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Inviato: 26 Mag 2013 17:58
Oggetto: Capitolo 8_Verde Come Il Caucaso, Nero Come L'Animo Umano.
Capitolo 8
Verde come il Caucaso, Nero come l'Animo Umano.
Passa una buona mezz’ora fin quando arriva l’Ufficiale che mi riceve con un sorriso smagliante e il simbolo del dollaro che lampeggia nelle sue pupille scure.
I lineamenti quasi delicati del viso olivastro stridono con la panza che satura la camicia tendendo occhielli e bottoni.
Mi fa accomodare nel suo ufficio anche se c’è gente che lo aspetta da prima di me, accovacciata a terra.
Mi dice di chiudere la porta. Sarei tentato di lasciare accesa l’ actioncam sul casco ma non sia mai se ne accorgesse non aiuterebbe di certo.
Spiego anche a lui la questione mentre scorre i fogli del mio passaporto.
Approccia alla cosa con molta tranquillità, come se non ci fosse un vero problema.
Mi chiede del viaggio continuando a ostentare rilassatezza.
Mentre parlo delle mie avventure e della situazione lui, con lo stesso ghigno e senza alzare gli occhi dal passaporto, mi dice che posso anche pagare la multa, ma l’ufficio che certifica l’avvenuto pagamento apre tra cinque giorni.
Rimango calmo mentre gli faccio notare che il mio visto russo scade tra cinque giorni, per cui entrerei in Russia da clandestino o addirittura non mi farebbero proprio entrare. E non sarebbe una bella situazione da risolvere.
Lui questo lo sa già e credo sia per questo che mi dica così: si sta lavorando per bene il pollo da spennare mentre io, il pollo, penso che come un c******e non ho annotato il numero dei vari consolati per queste emergenze.
E la cosa è da risolversi ora in quest’ufficio.
Gli chiedo di dirmi cosa posso fare per sanare prima possibile la mia posizione.
Chiaro che un modo c’è ma devo ricambiare con qualcosa.
L’Ufficiale è molto attento a non parlare di mazzette (non ne parla mai nessuno in nessuna parte del mondo),
parla di regalo mentre su un pizzino che strappa via dal foglio che ha davanti sul tavolo mi scrive le cifre:
la multa è 200 dollari, dammene 300 e siamo a posto.
Strabuzzo gli occhi rispondendogli ridendo che non ho quella cifra, che al massimo gli posso dare 30 dollari.
Lui ride riducendo in pezzi minutissimi il pizzino dicendo “allora non posso aiutarti!”
continuando a sfogliare il passaporto iniziando a fare il vago “ Aaaah….Antonio…. Antonio Banderas!... bel casco! questa cos’ è una fotocamera?...”
Io li mi incazzo e alzo la voce ripetendo e drammatizzando la sfuriata vincente con gli sbirri di qualche giorno prima:
“Eh sì, mi chiamo Antonio, non mi chiamo Berlusconi! Non sono ricco! Ho lavorato tutto l’anno come te (non è vero, lui non fa un c***o)ogni giorno, mettendo i soldi da parte per questo viaggio, sono in giro da 30 giorni e i soldi sono finiti! Quello che mi chiedi è tutto quello che ho. Devo attraversare la Russia , la Georgia, la Turchia e la Grecia prima di vedere l’Italia. Come torno a casa se do i soldi a te?”
Dice di capire mentre allarmato mi fa segno di abbassare la voce, mentre su un altro pizzino scrive il numero 100.
Ci accordiamo per questa cifra.
Lui incassa soddisfatto dopo aver timbrato il foglio d’immigrazione.
Tutto qui? Cento euri! Cento! Per un timbro che stava lì in un cassetto?
Gli chiedo se davvero con quello non avrò problemi.
Mi risponde indicando il grado sulla manica della camicia “fidati, sono un poliziotto”.
Bastardazzu, vorrei averlo filmato solo per sputtanarlo davanti ai colleghi.
Mi raccomanda inoltre di non far parola con nessuno di questa cosa.
Tranquillo, parola mia non lo dico a nessuno.
Fa per darmi la mano ma me ne vado senza cacarlo mentre mi urla beffardo
“Buon viaggio Antonio!.... Banderas!”
“Vafanculu tu e a fiss’ i mammata! Cent’euri ti pigghiasti! Centu!”
Ritorno alla frontiera e vengo fatto passare avanti dalle guardie che ormai mi riconoscono come il caso umano della giornata.
Quando finalmente sono al controllo passaporti i militari mi chiedono com’è andata:
-“Hai pagato la multa?”
-“No proprio multa no.
-“Regalo?”
-“Sì, regalo”
-“Quanto? 50? 100 dollari?”
-“No, 100 euro”
“100 EURO? MA LA MULTA COSTA 200 DOLLARI!”
“Eh! E io gli ho dato 100 euro! Problemi?”
“Sono troppi!”
“Ma dai?”
Sono indignati dalla cifra che ho pagato, ma in realtà sono più che altro rammaricati per non essersela intascata loro.
E io continuo a sbottare dicendo che amo il loro paese ma la polizia mi ha fatto passare la voglia di tornarci, che in Italia dirò agli altri motociclisti di non venire in questo paese.
Che devono prendere provvedimenti contro questi poliziotti indegni che sporcano il nome dello stato e del popolo kazako.
Mi guardano commossi mentre dico queste cose ma, ripeto, lo sguardo gli si è fatto triste pensando ai 100 euro che qualcun altro si è intascato al posto loro. Finalmente esco dall’altro cancello mandando tutti a fare in culo apertamente, tanto non mi capiscono.
Mi aspetto di passare chissà quanto tempo alla frontiera russa, invece mi sbrigo in non più di mezz’ora.
Mi fermo un po in attesa che l’acquazzone che sta venendo giù si calmi un attimo.
Sì, decisamente la Russia è felice di rivedermi e lo percepisco dal suo abbraccio umido e caldo.
Fare ritorno sugli stessi passi dell’andata è una sensazione strana:
ciò che prima guardavi con gli occhi timidi ed entusiasti di chi scopre qualcosa, ora lo vedi come qualcosa che sta lì da sempre ed è normale che stia lì. Diventa una pietra miliare che ti indica che hai fatto un passo in più verso casa.
E’ così per il ponte di ferro a Krasnyi Yar ma appena inizio a percorrerlo scopro che, alla faccia del già visto, stavolta è difficilissimo tenere la moto.
Mi sembra continuamente di cadere e di scivolare via come se guidassi sul sapone.
Più di una volta mi sono fermato, e ho percorso praticamente tutta la sua lunghezza con entrambi i piedi a terra per il senso di insicurezza.
E’ chiaro che sono le gomme ormai alla frutta, ma per il dolore alla gamba penso in quel momento che sia dovuto alla stanchezza.
Ad Astrakhan mangio un pollo arrosto a una fermata dell’autobus, sotto lo sguardo curioso dei passanti.
Dopo gli ultimi incontri Kazaki i Russi mi sembrano i più gentili del mondo.
In realtà ritrovo quanto lasciato due settimane fa, ovvero un cuore caldo ben nascosto sotto una scorza dura.
Chiedo a un paio di signori che aspettano l’autobus che direzione mi conviene prendere per andare in Cecenia, mentre imposto il navigatore snervandomi per i suoi tempi di elaborazione biblici.
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Le teorie sono discordanti : uno mi dice di andare a Elista e poi da lì scendere a sud, l’altro dice che forse potrei anche fare quello che dico di voler fare, ovvero puntare dritto a sud verso il Dagestan costeggiando il Mar Caspio.
Uno dice che strade non ce ne stanno, l’altro dice che non sono proprio strade ma si può arrivare.
