torno in tenda. Smonto tutto e sono vestita in tenuta tecnica che non ho voglia di bagnarmi, carico il mio borsone sulla mia motina tutta fradicia (poverina…), borsa serbatoio e via. O meglio, il terrore. L’uscita dal campeggio, l’asfalto, te lo devi sudare, fra sterrato, bagnato, curve e bambini a caso in giro. Come sono felice. Ma perchè tutto questo stress??? È un delirio. Ma decido che la strada sarà breve. Voglio arrivare ad un campeggio vicino a Le Mont Saint Michel e fermarmi lì già dal mattino. E così sarà.

Guido tranquilla, il navigatore sembra tornato a funzionare regolarmente, e mi piace l’aria del mattino. Seppur grigio di pioggia. Oggi non troppo fastidiosa. E capita che sorridi dentro al casco per lo stesso motivo di Dunkerque o Honfleur: indicazioni stradali. Leggo su un cartello Le Mont Saint Michel e la freccia che ne indica la direzione. Ed è bellissimo perché significa che è reale la cosa, sei lì, ci stai arrivando. Stai percorrendo davvero quella stradina che sulla cartina era colorata di giallo e tu ci passavi sopra il dito a casa in inverno.. “gnuuuugnuuu” e raggiungevi le destinazioni in un secondo. Ed ora sono lì sopra, asfalto di collina, di dolcezza, di tutta la morbidezza di cui avevo bisogno. E poi è magia. Giuro. È magia. Tu lo vedi Le Mont Saint Michel, anche se è lontano, anche se è piccolino, non ci credi stia davvero accadendo. E ti accorgi che stai guidando un tuo sogno di bambina.

Mi fermo al camping “Saint Michel”, adoro già il nome… C'è pure una bella piscina con un bel dehor: fra tutti i campeggi visti, questo é il più curato, ma non il più caro. Non c'è caos e ho spazio infinito per piazzare la tendina, anche troppo. Naturalmente prato: solito casino con la moto. Il delirio sto cavalletto… è tutto un trabocchetto il prato… Comunque rimonto tutto, tendinacarina, gonfio materassino, srotolo il piumino… ormai sono organizzata pure nell’arredo interno… Una doccia calda che ancora un po’ si scioglie la pelle e senza quasi accorgermene mi stendo sul materassino e mi addormento in quel mattino di silenzio e calma. Lontana dall’odore del sangue. Della terra, della sabbia, della Normandia.

È incredibile questa cosa, non te la so spiegare, ma ti giuro che è vera. Io stavo già meglio. Mi sentivo meglio. Come più tranquilla, nel mio profondo. Io non so perchè sento così tanto i luoghi che attraverso, in moto soprattutto, non so perchè io debba avere questa sorta di legame fisico con ciò che mi è attorno, non so perché io abbia sensi così stupidi da voler vivere a fior di pelle. A volte detesto questa parte di me. Detesto sentire. Perchè non c'è filtro sulla pelle. Non decidi cosa ti arriva. Arriva e basta. Tu sei nel mondo, e lui ti travolge. La Normandia mi ha spaccato in due. Il suo passato e il suo presente. È roba da urto. Credimi. E poi in moto è tutto amplificato. Ha questo potere un viaggio in moto, espande. Tu senti cose che credi rimangano chiuse impacchettate dentro un casco, ma invece no. La moto spacchetta tutto... E amplifica le sensazioni. Se stai bene e la moto pure, allora starai benissimo. Se stai male e la moto pure, allora stai malissimo. Altre volte invece nemmeno lo sai come stai, devi farti un giro in moto per capirlo. Altre ancora hai solo freddo, e non capisci se arriva da fuori o dentro di te.

Ma non è questa la sensazione che provo qui, in questo campeggio, in questo spazio di prato immenso e di alberi, oasi per i miei sensi. No, qui, ho lentezza di pensiero, sospeso di nuvola. Morbida. E così, mi ripreparo, desidero vedere Le Mont Saint Michel. Pare anche stia spiovendo.

E amo questa strada di grigio vestita, di cielo soffuso sciolto fra campi di fieno e smeraldo, di silenzio d’oro il vento mi porta, mi trasporta d’incanto: ho dentro i miei occhi, Le Mont Saint Michel. E mi versa gocce di fiaba come balsamo per le mie sensazioni, con tocco di mago lenisce i miei pensieri feriti di sabbia, che nel medesimo istante trasforma in polvere di stelle. Dolcezza è tutto attorno a me. Sono estasiata.

