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Inviato: 29 Ago 2017 12:21
Gold Beach.
Gold Beach è Arromanches-les-Bains. È il segreto per cui sono morte torturate spie. È l’idea geniale di un uomo: Winston Churchill. È un’opera di ingegneria straordinaria. È la costruzione di un porto trasportato via mare. Ma ci rendiamo conto???? Dal nulla, nel nulla, un porto: militare. In cui n 6 giorni dopo lo sbarco, il 12 giugno, sono stati sbarcati più di 300.000 uomini, 54.000 veicoli e 104.000 tonnellate di rifornimenti. Bastano i numeri a lasciare impressione.
Ma qui, ad Arromanches, c'è molto altro che non lascia solo impressione. Il bianco e nero si fonde con te e ti svuota. Ma calma. Andiamo piano. Intanto una cosa graziosissima: rincontro le tre coppie di motociclisti francesi: ci salutiamo con un sorriso più vivido questa volta. E nel parcheggio ci sono tante moto. Forse è il sole. Forse anche qui come da noi sulle Alpi, come c'è il sole si esce in moto. Non lo so. Ma mi piace leggere le targhe, inglesi, tedesche, francesi e anche italiane. Sono sempre felice quando ne leggo una. Quella “I” è stupenda! Prima di partire cercavo un adesivo della bandiera italiana da mettere sulla targa della mia motina: volevo con me la mia bandiera. Non ne ho trovato mezzo. Forse nemmeno sapevo dove comprarlo. Ma fa lo stesso: ho il mio braccialetto. E ogni tanto lo guardo.
E guardo pure l‘Oceano che da qui dove sono è giù in basso. E si vedono i resti di quel porto così importante per gli Alleati. E non sai quanto è enorme uno dei suoi “pezzi”. Io qui ci cammino sotto e ne scatto fotografie ai pezzi di legno. Che hanno resisto al passaggio della Storia.
E proseguo a piedi. Perché se sei qui non puoi, proprio non puoi, non pagare un biglietto per il “Cinéma circulaire” 360. Io ne acquisto uno cumulativo col Memoriale della Pace di Caen.
Entrare qui, a vedere questo film “Les 100 jours de Normandie” se già hai un minimo letto due cose e provate altre mille cui nemmeno sai dare un nome, è un’esperienza non indifferente. Non è solo visiva, con solo uno schermo di fronte a te. Sei circondato dagli schermi. E il suono invade. Tutto e tutti. Siamo in tanti. E siamo tutti in piedi appoggiati alle sbarre. E scatto una foto alle parole dello schermo, che introducono al significato delle immagini che seguiranno: “Nous avons fait ce film pour que le monde se souvienne qu’ici, en Normandie, l’ideal de Paix est notre héritage commun”. Non sarò mai in grado di descrivere quello che ho visto. Quello che ho ascoltato. Posso solo raccontarti che piangevo. E non ero l’unica. Alcune immagini non sono un film. Quelli non sono attori. Quei ragazzi non si rialzano per mettersi a posto i vestiti. Rimangono per terra quei corpi. Accasciati sulla spiaggia. Persino di alcuni soldati ne vedi lo sparo. Corrono, sono colpiti, cadono. Cadono e sprofondano. Rimangono privi di respiro. Privi di tutto. Sono proprietari solo più di una una cosa: la morte. O forse é la morte diventata la loro Signora e Padrona. Si sta male ad assistere questo film. Ed è incredibile il contrasto. É meraviglioso quel contrasto. Quel montaggio ti sconvolge. Ti ribalta l’anima. Il prima e il dopo. Quel bianco e nero di tutte quelle immagini, ti svuotano di tutto. Annullano qualsiasi eventuale colore. Non potevano che essere in bianco e nero quelle fotografie della Seconda Guerra Mondiale. E poi, dopo che hai vomitato via ogni colore in te, ecco che alla fine ti si riempiono gli occhi con i colori della Normandia della sua Natura nella sua forma più smagliante. L’azzurro del cielo, l’oro di quelle spiagge e il verde di quelle falesie. E l’Ocenao non è sangue. È blu. Immensamente blu. Ed è vita tutto attorno. Bambini e famiglie e anziani a passeggio. E gabbiani, in volo. L’esperienza Arromanches mi ha scossa. E mi vergogno un po’ quando si esce dal cinema. Ma ho una vetrata con l’Oceano davanti a me. Una culla fissarne le onde. Mi sento un istante osservata. Probabilmente sono io che ho un modo di approcciarmi a queste spiagge, vivido. Eppure qui non ho alcun parente a cui possa sentirmi “legata”. Non ho un motivo particolare. Sono italiana. Non inglese o americana. O canadese. E meno che mai sono francese. E nemmeno sono tedesca. Il mio approccio dovrebbe essere quanto più “disinteressato” possibile. Eppure sento cuore, più che testa. Senso d’umanità. Cui sono certa percepisce chiunque qui. Ed esco da quel cinema che ho solo voglia di rinfrescarmi il viso. Ma i francesi sono grandiosi… Quando esci dalla sala cinematografica sei catapultato nel negozio di souvenir. E naturalmente qualcosa prendo: la copia de “Le Journal” del 6 giugno 1944 “L'estate forces alliées ont ouvert un nouveau front à l’Ouest!”. Ed un paio di fotografie: di Rober Capa.