Entrambi concordano però su una domanda, ovvero: “Che c***o vai a fare in Cecenia? E’ pericoloso! Ci sono i terroristi ed’è pieno di brutta gente!”
Si consultano con un terzo, passeggero di un autobus che nel frattempo è arrivato alla fermata.
Ma questo non capisce cosa dico,io non capisco lui e, cosa che mi stupisce, neanche i primi due capiscono il terzo.
Vabbò, mi sono rotto le palle.
Vado verso sud.
La prima città si chiama Liman. Arriverò lì e poi vedrò cosa fare.
Ritrovo la campagna verde e i corsi d’acqua alternati a tratti di steppa.
Costeggio il Mar Caspio e si sente dall’odore nell’aria che rimane calda e afosa mentre si addensano nuvole scure.
Mi fermo in una cittadina a comprare sigarette e bere un caffè in un chioschetto in un parcheggio per autobus o non so che.
La signora del chiosco è gentile e lo sono anche i tipi con cui chiacchiero mentre sto lì seduto.
Quando dico che sto andando in Cecenia quello Baffuto in canottiera mi guarda di traverso e mi chiede cosa ci vada mai a fare, se sono forse musulmano?
“Non che non lo sono. Gli italiani sono Cattolici!”
“E non ci sono musulmani in Italia?”
“Sì ma sono immigrati: Dalla Turchia, dall’Iran, dal Pakistan…”
-“Sembri musulmano però!Se non lo sei cosa vai a fare lì?”
-“ Da Vladikavkaz entro in Georgia, a Kazbegi. E’ aperta anche per gli europei. Poi Turchia, Grecia e ferry boat per l’Italia. La vacanza è finita, ma il viaggio non ancora. Sto tornando a casa.”
“Stai attento in Cecenia. E’ gente pericolosa. Musulmani! Terroristi!”
Conosco la solfa: Se c’è una cosa che ho imparato in questi viaggi è che il vicino di casa è sempre il più pericoloso e/o bastardo sulla faccia della terra.
Con gli occhi aperti ci sto già e so gia che attraverserò un territorio militarizzato e sotto controllo.
Sono già stato dall’altra parte del Caucaso e ci ho trovato solo gente fantastica che mi aspetto di ritrovare in variante islamica da questo lato.
Arrivo a Liman quasi al tramonto mentre si avvicina una tempesta di pioggia e sabbia che batte sulle casette basse di questo centro abitato piantato in mezzo alla steppa.
Vedo le indicazioni per Lagan, la città successiva, portare verso uno sterrato.
Preferisco cercare un posto solido e riparato per dormire, visto il vento forte che rende impossibile montare e mantenere in piedi una tenda.
Il primo affittacamere non accetta stranieri (ci risiamo) e mi indirizzano verso un altro motel.
Dopo un paio di giri a vuoto in mezzo all’aria satura di sabbia riesco a trovare l’ Hotel Berioska.
E’ poco più grande di una casa, a un piano solo e con un bel giardino ben curato.
Alla Reception la tipa mi accoglie con poco entusiasmo e con apparente freddezza.
Chiedo subito se accettano europei senza passaporto Russo, ovvero se mi possono registrare o meno.
La Tipa sembra restìa ad accettare le mie istanze, o forse non ci capiamo bene: il mio russo è molto elementare e lei parla velocemente.
E non parla inglese. La situazione cambia non so perché, quando vedo uno sguardo diverso nei suoi occhi che guardano dritti nei miei e si decide a fare una telefonata.
Parla con la proprietaria che, dopo una discussione di un paio di minuti, le da l’OK per farmi alloggiare.
Perfetto. Faccio subito simpatia perché, a parte la registrazione, non ho nessuna pretesa.
Per me è già una pacchia aver trovato un hotel mentre fuori si scatena il finimondo.
Realizzo solo ora che quella sabbia è la stessa che ho respirato per giorni:
siamo ancora nel delta del Volga e a pochi km da quest’oasi è tutto steppa e deserto.
La seguo mentre mi porta alla camera e non posso fare a meno di notare le sue rotondità.
Sebbene discretamente in carne emana un fascino e una femminilità a cui è difficile rimanere indifferenti,
soprattutto per i suoi modi semplici e affatto provocanti.
E forse anche perché sto in giro da un mese tra deserti, steppe e poche copertissime donne islamiche.
La stanza è da dividere con un altro uomo che al momento non c’è.
La tipa mi assegna il letto in fondo, mi fa sistemare le cose e poi mi mostra il bagno in comune.
Faccio una doccia e mi godo la fine di questa giornata del c***o, iniziata tra gli uffici delle forze dell’ordine Kazake, con una birra in giardino:
la bufera è andata via nel giro di una ventina di minuti e ora rimane solo un piacevole freschetto e un esercito di zanzare che divorano me e un altro ospite dell’albergo con cui chiacchiero.
Parliamo del suo lavoro per una società che produce cartografie per gps e, mentre anche lui mi dice di stare attento in Cecenia,
per un momento viene a sedersi un altro individuo.
Mi stringe la mano e noto subito, insieme al Cartografo, che è decisamente ubriaco.
Non riuscendo ad infilarsi nella discussione si alza e va via.
Ho addoso dei pantaloni con le gambe amovibili che tramite zip diventano pantaloncini.
Tengo la zip sinistra aperta in modo da far asciugare la ferita.
Anche se mi sforzo di non farlo continuo a zoppicare visibilmente.
Vado in camera a prendere un altro pacchetto di sigarette, dicendo al Cartografo di aspettarmi che torno subito.
Trovo la porta aperta e il tipo di prima seduto sul letto,chiaramente ubriaco.
Ha un tono fastidioso quando mi dice di entrare che ci facciamo una bevuta, cosa di cui non ho nessuna voglia ma insiste fastidiosamente.
In quel mentre passa la Receptionist che subito mi chiede se è tutto ok, dico di sì ma non basta.
Iniziano immediatamente a battibeccare, dicendosi cose che non capisco.
La tipa fa una telefonata e dopo meno di un minuto spunta una signora bassina sulla 50ina, capelli neri e corti e la schiena dritta, i lineamenti tra lo slavo e il mongolo.
Comincia ad attaccare all’ Alcolista un pippone durissimo, tanto che per un po' credo sia sua moglie.
In realtà è la proprietaria dell’albergo.
La sento dirgli: “Te l’ho gia detto: non devi dare fastidio ai clienti!”
In tutto questo io sono seduto di fronte alla porta con la receptionist che mi ripete continuamente “ Va tutto bene, Antonio, tutto bene!”
Io all’inizio provo a dire che è davvero tutto ok, che il tipo non è che mi stesse rompendo più di tanto le palline.
Però ‘ste due sono ormai lanciate nella loro crociata e non voglio interromperle.
Alla fine decidono di cambiarmi di stanza:
mi metteranno insieme a un altro che non c’è e non tornerà fino al giorno dopo, con l’unica raccomandazione di lasciare la stanza più in ordine possibile.
Si accorgono della mia gamba e mi aiutano a portare le mie cose nella nuova stanza,
mentre la Receptionist mi dice di controllare se c’è tutto o mi manca qualcosa.
La proprietaria mi mette addirittura il giubbotto nell’armadio prima di scortarmi alla sala ristorante a sollecitare quanto avevo chiesto prima.
Sta con me fin quando non mi portano la pappa, chiedendomi del mio viaggio e scusandosi per il comportamento dell’Alcolista.
Si scusa anche per il fatto di non parlare inglese mentre io mi scuso per il mio russo.
Credo che la mia faccia in tutto questo tempo si sia mantenuta su un espressione di costante stupore e gratitudine.
