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Europa 2006 - Isola di Man andata e ritorno -

Samarcanda? Sì, E Vi Dico Com'è Andata.
14120703
14120703 Inviato: 10 Feb 2013 18:33
 

Fantastica esperienza 0509_doppio_ok.gif

Viaggio meraviglioso e scritto in maniera eccellente, non riuscivo a staccarmi dal pc!

Potresti scrivere un libro...non sto scherzando!
Uno spunto potrebbe essere questo
Link a pagina di Navigatorediterra.it
 
14128475
14128475 Inviato: 13 Feb 2013 16:38
 

grazie sandro...
ma è gia grasso che cola se riesco a finirlo su queste piattaforme icon_biggrin.gif
 
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14128482 Inviato: 13 Feb 2013 16:38
Oggetto: Capitolo 6
 

Capitolo 6




La sveglia suona presto, ma me ne fotto quanto basta per alzarmi con calma senza fare tardi.
Mi accorgo di non aver messo a caricare l’Actioncam e neanche l’interfono avrà vita lunga.
Faccio colazione quasi in contemporanea alle ragazze austriache che, ascoltando la conversazione tra me e il Tipo della locanda, paiono essersi ricredute sulla mia immagine, in particolare la bionda che era scappata all’arrivo dell’amica.
Cerca di recuperare in qualche modo, ma il mio orgoglio ferito mi fa assumere un atteggiamento del tipo “vafanculu principessì”.
Il tipo mi dice che ha cambiato i soldi e quando me li da mi accorgo che, prima volta nella mia vita, sono un po di più rispetto a quanto dice il convertitore.
E certo! Qui il cambio è al mercato nero, e la guida lo diceva pure.Solo non pensavo fosse praticato in questo modo.
In pratica è quasi inutile andare in una banca a cambiare soldi: ogni attività commerciale, chaikhana, venditore di benzina o di frutta o di quello che vuoi tu ti cambierà i soldi.
Questa cosa è perfettamente tollerata dal governo centrale e permette a chi opera nel turismo di avere un piccolo margine di guadagno sul cambio senza però fottere il turista.
O almeno è quello che ho capito nei giorni a seguire.
Altra cosa che scopro è che non esistono tagli più grandi della banconota da mille, praticamente il costo di un the.
Nei giorni della mia permanenza in Uzbekistan vedrò la gente andare in giro con borse piene di banconote,
buste di plastica piene di banconote,
buste da lettera grandi piene di banconote,
carpette, agende, riviste pieni di banconote.
Le carte di credito esistono ma da quello che ho capito sono un po l’equivalente dei nostri bancomat, per cui lasciate perdere visa e mastercard.
Mentre sono lì col Tipo a contare le banconote, tante banconote, un’auto si ferma davanti alla veranda e scende il Tipo.
Un altro uguale.
E sì, cazzarola sono gemelli.
E ieri li ho incontrati entrambi separatamente, per questo il Tipo mi sembrava strano!
Sebbene non si vedano dalla sera prima, i due gemelli si salutano abbracciandosi.
Saluto anche io il doppio del Tipo porgendogli entrambe le mani e quando gli racconto del mio smarrimento della sera prima ci facciamo una gran risata insieme. L’Austriaca saluta dicendo che magari ci incontriamo a Buchara.
Vai gioia, vai! Buon viaggio!
Il Tipo continua a raccontarmi della vita da quelle parti.
E’ giovane. A ventotto anni è gia sposato da un anno.
Mi racconta della sua festa di matrimonio durata giorni, della strada di fronte casa chiusa al traffico per la folla dell’occasione, delle spese affrontate per un evento importantissimo nella vita della comunità.
A sto giro però nessuno mi fa il terzo grado sul perché io non sia sposato, ma preferisce riempirmi di domande sull’Italia e sul mio viaggio.
E al mio racconto di come sia arrivato fino a Khiva i suoi occhi si perdono verso l’alto come a guardare su un grande schermo e di continuo mordicchia il labbro inferiore scuotendo la testa.
Ci salutiamo con un abbraccio dopo aver ricevuto in dono una bottiglia d’acqua per il viaggio.
La carico insieme al melone fresco di frigo che non ha voluto dividere con me: -“La strada è lunga e ne avrai bisogno!”.