Ma vi prego, soffermiamoci un secondo. C'è qualcosa di magico nelle fotografie. Lo sappiamo bene noi, io sicuro, che oggi, possiamo scattare mille mila foto da publicare ovunque. Perchè sì, l’immagine digitale si materializza in meandri del linguaggio binario del nostro supporto digitale, quale che sia pc o cellulare o tablet, e può davvero arrivare in luoghi e a persone cui propio non ti aspetti. O forse sì. Forse oggi, nel 2017 scattiamo foto da mettere in mostra, dove siamo stati, cosa abbiamo fatto, chi c'era con noi: è la nostra era quella dell’immagine. Ci siamo dentro fino al collo. Ma quante delle foto che bombardano i social sono davvero significative? Quante riescono a colpire? Scuotere anche? Addirittura una coscienza sociale? Quelle dei calciatori? Quelle delle ragazze sempre mezze nude? Col seno di fuori e un viso sempre provocante? Quei mille e mille autoscatti che i giovani in particolare si fanno? I famosi selfie? In ogni posizione possibile immaginabile. Ne è pieno ogni social. Sembra che mai come prima, oggi, si abbia bisogno di “fermare” il tempo. Tutto velocissimo, tutto evolve che non te ne accorgi, e forse le mille foto al giorno, sempre belle e sorridenti, sempre al meglio, anche ritoccate con miriadi di applicazioni, regalano l’illusione che esistiamo, magari per sempre. C'è traccia del passaggio: c'è la fotografia. E ripeto, solitamente è una foto che ritrae benessere. Almeno apparente. E raramente spontaneo. Piuttosto montato è costruito a dovere. Non ci si fotografa mentre si piange. In generale. Perché in particolare, nel mio caso, sono riuscita anche in questo. L’anno scorso sui Pirenei, il Tourmalet mi aveva bucato l’anima. E ho pianto lacrime di cui ho raccontato già in un altro report. Quel momento non potevo che fermarlo con una fotografia. Il mio viso. Le mie constatazioni. Le mie gocce d’acqua piene di tutto. Ma siamo sicuri che sono queste le immagini che hanno il potere di smuovere le coscienze, di una società? Ma per favore, vi prego. Al limite, questo sì, alcune immagini che scorrono sul tamburo incessante ad esempio di fb, ti trasmettono sensazioni belle: io adoro alcuni scatti che mi è capitato di vedere di fotografi professionisti che rendono unico un giorno speciale: il matrimonio. È come se chiedessero il permesso alla gioia, che posa diffusa in una festa così importante, soprattutto per i protagonisti, di essere inquadrata. Ritratta. Appunto in una fotografia. Alcune di quelle che ho visto, ti lasciano una dolcezza infinita. Ed è una cosa bella. Loro, lo sanno fare.