Non fa molto macho essere protetto da due donne a dire il vero.
Ma dopo tutto questo tempo passato tra maschioni islamici, sabbia e asfalto confesso mi fa davvero piacere essere coccolato quasi maternamente da queste due cazzutissime signore.
Me la godo tutta.
Compresa l’ammirazione per il viaggio che sto facendo e i complimenti per un russo che davvero non parlo bene.
Già… il russo. Questo racconto era iniziato con il mio profondo timore di non riuscire a padroneggiare questa lingua dal suono ostico e dalle forme grammaticali per noi assurde.
E’ finita che ormai da giorni la lingua dei miei pensieri è un misto di italiano, calabrese, inglese e russo.
Per intenderci la lingua che parlo ora mi ricorda Salvatore, lo storpio de “il nome della rosa”, l’eretico che mescolava più lingue in ogni frase.
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I pensieri più confusi sono quelli in russo, è chiaro.
Ma ogni giorno imparo qual cosina in più, riuscendo ormai perfino a distinguere le differenze di inflessione dei vari popoli.
E’ davvero un peccato che tutto questo debba finire.
Vado a nanna mentre gli altri maschioni, quelli sobri e non caca c***i, guardano la TV a volume sostenuto.
Cosa che non mi tange minimamente.
L’indomani il cielo è ancora grigio ma ha tutta l’aria di mantenersi tranquillo per un bel po.
Ritrovo le signore con i sorrisi e le loro attenzioni.
Vorrebbero che mi fermassi un altro giorno almeno per riposarmi ma rimango fermo sulla mia decisione di proseguire, anche perché il visto è agli sgoccioli.
La Padrona e il Giardiniere mi spiegano la strada da fare: Devo imboccare la strada sterrata che ho intravisto il giorno prima, raggiungere Lagan e da lì puntare verso sud a Makhachkhala.
Poi su quella strada troverò le indicazioni per Vladikavkaz.
Chiedo che tipo di fondo ci sia complessivamente e il Giardiniere mi risponde che è sterrato buono e compatto per una 50ina di km,
dopodiché troverò l’asfalto appena entrato in Dagestan.
E che da lì in poi devo stare attento, perché sono tutti musulmani.
Ci scambiamo gli indirizzi email, facciamo le foto di rito e ricevo gli in bocca al lupo più belli di tutto il viaggio.
E anche l’invito a ritornare casomai passassi da quelle parti di nuovo.
Anche per loro sono un viaggiatore romantico e sono stati contenti di avermi lì.
La prima parte di sterrato dura pochi km e sono di nuovo su strada.
Approfitto per fare il pieno in un distributore gestito da svogliati discendenti dei mongoli.
Non ci avevo pensato ma ancora sono in Calmucchia.
Più avanti bevo un the mentre la signora del locale pensa ai fatti suoi guardando una telenovela.
Stranamente il navigatore riconosce il primo tratto dello sterrato fatto finora e del secondo tratto che inizia subito dopo queste soste.
E’ chiaramente una strada utilizzata dai locali per i loro spostamenti, visto che incontro un paio di auto in direzione contraria.
Il fondo all’inizio è compatto ma pian piano comincia a farsi sempre più sabbioso mentre la pista si perde nel nulla.
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E’ un paesaggio che somiglia un po alle nostre dune laziali o sarde, con vegetazione bassa e l’odore salmastro del mar Caspio che pervade l’aria.
Mi rendo conto che ho costeggiato quest’enorme distesa d’acqua senza mai vederla.
Adesso ne percepisco la prossimità, confermata dal navigatore ma non vedo sentieri che mi portino verso la riva.
Ad un certo punto ci sono solo io e la pista inizia ad attraversare piccole dune sabbiose.
Ho paura di cadere o perdere il controllo ma mi sono seccato di questi timori.
Finalmente dopo 10mila km me ne fotto della paura e della gamba inferma e comincio a prendere la strada con la dovuta aggressività, sollevando nuvole di polvere e riempiendomi gli anfibi di sabbia.
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Le gomme se la portano bene anche se consumate e io tra una derapata e un impennatuccia mi sento libero e padrone del mezzo che mi scarrozza.
Apro con goduria il gas mentre sento il posteriore perdere trazione e derapare nellla sabbia, conquistare una salita col gas spalancato e rimodularlo quando inizia la discesa.
Decisamente sono un cazzone che se la spassa tra le dune.
Ho ormai superato i 60 km pronosticatimi dal Giardiniere e all’orizzonte non si vede nessun segno di civiltà tranne qualche sperduta fattoria.
Decido di fermarmi a mangiare una scatoletta in uno slargo tra le canne.
Ma non è cosa: il tempo di togliermi casco e giubbotto e aprire la scatoletta di manzo (o presunto tale)
che sbucano dalla vegetazione tre cani bianchi enormi e pelosi, tipo maremmano.
Abbaiano e ringhiano forte contro lo strano individuo che si è introdotto nel loro territorio.
Io urlo forte e agito le braccia.
Coi randagi bisogna fare così, se non lo sapeste: urlare e agitare le braccia, meglio se con un bastone.
Bisogna fargli vedere che siete più grossi e pericolosi di loro per farli stare a distanza.
Riesco a tenerli lontani ma ogniqualvolta smetto di urlare il capobranco ricomincia ad abbaiare e si avvicina col pelo ritto sulla schiena.
Vabbò, non è il caso di stare qui.
Gli lancio la scatoletta aperta per distrarli,il tempo necessario a rivestirmi, mettere in moto e andare via inseguito dal più piccolo dei tre.
In totale ho percorso 100 km prima di arrivare sull’asfalto in territorio dagestano.
Soddisfatto e divertito per la mattinata di off ma affamato all’inverosimile.
Altri cani mi abbaiano forte quando mi fermo di fronte una Chaikhana per mangiare.
Sono decisamente in Dagestan:
ci sono due pulmini di donne col velo e uomini barbuti che stanno prendendo bibite e acqua mentre chiedo alla ragazza se è possibile mangiare ricevendo risposta negativa.
Noto che sugli scaffali e in frigo sono completamente assenti gli alcolici.
Complessivamente mi guardano tutti straniti e le donne evitano il mio sguardo mandando a vuoto ogni mio tentativo di salutarle.
Riprovo più avanti e mi va bene.
Riesco a prendere un piatto di carne e patate che mangerò nella veranda su strada di questo posto, scambiando due chiacchiere con un paio di camionisti.
La tipa che serve mi sorride incredula quando riporto dentro il piatto vuoto per ordinare il caffè.
Continuo verso sud, la strada è buona e il panorama è piatto.
In una cittadina di nome Kochubey assaggio l’asfalto Dagestano:
un taxi che mi sta davanti e che sto per superare inchioda e gira a destra per raccattare due signore che fanno segno.
E’ un attimo che sento l’anteriore andarsene per i fatti suoi e io di nuovo a terra, però stavolta sul fianco sinistro.
Io e Sofia ormai siamo ballerini provetti e ci piace proprio ‘sta cosa che ci guardiamo negli occhi durante le scivolate.
Taxi Driver si accorge dell’accaduto e corre ad aiutarmi insieme a due uomini che ciondolano davanti a un officina nello spiazzo.
Io sto incazzatissimo oltre modo, anche perché dietro c’è un pullman che si avvicina piano aspettando che sposti la moto dalla strada.
Taxi Driver mi chiede se è tutto ok , alzando e abbassando le braccia per sollecitarmi a controllare che possa muovere le articolazioni.
Io vomito raffiche di imprecazioni e maledizioni (in calabrese)a lui e alla sua guida,
e quando prova a mettermi una mano sulla spalla lo respingo con un gesto violento.