Imposto il navigatore con destinazione Buchara.
Sono un bel po di km, ma il tempo oggi è con me, anche in senso meteorologico.
Khiva si trova in un’ area abbastanza verdeggiante e le temperature sono paragonabili a quelle calabre in Agosto.
Cerco un benzinaio aperto ma a quanto pare anche da loro domenica è giorno di chiusura.
Mi dicono di provare al mercato nero nella strada più avanti .
E infatti appena girato l’angolo un sacco di persone stanno davanti casa loro con dei banchi improvvisati a esporre damigiane da 5 litri di benzina, coi garage domestici aperti alle spalle.
Sempra una sagra dell’olio per quanta gente ronza intorno ai venditori e per il colore del liquido in vendita.



La benzina è senza dubbio a 80 ottani e magari anche sporca, ma almeno non mi possono imbrogliare sulla quantità.
Pago una damigiana da 5 litri, ma me ne avanza un mezzo litro che lascio al venditore.



Gli adulti e i bambini lì intorno mi guardano incuriositi e una ragazzina prova a snocciolare quel poco di inglese che conosce.



Dopo aver attraversato qualche villaggio la strada si inoltra nuovamente in una zona desertica ma benedetta dalla vicinanza al fiume, viste le case e gli orti che circondano la strada. Per il resto il paesaggio è fatto da stazioni di servizio e chaikhane.



Ennesimo controllo su viadotto fluviale e la strada prosegue costeggiando un canale artificiale, grande quanto un fiume, che convoglia l’acqua verso una diga qualche km più avanti.
E’ stranissimo vedere una massa d’acqua così grande correre dritta in mezzo al giallo della sabbia fine del deserto.







Faccio un bagno o non lo faccio? Ma sì dai ! Da quando son partito non mi sono immerso da nessuna parte, e in un viaggio così dedicarsi al tempo perso non è perdere tempo. Anche perché fa di nuovo un caldo boia.
Accosto la moto, scendo lungo la scarpata, mi spoglio e mi lancio in acqua in mutande.
L’acqua è ghiacciata ma piacevolissima e subito mi riprendo.
Provo a fare una nuotata ma appena mi allontano da riva sento la forza della corrente che mi fa desistere.
Ogni tanto dai pulmini e dalle auto qualcuno mi saluta.
Mentre mi cospargo il corpo con il fango del fondo per scartavetrarmi un po mi accorgo che il pastore dall’altra parte del fiume non sta parlando al telefono a voce alta.
Semplicemente parla da solo ad alta voce e ride fragorosamente come fosse un montone.
Sì, esattamente parla con la voce di un montone.





Sta lì accovacciato in mezzo al suo gregge, senza nessuna copertura che ripari lui dal sole e la sua mente dalla cottura.
Mi urla qualcosa in Uzbeko, gli rispondo qualcosa in Calabrese.
Fumo una sigaretta mentre mi rivesto senza asciugarmi in modo da rimanere più fresco.
Saluto il montone e riparto convinto di farmi una bella tappa, ma dopo meno di un km incontro un villaggio di case di fango



e un signore con due bambini che vende frutta a bordo strada.

Scambiamo due chiacchiere e mi invita a casa sua.
Io ringrazio ma rifiuto e proseguo.
Poi però mi viene in mente che comunque dovrò mangiare. E chissa quando mi capita più che un uzbeko mi inviti a casa sua.
Tra l’altro non ci andrei neanche a mani vuote, essendo dotato di melone da trasporto.
Torno indietro e trovo ad accogliermi un sorriso smagliante.
Lascia lì il cesto con la mercanzia, mi indica dove parcheggiare nello spiazzo e andiamo a casa.
Gli dico che ho portato un melone e che vorrei dividerlo con loro.
Lui sorride, ringrazia e prendendolo fa andare uno dei suoi figli a prendere un’anguria da regalarmi. E non posso che accettarla.
La casa è a un solo piano, semplice ma grande.
L’ingresso da su un grande soggiorno coperto di tappeti e in linea con la porta d’ingresso c’è quella che da verso la cucina e le camere, area che non visiterò. Il caldo si avverte anche dentro, forse per il tetto in lamiera non coibentato a sufficienza. O più semplicemente perché oggi è diventatato davvero torrido. Sediamo a un tavolo basso , lui capotavola, io a destra e ancora alla mia destra il padre.
Di fronte a me i bambini che mi scrutano sconcertati e con gli occhi spalancati.