Io non lo conosco il linguaggio delle immagini, non so come si scatta tecnicamente una fotografia, fra obiettivi e messa a fuoco. Ma ne comprendo il loro potere. E naturalmente non sono l’unica. Uno scatto catturato a Jwo-Jima da Joe Rosenthal nel 1945 è divenuto un simbolo per tutta l’America. Voglio dire che il potere delle immagini è ben conosciuto alla politica. Che anche ha censurato in epoca di totalitarismo. Ha vietato alla Stampa, la libertà di parola. Di espressione. Di immagine. Di informazione. Ma ci rendiamo conto? Le manette alle parole? Ai pensieri. È semplicemente qualcosa di impensabile. Eppure. È stato. Senza andare nemmeno tanto lontano: “Repressione in Turchia: giornalisti arrestati. Erdogan sceglie i rettori” intitola il Sole 24 ore. E non era il 1945. Ma l’altro ieri: il 31 ottobre 2016.
I coraggiosi però, quelli che furiosamente non possono essere soggiogati, sono sempre esistiti, spinti da quella pulsione feroce di raccontare una cosa sola: la realtà. La verità. Così come si presenta. Atroce anche. Ed i giornalisti ed i fotoreporter della seconda guerra mondiale, e di tutte le guerre, questo hanno fatto e fanno. Ti sbattono in faccia quella dura verità, quella che non vuoi vedere, preferisci far finta non esista, mentre sei comodo a casa tua, ma loro, con le loro fotografie, ti obbligano, almeno quell’istante in cui ti scivolano sotto gli occhi a renderti conto di ciò che accade. In una zona del mondo. E non puoi più fare finta di niente. Credo che ce lo ricordiamo tutti quel bambino, sulla spiaggia. E ricordo l’introduzione di Mario Calabresi nel suo articolo su “La Stampa” pubblicato il 3 settembre 2015 dal titolo “La spiaggia in cui muore l’Europa”: non si può girare la testa.
Quello scatto fotografico, come quelli di Robert Capa nello sbarco hanno il potere di confinare il Tempo in uno spazio. Di delimitarlo. Dentro un’inquadratura. Quella della macchina fotografica. Ma dietro un obiettivo c'è, sempre, un essere umano. Che si muove. È vivo, e vive emozioni. Sensazioni. Paura, odio, rabbia, angoscia, ansia, amore. Che Robert Capa ha sentito addosso. Ha ritratto. Era imbarcato insieme ai soldati il 6 giugno 1944 ad Omaha Beach. Ha conosciuto e condiviso con loro l’orrore. La morte. La conquistata di un pezzo di quella spiaggia. E il prezzo pagato. Per la libertà dell’Europa. È a lui che si rivolge il mio senso di gratitudine per aver reso immortali frammenti del D-Day. Quei suoi undici scatti, o meglio quelli che sono rimasti dei molti di più che aveva inciso, ti lasciano addosso la drammaticità del momento vissuto, persino sulla sua di pelle. Appunto quella di un fotografo. E in Normandia, in ogni museo, in ogni Memoriale, hanno saputo tributare a Capa il suo giusto merito. Hanno saputo utilizzare il suo materiale in diversi contesti che sempre ti lasciano di sasso. Conosci quasi a memoria quei bianchi e neri che ti svuotano.
Ma appunto, come dicevo, quando hai finito di vedere quel filmato al cinema 360 di Arromanches, vuoi una cosa sola: i colori. Ed oggi io ne ho tanti. Perché oggi, c'è un sole da favola a riscaldarmi la pelle, il cuore. E me lo godo seduta sul prato di fronte all’Oceano. E il paesino di Arromanches è graziosissimo. Piccino con i suoi localini e negozietti. E cammini in discesa per arrivarci. E ti fermi a scattare ancora due fotografie: un altro carro armato fra le casette di fronte al mare. E quella bandiera che sventola sempre il suo centenario significato: Libertè, Egualitè, Fraternitè.
I bambini giocano sulla spiaggia, ragazzi seduti, gente che passeggia, è tranquillo qui. E prelevo il mio souvenir più significativo: un po' di sabbia. Di Gold Beach.
E ritorno sulla mia moto. Non prima di aver scattato una foto ad un ciuccio e delle piccole croci di legno accanto ad un monumento. Il presente che omaggia il passato.
Riparto: ho una meta importante da raggiungere: Colville-sur-Mer. Omaha Bech. Il cimitero Americano: 9.387 tombe.