Mi manda a cacare e torna al suo lavoro.
Mi risponde qualcosa del tipo “ma che ti lamenti a fare? Ringrazia Dio che sei vivo e stai bene!”
Ho un fremito omicida a sentire questa frase ma mi concentro sulla moto.
Tolto il giubbotto comincio a sistemare paramani e porta navigatore, oltre a controllare la forcella che con questa seconda botta si è inequivocabilmente storta. O meglio: gli steli sembrano a posto, pare essere più il manubrio fuori asse.
Mi faccio fare un caffè dalla signora di un ristorantino lì di fronte, la quale mi dice di restituire il bicchiere al negozio accanto ché lei sta chiudendo.
Bevo il mio caffè, rilassandomi e chiacchierando con i due di prima e pensando che dopo tutto ha ragione Taxi Driver:
E’ inutile arrabbiarsi. Sono vivo, mi muovo, la moto è a posto. Dov’è il problema?
E mentre penso questo ritorna proprio lui di gran carriera, alzando un bel polverone mentre frena nello spiazzo scrostato dal sole.
Scende dall’auto e mi viene incontro col suo sorriso total gold e l’espressione che sembra dire “Ti sei calmato, ora?”
Io gli sorrido di traverso mentre gli dico che è un pericolo pubblico.
Intraprendiamo un breve dibattito sulla distanza di sicurezza, gli indicatori di direzione e gli specchietti che non sono un optional.
Mi dice che sono stato fortunato che il pullman non stava subito dietro di me.
Secondo me è stato lui fortunato sempre per lo stesso motivo.
Ride quando gli dico che non sono “remont”, che è la parola russa che indica guasto, rotto.
Com’è come non è, finiamo a pacche sulle spalle ed abbracci.
Fosse successo a Roma starei ancora lì ad avvelenarmi.
Starei a fare l’ipocondriaco sulla moto a contare ogni minimo graffio insultando e ricevendo insulti.
Ma la dimensione è un’altra. Sto in viaggio e davvero se mi alzo, cammino e la moto parte il resto è grasso che cola.
Mi invita a mangiare a casa sua ma sono costretto a declinare per il poco tempo a disposizione.
E mi dispiace davvero tanto.
Chiedo lumi sulla strada da fare e se secondo loro riesco ad arrivare per la sera a Vladikavkaz.
Mi dice che dovrei farcela, però non c’è bisogno di arrivare a Makhachkhala:
a Kizlyar troverò una stazione di polizia molto grossa con davanti una rotatoria e un gran posto di blocco.
Da lì, girando a destra inizia la Cecenia e seguendo quella strada troverò prima Groznyi e poi Vladikavkaz.
“Ok, ma quanti km sono facendo questa strada?”
“Per la sera ce la puoi fare, sono circa 300 km!”
“Ok 300 km. E quanti tassisti ci sono tra qui e Vladikavkaz? Guidano tutti come te?”
Scoppia in una fragorosa risata e di nuovo insiste perché mi fermi con lui. Me ne vado sentendo di perdermi qualcosa di bello.
A Kizlyar ci arrivo nel giro di un’ oretta o poco più ed effettivamente individuo subito la stazione di polizia.
E mi sparo il mio primo checkpoint ceceno.
Niente di particolarmente fastidioso: passaporto e dove c***o stai andando.
I successivi saranno ancora più leggeri.
C’è un checkpoint all’ingresso di ogni centro abitato di una certa dimensione.
Vengo infatti fermato a pochi km dal primo e le guardie (stavolta polizia e non militari)
non sono affatto interessati ai miei documenti ma a farsi fare foto sulla mia moto.
Addirittura tratto male uno dei due che nel tentativo di salire me la fa cadere di lato.
E sarebbe questa la temuta polizia russa di stanza in Cecenia? Mah!
Lungo la strada scorgo un laghetto e ne approfitto per una sosta a un chiosco di bibite.
Ormai dall’Uzbekistan vado ad aranciata che ho scoperto essere un ottimo integratore, se non altro per la tonnellata di zucchero che contiene.
Il villaggio credo si chiami Shelkovskaia.
Le donne del chiosco, madre e figlia con bambina, sono socievoli e simpatiche.
La figlia mi chiede scherzando di portarla con me in Italia.
Le rispondo che non è il posto bello che si immagina.
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Si avvicinano a chiacchierare un po di uomini, pericolosissimi terroristi islamici dei quali il più anziano, dai lineamenti perfettamente cucasici e un paio di fieri baffi, mi invita a stare a casa sua per la notte, ché il sole sta calando e non è sicuro guidare col buio.
Mi fa una tremenda simpatia quando, parlando non ricordo di cosa, dico che lì comunque hanno problemi più grossi a cui pensare.
Mi risponde che lì non ci sono problemi, che va tutto benissimo. La conferma che il Mediterraneo è uno e va ben oltre le sue coste. Riparto anche da qui con una fitta al cuore e di nuovo la sensazione di perdermi qualcosa di bello.
Ormai è tardi e decido che mi fermerò a dormire a Groznyi, cosa che volevo evitare perché come in tutte le città importanti i prezzi degli alberghi sono alti.
E in Cecenia non è il caso di allontanarsi dalla strada per fare free camping dato che molti terreni sono ancora minati.
Gli inviti ricevuti oggi erano preziosi sia per la logistica del viaggio, sia per l’esperienza antropologica.
Mi monta addosso una rabbia sorda mentre percorro la statale che lentamente mi porta a Groznyi, rabbia per il tempo che non ho, per la mia vita di sempre che mi richiama all’ordine.
E tutto questo si mescola alle informazioni che ho sulla guerra che qui c’è stata, a questa terra usata come una scacchiera dai potenti della terra a discapito di gente semplice che non aspetta più di tre minuti per invitarti a casa per un the o per la notte.
Provo rabbia a vedere con i miei occhi la pressione del governo centrale su questa gente, occupata militarmente dal suo stesso esercito.
Con questi pensieri arrivo al tramonto a Groznyi, trovando sulla mia strada un convoglio di mezzi militari tra cui un blindato.
E un check point all’ingresso della città dove i militari, giovanissimi, guarderanno rapidamente il mio passaporto attestandomi la loro stima.
Mi daranno anche indicazioni per un alberghetto economico che io,da bravo stupido, non seguirò.
Per evitare la storia di Rostov punto, dopo due o tre hotel non proprio economici, verso quello che tutti mi indicano.
La Gnura (sulla 60ina, testa velata, poco russo parlato con uno dei numerosi accenti del Caucaso)
è irremovibile sul prezzo e si ostina a rifiutarsi di fare la registrazione.
Io mi incaponisco a pretenderla, perdendo tempo perché tanto ho quella del giorno prima.
Ma ormai è questione di principio.
Viene in mio aiuto un uomo del posto che nella loro lingua scoppiettante le spiega che a me serve una ricevuta con il timbro dell’hotel.
Rimaniamo d’accordo che l’indomani il direttore mi firmerà sta benedetta ricevuta.
La Gnura continua a guardarmi di traverso ogni volta le passo davanti.
Mi viene fatta mettere la moto in un cortile chiuso sul retro e salgo con i bagagli dalla scala di sicurezza.
Il guardiano del cortile, che mi ha indicato la strada per parcheggiare la moto, mi invita nel suo ufficio a bere qualcosa.
Entriamo in un cancelletto che da su un viottolo che altro non è se non lo spazio tra l’hotel e la baracca in cui passa le notti (e spero solo quelle):
una stanza sui 3/4 mq con una branda in fondo e una parete di monitor in bianco e nero.
Su un tavolino fatto con due assi di legno, una bottiglia di cognac a metà e un bel pezzo di formaggio locale dall’aspetto casereccio.