Ho amato l’istante in cui ho visto Le Mont Saint Michel da quella stradina che solo, lo affianca, e tu non puoi che essere spettatore ammirato di tanta bellezza. Sei dentro un Teatro di Natura, e di fronte hai un palcoscenico in cui ogni secondo è una Prima. Che si ripete da milioni di anni. E ami te stessa. E la tua moto per averti portata lì. Come se lei avesse desiderato rivedere sul tuo viso, tratti di quel sorriso, che conosceva così bene quando eravate insieme sul Vars: lei ferma e tu a dipingere un acquerello. Come se lei avesse saputo che lì, quell'enorme scoglio di Oceano, avrebbe potuto esserci la fonte da cui attingere le energie per continuare il viaggio: nel mio caso, il vuoto nella testa.

E così è stato.

Anche qui, più che giustamente, ci sono mega parcheggi per pulman, camper, moto e bici… E adoro sempre vedere le motine tutte parcheggiate carine, adoro leggere le targhe, Germania, Inghilterra, Italia, Francia… biglietto forfettario di circa 4€, nulla di che… E poi non me lo aspettavo… C'è un mezzo villaggio fra locali, ufficio informazioni, banche e alberghi e i bus gratuiti che fanno avanti e indietro continuamente fra parcheggio e il monticello. E ci sono pure antichi carri trainati dai cavalli… turismo ecosostenibile… Ed io cammino lungo la stradina che porta all'ingresso delle mura… E tutto attorno campi e terra. Asciutta. E a tratti crepata. È fantastico. Il cielo dipinge colori così omogenei qui, così plasmati di sfumature che si abbracciano fra roccia e terra e papaveri di acqua… Adoro questo posto, questa passeggiata, persino questo tempo. Non lo so forse amo l’Oceano grigio nel cielo. Forse la mia anima è rimasta a Dunkerque, dentro quella foto. Me l’ha rubata l’Oceano. Se la tiene un po’ con sè, aveva bisogno di scuoterla di tempesta, per poi restituirmela di pace. Di pioggia. Evaporata.

Come è bello essere qui. Così. Come sto bene a camminare qui. Così. Stivali da moto e impronte di fango, foulard al vento e zaino di serbatoio sulle mie spalle. Anche quando non c’è, la mia moto è con me. Ed è stupendo tutto quello che vedo. Sono dentro un quadro. Me lo dice pure mia figlia cui invio una foto con alle spalle Le Mont Saint Michel e lei risponde “Sei dentro il quadro di nonna!”… Già… i miei c’erano stati un boato di tempo fa e presero lì un quadro, bellissimo. E più di una volta mi era capitato di guardarlo appeso a casa loro e dire sottovoce “non ci arriverò mai”. E invece, sono a Le Mont Saint Michel. Uno dei crocevia punti di riferimento di pellegrinaggio cristiano che seguendo non so più quali stelle portava il pellegrino, di santuario in santuario, votato a San Michele, fino a Gerusalemme. E sorrido. Io sono piemontese. E c’è dietro casa, e sempre nei weekend di moto, una roccia, piuttosto alta e ben in vista mentre sei giù sulla strada… È la Sacra di San Michele… E sorrido ancora, ci sono passata accanto il primo giorno del mio viaggio. Ci passo accanto sempre, fra un giro con i miei amici motociclisti o in solitaria, per raggiungere le nostre Alpi e tornare, sempre, col sorriso nel cuore.

E qui pure, muovo passi di sorriso attorno tutte le mura, che sì, 40 minuti a piedi e arrivi alla roccia su cui è costruita la cittadina e il famoso monastero, e scatto fato. E sventola sempre, la bandiera francese ed io la confino ancora una volta sul mio cellulare. E continuo a catturare l’ineguagliabile: i colori della natura. Accostamenti straordinari. Da indossare. Posso capire come gli stilisti, alcuni di loro artisti, siano rimasti affascinati dalla natura, tanto da imitarla cercandola in un disegno, di vestito, di tessuto. Di donna. Vani tentativi… La natura non si indossa. É stupenda così com’è, lì com’è. Scivolosi verdi brillavano su molli grigi, scrocchiavano i bianchi di puntini conchigliati su impronte di sabbiccio, e che dire delle roccie vestite di senape? E poi la presenza dell’uomo, ingegno compreso. Equilibrio e fluo. Sassi come alla Cime de la Bonette, boe sdraiate sul fondo del mare che qui passeggio. Adoro. Anche il vento. E laggiù Oceano. Si vede. Qui torna sempre. Si va a fare un giro fuori, e luna lo rapisce. E lui è innamorato perso di lei. Ma lei poi gli sorride, gli lascia un bacino e lo fa scivolare di nuovo giù… E allora torna qui, a cercare rifugio solitario… E prepara già il nuovo viaggio…

E lascia a noi che camminiamo qui, la custodia del suo segreto. Spiegato in tutti i libri di scuola del mondo. Era una fotografia così piccola sul libro di geografia… mai più da bambina pensavo a me “da grande”. Non sono cambiata tanto in questo… Eppure sono qui. Ed è meraviglioso.