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Le due donne portano di tanto in tanto cose da mangiare. Ci stanno dolci, frutta varia, insalata.
E il melone che il mio Amico taglia sorridendo felice.
Lo fa con gesto amichevole e leggero, ma vi si legge una certa solennità dell’azione.
La conversazione inizia ovviamente col mio viaggio e piano piano si sposta sui rispettivi paesi.
Ogni tanto ci sono degli intoppi ma troviamo sempre il modo di capirci.





Mi dice di essere a conoscenza della crisi in cui versa l’Italia e mi chiede come sia la situazione da noi.
Parliamo del lavoro, della politica impazzita, del popolo che non ce la fa mentre i potenti dormono tranquilli.
E lo facciamo mangiando con le mani nello stesso piatto.
Quando tocca a me chiedere lumi sul paese che sto visitando ricevo una bella sorpresa.

-“ Nash Presidient occinh kharashò!” dice il mio Amico puntando l’indice verso l’alto. “il nostro presidente è molto buono”.
Ad istinto mi sembra l’affermazione di un povero contadino che vive nell’ignoranza e che non conosce altro che il suo villaggio.
Prosegue dicendo che lo stato è efficiente e agevola la vita del popolo.
Il Loro Presidente gli ha assegnato il terreno su cui hanno alzato in quindici giorni la loro casa, fatta di mattoni di fango e paglia essiccati al sole.
Sul loro terreno coltivano alberi da frutta, grano, riso, cipolle, peperoni, peperoncini, patate, frutta varia.
Allevano galline, pecore e mucche e producono quanto basta al loro sostentamento e hanno il permesso di vendere il surplus di produzione.
Mi dice che l’assistenza sanitaria e medicinali sono gratuiti, che la scuola e i libri sono gratuiti.
Che per ogni figlio c’è un contributo mensile di qualche migliaio di Som.
Che sono pochi ma ci sono.
Mi dice –“ io non ho un lavoro, ma ho tutto quello che mi serve per vivere e mandare avanti la mia famiglia”.
Mentre dice questo mi guardo intorno.
La casa ha arredi abbastanza pacchiani, ma ci sono i riscaldamenti costituiti da un tubo d’acciaio da 7 o 8 pollici che gira su tre pareti e finisce in un cilindro di diametro maggiore. E’ la forma peggiore per un calorifero. Ma è un calorifero.
Mi accorgo che in sottofondo la TV è rimasta accesa su FOX Crime.
Chiedo : -“ Sputnik televizor?”
Risponde: -“ Da,da… Sputnik televisor!”
Hanno la tv satellitare, quindi sono collegati col resto del mondo.
Le cose che mi ha detto non sono frutto di un lavaggio del cervello imposto da una voce unica come avviene nelle dittature.
Loro hanno un riscontro col resto del mondo.
Dovrebbe essere una dittatura, ma hanno tutto quello per cui nelle democrazie scendiamo nelle piazze a prendere mazzate da poliziotti che se non fossero tali protesterebbero anche loro.
La scuola, gli ospedali, la casa.
In Italia devi sperare di non ammalarti, non devi alzare la testa davanti a chi ti da un lavoro.
Se ti sbattono fuori sei fottuto, puoi andare a dormire sotto un ponte o tornare da mammà.
Lui non ha un lavoro, ma mantiene il padre e la sua compagna, i figli e ospita uno straniero a pranzo.
Forse non ha un’ automobile, sicuramente non ha mai fatto un viaggio. Ma c***o vive e pure bene.
Dopo questo discorso faccio per andarmene, un po per la depressione in cui mi ha buttato ma di più perché si è fatto tardi.
Lui insiste nel trattenermi e sta quasi per offendersi perché le donne stanno cucinando una specialità per l’occasione.
Chiaro che saputo questo non posso che trattenermi ancora.
Non voglio offendere nessuno che mi abbia accolto così.
La fretta mi sembra non essere concepita da queste persone e penso che , almeno in quest’occasione, posso concedermi un po di calma e imparare qualcosa da loro.
In fondo è anche questo il benevolo sequestro di persona dell’ospitalità islamica.
Anche lui mi dice che avere un ospite sono punti in più per il paradiso che vanno a loro.
E qui oltre alla raccolta punti ci vedo gente che davvero è felice di avere un viaggiatore con loro per qualche ora.
Il mio jackpot di punti lo prendo invece perché arrivato il momento del ringraziamento per il cibo (che lui ha pronunciato anche all’inizio del pasto)
nessuno mi ha dovuto dire cosa fare e ho partecipato in automatico.