Solo ora mi accorgo di quanto è ubriaco.
Probabilmente è abituato a dissimulare, perché mi raccomanda di non dire niente a nessuno, ché non vogliono lui beva.
Bevo un paio di bicchieri con lui e mangio un po del suo formaggio, dandogli in cambio qualche sigaretta per la notte.
Ma il buco nello stomaco, il male alla gamba e soprattutto la tristezza della vita di quest’uomo mi fanno scappare con la scusa di aver bisogno di cibo e di riposo.
Mi rendo conto che sono emotivamente sfinito e la mia voglia di entrare in contatto con gli altri è inibita dal pensiero del ritorno,
da compiere in tempi brevissimi.
Compro due cose da mangiare nel Magazin rigorosamente sprovvisto di alcoolici che consumerò in camera mentre uno dei vicini di stanza sta con la tv a palla. Sarà così fino alle 3.00 e io non riuscirò a dormire prima di quell’ora.
Sono innervosito dall’apprensione di mia sorella che mi chiede se non sia pericoloso stare in Cecenia, dal dover ritornare a Studio, dalla dolce metà che mi chiede allora quando torno ché lei si sta imbarcando per l’Italia.
Il fatto di sapere che tutto questo sta finendo, che i leoni stanno per tornare in gabbia a tempo indeterminato mi mette addosso una tristezza profonda e, soprattutto, ansia.
La notte passa male ma il risveglio è ancora peggio.
Appena provo ad uscire in cerca di un caffè mi becca la Gnura col suo miglior cipiglio e mi intima di andare nell’ufficio dove mi aspetta il Direttore.
Me lo aspetto con chissà quale fisique du role, immaginandolo come un cazzuto ceceno con la faccia da reduce.
Ci rimango quasi male a vedere un ometto minuto, sul metro e sessanta, con la pelata lucida da francescano e due baffetti neri, poco più scuri della sua carnagione.
Per com’è vestito potrebbe essere lo zio di Ahmadinejad, tanto è dimesso il suo stile.
Il fisico è quello che è ma l’asso nella manica è la voce: urla come se fossi completamente sordo e ogni vocale è una martellata in fronte.
Ho un mal di testa epocale che non mi fa girare gli occhi e tutto vorrei meno che interagire con un Ceceno urlante.
Alza la voce così tanto che credo sia lui quello sordo, ma quando comunica con la Gnura lo fa a volume normale.
Forse pensa di aiutarmi a capire, credendo di scandire meglio le parole.
Mentre mi urla la sua ospitalità e disponibilità mi fa venire in mente la buonanima di mia nonna che urlava come una forsennata quando parlava al telefono con i parenti al nord: bisogna urlare perché sono lontani e non sentono bene.
Riesco ad ottenere questa ricevuta con timbro e firma del Direttore, che non è una registrazione ma almeno mi tranquillizza sul fatto che non mi scasseranno le palle in frontiera.
Inutile dire che alle guardie non fotterà niente di dove ho dormito.
Al piano terra, vicino al magazin, c’è un posto piccolissimo con un paio di tavoli e la cucina a vista, con accesso anche dal cortile dov’è la moto.
Faccio una specie di colazione mentre madre e figlie, proprietarie del posto, preparano per i clienti che arriveranno.
Noto che una delle figlie in particolare fa battute sarcastiche guardando verso di me, facendo ridere le altre.
Vorrei sorridere per ammorbidirle un po’ ma ci vogliono due tazze di caffè e due buste di aspirina prima di rientrare in questo mondo.
Ripasserò da lì dopo aver caricato la moto insieme a un tizio di un officina nel cortile, che assolutamente vuole che beviamo un the insieme.
Riparto dopo aver salutato la Gnura che con occhi materni mi da il suo in bocca al lupo e dopo aver raddrizzato un po’ il manubrio contro un muro sotto gli occhi ammirati e sognanti dei lavoranti del cortile.
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Ci metto un po a trovare la strada e mi perdo nella periferia e tra i villaggi intorno a Groznyi.
Se il centro è stato ricostruito e solo in alcuni punti è possibile trovare le traccie di un conflitto recente, qui è ancora forte la presenza di ruderi .
Sul panorama bucolico campeggia la sagoma bianca di un edificio a torre sinistramente crivellato dall’artiglieria.
Le strade hanno l’asfalto distrutto e molte costruzioni sono in fase di restauro.
In un villaggio chiedo indicazioni per la strada.
Faccio difficoltà a capire l’accento, ma il tipo mi ripete tante volte le cose, anche gesticolando,
che non posso fare a meno di intendere che devo passare su un ponte vicino a un’antenna per la telefonia che trovo a circa 5 km da lì.
E’ gente semplice ma mi sorridono e non mi guardano con diffidenza, anzi tutt’ altro.
Attraverso le campagne incorniciate dai monti del Caucaso.
La direzione è Vladikavkaz, repubblica russa dell’Ossezia del Nord, ultima grossa città prima della frontiera che porta a Kazbegi, in territorio georgiano, chiusa fino all’anno scorso ai cittadini non C.S.I. e quest’anno riaperta.
Bisogna attraversare tutta la Cecenia prima, e con essa tutti i check point gestiti per lo più dall’esercito.
Poi, dopo un breve tratto attraverso l’Ingushezia, si entra in Ossezia del Nord.
Mi aspettavo un territorio sotto pressione militare e ho trovato quello che credevo.
Quello che non immaginavo era il tipo di rapporto tra militari russi e civili ceceni.
Credevo di trovare una situazione del tipo oppressore-oppresso con lunghe file ai checkpoint e militari severissimi pronti a smontare ogni veicolo in cerca di armi o “terroristi”.
Invece niente di tutto questo.
In quasi tutti i posti di controllo hanno dato un’ occhiata veloce al mio passaporto e i militari hanno fatto a turno le foto con Sofia e/o con me.
Tornato a Roma una mia amica, fotoreporter che ha lavorato in diverse zone dei balcani e in nord africa, mi dirà che è strano non mi abbiano messo qualcuno a seguirmi. Se l’hanno fatto, davvero non me ne sono accorto.
A un certo punto sbaglio strada in direzione di non so quale città.
I militari al Checkpoint iniziano a chiedermi del viaggio e delle mie attrezzature.
Iniziamo a cazzeggiare insieme io, tre soldati e il loro superiore.
Hanno tutti facce tranquille e occhi buoni.
Saranno ormai lì da tempo a presidiare l’accesso a una città di povera gente che tira a campare.
Salutano le donne col capo coperto nelle macchine o sui trattori.
Qualcuno ogni tanto si ferma e lascia qualcosa: una pagnotta, un cocomero, una forma di cacio.
Ma non hanno l’aria di essere dazi imposti da una legge non scritta, anche perché non tutti lasciano qualcosa.
I militari prendono e ringraziano, augurando buona giornata ai civili.
I civili sorridono e benedicono i soldati.
Alla fine sono esseri umani messi lì chi dal caso chi da un governo,
e la vecchietta col capo coperto non può che vedere in loro dei giovanotti staccati a forza dalla loro casa, magari ricordando il figlio spedito in Afghanistan e mai più ritornato.
A furia di vedersi ogni giorno hanno imparato a conoscersi e rispettarsi.
I militari mi dicono che non è la strada giusta, che devo arrivare a Beslan, girare a sinistra dopo il Checkpoint e andare dritto.
Uno di loro si offre di indicarmi la strada visto che sta andando proprio lì.
Saluto tutti e lo seguo fino al Checkpoint dove mi metto in fila mentre lui mi saluta con la mano guardandomi nello specchietto.
Ecco: quello di Beslan è l’unico posto serio dove hanno controllato per davvero i miei documenti, tutti.