Faccio un giro anche dentro le mura. E accadono due cose: esce il sole a 40.000 gradi e c'è l’Universo in un millimetro quadrato. Densità di popolazione: 100.000.000.000 di persone al metro quadro. Ma come fanno quelle mura a non scoppiare???? Giuro. Una roba allucinante. L’interno di Le Mont Saint Michel ad agosto deve essere vivibile solo dalle 02.00 alle 06.00 del mattino…. Siamo un miliardo di persone compresse fra negozi e locali, su stradine strettissime e tutte in salita. Non mi stupirei se ogni tanto qualcuno volasse giù… Una roba assurda. E ti consiglio di non avere fame. Oppure di avere un buon portafoglio. Che io naturalmente non ho. Vacanza raso terra quest’anno… Devo tenere il quaderno delle spese che se no, non capisco più niente delle uscite…. E decido che qui non mi fermo a mangiare, manco un panino. Non me lo godrei. Un bordello pazzesco. E scatto qualche foto e arrivo fino su e mi si chiede di pagare per visitare il monastero. Credo che la cosa non mi interessi. Magari mi sono persa architetture e vista da favola. Ma qui a camminare così, anzi per inerzia o moto perpetuo da folla, non ne posso più. Volevo fermarmi per dipingere, ma era letteralmente infattibile. Una cartolina al volo e via.
Ritorno alla mia moto. E il sole però, esalta contrasti fantastici con questo cielo così grigio. Alcuni raggi trafiggono nuvole. É stupendo. Roba da stare fermi per ore. Solo a guardare.

Ed è quello che farò. Risalgo sulla mia motina e su quella strada tanto carina dell’andata, mi appropinquo al ritorno: avevo notato in mezzo al nulla, un campo verde con tavolini e sedie e una roulotte gustosa di schifezze. E sia. Qui è tranquillissimo e soprattutto c’è il panorama più bello del modo: Le Mont Saint Michel nella sua pienezza.

Ordino cibo: patatine fritte, un panino hamburger, e una cocacola. Guardo sto panino e penso propio che in questa vacanza è un casino la mia dieta. E il mio corpo secondo me ne risente. E penso pure che ho bisogno di energia, e già che ho pagato, mangio. E questo posticino è adorabile. Come la mia moto, parcheggiata ad un metro. Ogni tanto penso di essere pazza: le sono affezionata.

E l’atmosfera è di nuovo così soffusa che prendo i mie acquerelli: il sole gioca a nascondino con le nuvole. E quel che vedo mi rasserena. E dipingo, il tempo sopeso, questa volta senza attingere da lacrima alcuna. Il mio viso è disteso. Sto bene. Sono dove voglio essere.

Le Mont Saint Michel mi ha cullato.

Torno al campeggio. Una stanchezza strana si scioglie sul mio corpo. Crollo prima che arrivi sera. Ovattata ancora nel mondo incantato di Le Mont Saint Michel.

L’unico miele della mia Normandia.
 
15877216
15877216 Inviato: 19 Set 2017 22:32
 



Le Mont Saint Michel...
 
15877800
15877800 Inviato: 20 Set 2017 21:10
 

quasi dieci anni fa ho visitato anche io quei luoghi dello sbarco. Era Settembre inoltrato e il turismo di massa era cessato. Io, insieme a quella che da lì a poco sarebbe diventata mia moglie.
Dopo la Normandia abbiamo visitato i campi di concentramento. Mautthausen,Natzweiler e Dachau.
I luoghi dello sbarco in Provenza. E per ultimo Norimberga.
Per chi è appassionato della Seconda Guerra Mondiale Norimberga rappresenta il punto di inizio e il punto della fine.

Anche in Italia ci sono luoghi dove la guerra ha travolto tutto e tutti.
Montecassino, Anzio-Nettuno, lo sbarco in Sicilia e la Linea Gotica, solo per citarne alcuni.

Alla fine la Normandia rimane il luogo più pubblicizzato, forse grazie a Spielberg, forse perchè i francesi hanno saputo valorizzarlo.
Per quanto riguarda il numero dei morti il fronte orientale rimane quello più insanguinato.
 
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