Anche quelli della moto.
Mi hanno anche fatto aprire le valigie laterali. E non è difficile immaginare il perché.
Finito il controllo tiro dritto verso Vladikavkaz.
La tentazione di fermarmi a fare visita alla scuola della strage è forte, ma non voglio mancare di rispetto a gente che ha tanto sofferto e ancora soffre per quella tragedia.
Diverso sarebbe stato avere il tempo di prendere una stanza, fare un giro nei caffè, parlare con le persone e, a piedi e più camuffato possibile, andare a meditare sulla stupidità umana davanti alla Scuola Numero Uno.
Ora avrei solo il tempo di entrare rombando in città, chiedere informazioni al volo e fare il turista scattando due foto frettolose a ciò che rimane della pagina più nera della storia di questa comunità.
No, non è il caso.
Me la posso risparmiare.
Costeggiando la città intravedo delle nuove costruzioni in stile contemporaneo, forse le due scuole fatte costruire dal governo russo come contentino per quanto causato alla fine di quei giorni terribili.
Non posso non pensare a quanto sarebbe più facile un mondo senza governi e senza confessioni religiose,
senza nessuno che abbia come scopo della propria esistenza quello di dividere le persone.
Preti, Popi, Mullah,Rabbini… chiamateli come volete e vestiteli come vi pare.
Il loro lavoro è sempre quello: professare l’unicità e verità del loro Dio e nel nome suo creare fazioni e divisioni.
La loro missione è sostanzialmente quella di eliminare il Dubbio dalle menti dei loro discepoli, qualsiasi dubbio.
E coi vessilli della religione i capi politici mandano gente a uccidere e morire.
Mi tornano in mente Rizo e Slava: un profugo ceceno con cui ho diviso un appartamento ad Astrakhan e un ex-soldato Russo con cui ho passato una splendida serata a Buchara.
E non ho dubbi che se fossimo stati insieme tutti e tre sarebbero stati lo stesso bei momenti, viste le persone che siamo.
Perché l’essere umano, per quanto s*****o e predatore ( o forse proprio per questo), riconosce i suoi simili e li accoglie fin quando non arriva un’autorità a dirgli che l’altro è diverso.
Che l’altro è il Nemico.
Il merito di una dittatura come quella di Tito in Yugoslavia è stato quello di tenere insieme etnie e religioni diverse, anche se tra luci ed ombre.
Con la forza ma insieme.
Morto Tito, finita la Yugoslavia.
E vai col massacro.
Divide et impera: lo sapevano i Romani, lo sa chiunque voglia instaurare un qualsiasi tipo di potere sugli altri.
Questo era un viaggio per Samarcanda, ma lo spettro del conflitto ceceno mi ha fatto visita più volte.
Ora la logistica e gli eventi mi hanno portato a farci i conti di persona, per quanto possa io averci a che fare non avendo mai vissuto una guerra.
Più che altro faccio i conti con la mia coscienza da occidentale cresciuto col culo al caldo nell’illusione della democrazia.
Qui vedo la conferma e la negazione di tutto quello che man mano negli anni ho iniziato a pensare sul genere umano e chi lo governa.
In questo momento attraverso quello che mi appare come un teatrino abitato da marionette. Ma del resto tutto il mondo lo è.
Il conflitto Ceceno è stato qualcosa di politicamente sporco, molto più di altre guerre, con nazionalismi pompati ad arte,
così come propagandate ad arte sono state le differenze di abitudini, usi e costumi allo scopo di far nascere un vero e proprio conflitto di civiltà.
Vorrei capire ma non posso: sono nato e cresciuto in una terra che vive di contraddizioni e ancora non ho capito quella.
Figuriamoci se posso capirci qui qualcosa.
Posso solo farmi domande.
E non posso dirvi quali sono le domande che dovete farvi voi.
Ognuno ha i suoi dubbi e spero vivamente voi abbiate i vostri.
Vi risparmio la lezione di Storia contemporanea.
Date un occhiata qui per capire di cosa stiamo parlando.
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Ora basta che sto diventando pesante.
Tornando a noi: In poco tempo sono a Vladikavkaz e da li si inizia a salire verso le montagne, seguendo la A-301 che si infila dentro una gola segnata da un fiume.
Finalmente inizia a fare fresco e prima della frontiera mi fermo per le sigarette e, finalmente, un caffè georgiano, bello cremoso, nero e saturo di caffeina.
Una vera goduria per gli assuefatti alla caffeina.
Il tempo, anche se un po’ nuvoloso, è buono e, se si mantiene così anche dall’altra parte, posso arrivare a Tbilisi in serata.
So già dove andare: voglio tornare alla Dodo’s Guest House dove l’anno scorso ridendo e scherzando ho trascorso 5 giorni bellissimi.
La strada sale sempre di più in questo paesaggio, bello ma non quanto quello del versante meridionale.
Pregusto la Strada Militare Georgiana mentre arrivo alla frontiera.
Il cancello è chiuso con pochi veicoli in attesa.
Ci sono un paio di backpackers che cercano un passaggio per varcare la frontiera.
Pare infatti che in questo punto non sia possibile passare a piedi ma solo a bordo di un qualche veicolo.
Le formalità sono un po’ più lunghe del previsto.
Un militare bello grosso mi prende da parte e mi dice per filo e per segno cosa fare e scrivere sul modulo per farmi fare prima.
Mentre aspetto il mio turno ai vari sportelli diverse persone vengono a parlare con me per manifestarmi la loro ammirazione.
Comincio a non poterne più di queste conversazioni e di dogane così lunghe.
Anche qui mi fanno aprire le valigie.
Finalmente posso uscire, contento di addentrarmi nella terra di nessuno, lunga un bel po’ di km, prima del controllo georgiano.
La strada continua a costeggiare il fiume e tutto il paesaggio incute timore per la sua magnificente bellezza.
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Le mie speranze sul meteo cadono man mano che mi avvicino a Kazbegi dove mi fermerò per un altro caffè e per cambiare un po di rubli in lari.
Le nuvole si addensano sempre di più e a quota sempre più bassa nascondendo le cime dei monti.
Speravo di godermi lo stesso paesaggio dell’anno prima, con le cime alte scintillanti di un verde che finora ho visto solo qui.
Ma niente. Non si vede una mazza e man mano che salgo di quota le nuvole diventano nebbia che mi avvolge e l’umidità inzuppa qualsiasi cosa.
Per di più le mie gomme sono ormai finite e nei tornanti mi accorgo che il posteriore letteralmente va a zig zag,
tanto che credo di aver piegato qualche raggio.
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Guidare con le gomme lisce sulla terra bagnata con un ginocchio dolorante non è proprio una cosa leggera.
Per di più in corrispondenza di alcuni tunnel ci sono delle grate di scolo particolarmente lasche che non mi sento di passare se non in diagonale.
Ci si mettono anche i cani che mi corrono dietro e mi costringono ad accelerare quando non vorrei.
Nonostante queste rotture di c***o non posso negare che me la godo davvero.
Pensavo l’avventura fosse ormai finita e trovare questa situazione su una strada così mi fa sentire ancora in pieno viaggio.
Intendiamoci: la strada militare georgiana non è niente di infattibile.
L’anno prima la feci con Rosita, la mia gloriosa CBF 600 n, arrivando in sella fino al monastero di Tsminda Sameba, dove tutti arrivano con le UAZ o con le moto da enduro.
E’ stata una gran soddisfazione raggiungere su una naked un posto che mi ha fatto venire il dubbio che possa esistere una mano dietro a tutto ciò che vediamo.
Quello che stavolta me la rende difficile sono le condizioni di cui sopra.
E’ una strada famosa sia per la sua bellezza paesaggistica
(La vista è interamente dominata dall’altissimo monte Kazbek, su cui pare sia stato inchiodato Prometeo come punizione oper aver rubato il fuoco agli Dèi)
sia perché era una via d’accesso rapida per l’esercito russo per arrivare nel cuore del Cucaso.
Lungo buona parte del suo percorso è costeggiata da tunnel per il passaggio dei convogli e quest’anno vedo con piacere che su alcuni ci sono lavori di restauro in corso.
Potrei anche attraversarli per stare un po’ più riparato, ma francamente non so cosa potrei trovarci dentro, per cui continuo sulla strada bagnata nella nebbia, suonando ad ogni curva o tornante per segnalare la mia presenza alle auto in direzione contraria, che mia appaiono come fantasmi col lumicino nella foschia. Quando finalmente intravedo in lontananza, costruito a picco su uno sprofondo, il monumento alla pace tra Georgia e Russia capisco che lo sterrato è finito e iniziano i tornanti in asfalto.
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Purtroppo continua a piovere e il sole ormai sta definitivamente salutando questa parte di mondo.
Abbandono l’idea di arrivare a Tbilisi per oggi e mi fermo in un motel sulla strada poco prima di un paesello chiamato Nadibani.
Hanno una sola stanza libera che per me costa un po’ troppo.
La pioggia e il buio mi convincono a restare ma quando comunico la mia decisione la stanza è già stata assegnata.
Per una cifra decisamente inferiore Inna, la più simpatica delle donne che lì lavorano, mi propone la legnaia allestita con un tavolo da pranzo e una panca su cui potrei dormire. Aggiudicato al volo.
Mi portano lenzuola e trapunta più qualcosa di morbido per rendere più comodo il tavolaccio.
Per il bagno posso usare quello dentro il piccolo albergo.
Ritrovo l’ospitalità georgiana che ormai è una delle poche cose certe al mondo.
L’accoglienza che queste persone mi riservano va ben oltre quella prevista dal loro lavoro di albergatori.
Come ho gia detto la più simapatica e accogliente di tutti è Inna, sui quarantacinque, alta un metro e una noce e con il sogno di venire a vivere in Italia.
Ha sempre la battuta pronta e una gran bella risata.
L’albergo è piccolino, con quattro o cinque stanze, ma la sala ristorante è abbastanza spaziosa, con un banco bar molto fornito in fondo e otto o dieci tavoli da 8 persone.
Per cena ci siamo io e una una famiglia di Azeri emigrati in Russia di ritorno a Mosca dopo le vacanze estive.
Passo la serata a chiacchierare con loro e il capofamiglia, un omone baffuto e scuro di carnagione, mi offre un piatto di squisiti Khinkhali,
una sorta di tortelloni succosi ripieni di carne da azzannare col risucchio, l’unico piatto in Georgia per cui il galateo consenta di fare rumore quando si mangia. Vado a dormire abbastanza presto tramortito dalla stanchezza e da un paio di bicchieri di ottima vodka locale, che bevo in compagnia di un minuscolo topolino di campagna che si aggira furtivo tra i tavoli.
La situazione, la botta di culo e la contentezza di essere tornato in Georgia mi fanno sembrare il tavolaccio molto più comodo quanto non sia.
Mi sparo una gran dormita mentre fuori la butta a catinelle.
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Al mattino ha smesso di piovere e finalmente le colline risplendono del loro verde.
Mentre bevo un caffè fuori mi accorgo che l’albergo è stato costruito proprio sulla scarpata che da sul fiume.
Inna si avvicina e quando le dico che adoro le loro colline così ripide e verdi, lei ridendo mi indica quelle che chiama “le mucche alpiniste” per il fatto che riescono a pascolare con quelle pendenze come se niente fosse.
Un po di cazzeggio con il resto della truppa, qualche foto e poi volo verso Tbilisi.
Passando davanti al castello di Ananuri faccio una sosta per un caffè, visto che ha ricominciato a piovere.
Scambio due chiacchiere con dei turisti israeliani, che in questa nazione sono davvero tanti.
Forse perché la Georgia, insieme all’Armenia, è la nazione cristiana (e quindi non ostile ) più vicina alla terra che occupano.
Imposto il navigatore su Marjanishvili in Tbilisi, la strada dove si trova la Dodo’s Guesthouse.
Riattraverso paesaggi già visti l’anno prima che mi ispirano un senso di familiarità molto forte.
Immagino la scena dell’incontro con Dodo, una minuta signora sulla settantina attivissima e con pochissimi capelli bianchi in testa nonostante l’età.
Spero sia ancora viva e in salute e immagino mi saluterà con un abbraccio e gli occhi lucidi.
L’anno prima non c’era stato giorno che non fosse stato memorabile per una qualche situazione o sketch.
Ogni volta che partivo per una qualche escursione cercava di convincermi a portare qualche ospite dell’ostello con me, ovviamente donna.
Quando andai al monastero Davit Gareji, al confine con l’Azerbaijan, insistette perché portassi con me Ilaria, una ragazza di Bologna appena arrivata. Entrambi le dicevamo che non avevo il secondo casco per lei.
Disse “wait a moment! I haveit!” e dopo un po’ ritornò con un casco giallo da cantiere.
Alla fine ci scrisse un foglio in georgiano da mostrare alla Polizia in caso ci avessero fermato,
in cui si diceva che stavamo tornando da qualche parte a prendere il casco perché ci eravamo incontrati per caso o cazzate simili.
Quando andai via da Tbilisi mi ritrovai a piangere nel casco pensando a tutti i momenti belli passati in quel posto.
Tornato a casa mandai via email le foto fatte insieme e le nipoti mi risposero che, se avessi deciso di tornarci, per me e i miei amici ci sarebbe stato posto anche gratis per qualche giorno.
Ecco perché arrivando in Marjanishvili immagino queste scene da Libro Cuore mentre fermo la moto in equilibrio precario sulla strada invasa da poco pazienti automobilisti georgiani, secondi a nessuno nel mondo per indisciplina.
La tensione e l’emozione del momento vengono interrotti dalla telefonata della dolce metà che nel frattempo è rientrata a Milano e mi chiede quando e come torno, ricevendo una risposta un po’ scocciata.
Credo che se ai tempi di Omero fosse esistita la telefonia mobile Ulisse col c***o che stava in giro tutto quel tempo.
Penelope avrebbe scassato così tanto le palle che l’eroe di Itaca avrebbe preferito tornare a nuoto pur di non sentirsi chiedere i tempi del rientro:
“ A Ulì… ma ‘ndov’è che stai? qui ce stanno sti Proci che me vojono. E quarcuno è pure caruccio. Che dovemo da fa’? e dimme ‘n po’ chi è sta Calypso?” Attraverso il cancello ed entro nel cortile col tavolo da giardino in plastica.
Tutto è come l’anno prima ma non ci sta nessuno.
Ormai è settembre e di turisti non ce n’è è più.
Chiedo alla sorella di Dodo, mi dice che è fuori per commissioni e sta per tornare.
Intanto mi siedo e inizio a togliere un po’ di bagagli dalla moto.
Rimango molto deluso quando Dodo finalmente arriva.
La saluto con un gran sorriso, ricevendo in cambio uno sguardo perplesso.
No, non si ricorda di me, ci passa così tanta gente che è impossibile ricordarsi di tutti.
Accetto la realtà della cosa, evitando di menzionare le foto, le email, l’episodio del casco.
Va bene così.
Mi dice che posso mettermi praticamente dove voglio, visto che ci sono poche persone tra cui una coppia di Israeliani in partenza.
Ho una stanza tutta per me dove porto le mie cose prima di iniziare a fare un po’ di manutenzione.
Da qui in poi sarà tutto asfalto per cui posso rimontare il parabrezza e cambiare il filtro dell’aria, montando quello in cotone che mi ero portato come scorta. Mentre sto lì, un po’ deluso dalla scena alla De Amicis che non c’è stata,armeggiando con la moto incontro la coppia di cui mi parlava Dodo.
Solo che non sono Israeliani ma Italiani. Sono Lorenzo e Ilaria, al loro ultimo giorno in Georgia.
Lorenzo mi aiuta a tirare la moto sul cavalletto e passiamo un po’ di tempo a chiacchierare dei nostri viaggi.
Mi consolano sulla smemoratezza di Dodo dicendomi che c’ha pure n’età.
Con mia grande gioia mi lasciano anche mezzo pacco di tabacco con tanto di cartine.
Anche se non è quello che fumo io è per me una cosa grande, visto che da dieci giorni non fumo che sigarette russe di dubbio gusto.
Loro stanno uscendo e ci salutiamo come se non dovessimo vederci mai più.
Dopo qualche minuto Lorenzo torna per lasciarmi la sua email: “casomai ti trovassi a passare da Torino…”
Questo è stato l’unico incontro nell’ostello.
Forse uno non dovrebbe ritornare nei posti in cui è stato troppo bene.
Tante volte sarebbe meglio lasciare le cose nell’aura di perfezione che ammanta tutti i bei ricordi evitando così il rischio di delusioni cocenti.
Anche Tbilisi oggi ha un aspetto triste:
se l’anno prima passeggiavo in compagnia sotto il sole tra mercatini delle pulci e localini, quest’anno la pioggia rende impossibile tutto questo.
Anche le terme pubbliche, che raggiungo in taxi, sono chiuse per i lavori che hanno sconquassato la piazza antistante.
Ripiego sulle altre, molto più costose.
Prendo una stanza privata in cui ci sono solo io.
Se l’immersione nell’acqua bollente da un lato mi fa bene, rilassando un corpo fiaccato dalle ultime fatiche, dall’altro non giova alla ferita sul ginocchio che da qualche giorno comincia migliorare.
Mentre mi asciugo mi accorgo che dalla crosta ammorbidita, spremendo leggermente, fuoriesce del siero che imbratta i candidi asciugamani in lino che mi hanno fornito.
Esco zoppicante e tristanzuolo per le vie della città vecchia.
Continua a piovere e ormai sta di nuovo facendo sera.
Dopo un caffe in un posto con wifi vado dritto al KGB, un piccolo bar dove l’anno prima avevo passato un paio di belle giornate.
Anna ci lavora ancora e mi riconosce.
Passiamo un po di tempo a chiacchierare, facendoci grandi risate mentre le racconto dell’ insabbiatura nel deserto e delle mosche che mi tenevano compagnia, fino a quando non mi siedo fuori per cenare.
Mentre sto mangiando un ottimo piatto di carne e verdure pieno zeppo di coriandolo sento gente al tavolo dietro di me parlare della frontiera di Kazbegi.
Un po’ perché non ho nessuno con cui parlare, un po’ perché vorrei essere utile mi giro a dirgli che confermo l’apertura del posto di frontiera.
Uno dei tipi mi dice in romanesco: “ma io a tte te conosco!”
E’ Paolo, uno di Roma che conosco tramite amici e che si trova lì in bici con dei tedeschi dopo aver attraversato la Romania in solitaria.
Passo con loro il resto della serata e torno in taxi all’ostello, assistendo a scene di liti tra tassisti per precedenze e tagli di strada.
Addirittura un sacerdote manda affanculo il mio tassista, che non vedo l’ora mi scarichi a destinazione.
Vado a dormire con la sensazione netta di essere ormai a casa, nonostante mi restino ancora 3000 km da fare.
Avevo pensato di stare un altro giorno intero a Tbilisi per riprendere fiato, ma ci ho trovato una situazione abbastanza triste e non voglio far sprofondare ulteriormente il mio morale.
Decido di andarmene la mattina successiva, e lo faccio dopo aver preso un caffè con Dodo prima che uscisse ma senza aspettare il suo ritorno, pagando quanto dovuto alla sorella.
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Mi fermo a mangiare a Gori, nello stesso posto dove mangiai l’anno prima, ma la gestione è cambiata e c’è gente poco gentile.
Avrei altri posti dove fermarmi qui in Georgia.
Potrei passare da Zugdidi, alle porte dell’Abkhazia sulla strada per Mestia, dove l’anno prima conobbi una famiglia.
Più volte Goga mi ha invitato a passare da loro casomai fossi tornato da quelle parti, invitandomi persino al suo matrimonio.
Lascio perdere, un po’ per il tempo che stringe, un po per la paura di un’altra delusione.
Potrei passare da Batumi a trovare Amy, tour operator conosciuta in Kurdistan dove organizza con la gente locale escursioni sull’Ararat.
Ma l’unico contatto che ho è su Facebook e i tempi non coincidono.
Riceverò un suo sollecito a passare da lei quando ormai sono alle porte di Roma.
Attraverso tutta la Georgia, schivando le folli traiettorie degli automobilisti il cui sport nazionale è il sorpasso in curva alla cieca, meglio se multiplo.
Il morale è sottoterra e ormai l’unico obiettivo è quello di tornare a casa prima possibile, sgattaiolando dalle offerte di ospitalità che ricevo ad ogni sosta.
La vacanza è finita e il viaggio pure.
Quello che resta sono solo 3000 km di strada piatta e veloce già vista, 3000 km di rottura di c***o da far passare più velocemente possibile.
Mi fermo a dormire in un hotel in un paesino poco prima di Batumi , Anche questi dell’ albergo sono personaggi da raccontare.
C’è quello sveglio che tira sul prezzo e il rincoglionito che fa domande stupide e fuori luogo, cazziato dall’altro ogni volta che mi chiede una sigaretta.
Sono pescatori e d’estate gestiscono quest’hotel in riva al mare.
Io sono l’unico ospite, insieme a una coppia di ucraini.
La stagione ormai e finita e tra poco torneranno a una pesca che ormai si fa sempre più difficile e meno redditizia.
Quello sveglio mi fa vedere la villa di uno straricco di fianco al loro albergo:
è interamente rivestita in granito grigio e nella fioca luce della notte sembra niente più che una costosissima tomba con piscina.
Mentre chiacchieriamo delle situazioni economiche dei nostri paesi concordiamo sul fatto di essere sotto scacco delle banche:
io lavoro tu lavori, io guadagno tu guadagni, ma la mia moneta vale più della tua.
Si sente chiaramente l’eccitazione per i capitali esteri che si stanno investendo nella vicina Batumi, che stanno lentamente facendo andare di testa un po tutti. Vent’anni fa cadeva un muro, portandosi dietro un impero e tutti i suoi costumi. Vent’anni non sono tanti, ma bastano a cambiare la mentalità di un popolo. Questa è stata la mia ultima serata russofona, passata in piena serenità e scioltezza, cenando con spiedini di pollo, birra e patatine al chioschetto vicino, chiacchierando coi proprietari e i loro amici di crisi, di banche e di lavoro che non c’è.
Quando mi arriva la birra alzo il bicchiere per brindare ma chiedo immediatamente scusa:
in Georgia si brinda con la birra solo coi nemici e i traditori.
Loro capiscono le mie buone intenzioni e sorridendo mi dicono di non preoccuparmi.
Questa è l’ospitalità georgiana.
Forse non tutto è perduto.
Ultima modifica di toto_le_moto il 27 Mag 2013 1:33, modificato 2 volte in totale