Mentre chiacchieriamo prendo confidenza con i bambini, in particolare con una delle figlie che mi guarda fisso e ride ogni volta che ringrazio.
Quando mi porgono qualcosa, nel ringraziare abbasso la testa e mettendomi la mano destra aperta sul cuore dico “spasibo” quasi sussurrandolo.
Lei inizia a prendermi in giro guardandomi e facendo la stessa cosa, per poi finire in una gran risata che si porta dietro tutta la tavolata.
Le donne portano la specialità, una sorta di focaccia con qualcosa dentro, mentre i bambini cominciano a provarsi il casco,
le bambine con i foulard in testa iniziano a ballare e un poliziotto americano su FOX Crime analizza i resti di un cadavere squartato.









Prima di andare mi fa vedere il loro piccolo orto e i mattoni al sole ad essiccare, impastati con il fango dello stesso terreno, e mi fermo a guardare alcuni dettagli della casa, come la scossalina alla base dell’intonaco. Vedo che anche quello è fatto di paglia e fango. Gli chiedo se da loro piova in inverno.
-“Sì, nevica pure!”
-“ E come fate con questo (indicando l’intonaco)”
-“ Niente. Impastiamo e ripassiamo di nuovo!”







Non posso non pensare alla italica burocrazia per i lavori edili.
Saluto anche loro con un abbraccio dopo aver sistemato il cocomero sotto l’asciugamano.

Vado via portandomi la domanda su cosa sia a fare davvero la felicità di un popolo.
Questi pensieri durano poco.
Subito dopo la diga si gira a destra e inizia la lunga strada per Buchara.
Un rettilineo di sterrato, pietrisco, cemento, asfalto sbriciolato in rifacimento e ampliamento.

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La statale è molto trafficata non solo da auto ma anche da pullman e camion che alzano discreti polveroni.
E anche da due motociclisti tedeschi in sella a una R1150 che viaggiano in direzione opposta alla mia.
Vengono da Buchara e stanno facendo un giro abbastanza lungo che mi fanno vedere sulla maglietta che indossa lui.
Il giro completo non lo ricordo perché un particolare cattura subito la mia attenzione: il giro passa dalla Russia e finisce in Georgia a Tbilisi!
Chiedo subito se hanno informazioni sulla frontiera di Kazbegi perchè, ormai lo sapete, se fosse aperta per me sarebbe una svolta.
Loro dicono di aver avuto conferma dallo spedizioniere georgiano che imbarcherà la moto che sì, è aperta.
Vagamente inizio a paventare l’ipotesi che una provvidenza possa esistere davvero.
Oltre alle dritte sulle strade che faremo rispettivamente (visto che faranno anche loro la frontiera di Nukus) ci scambiamo i numeri di telefono.
Siamo d’accordo che il primo che arriva a Kazbegi conferma l’apertura o meno del posto di frontiera.
Continuo la mia strada che mi dicono i tedeschi sarà così per 200 km. Dopodichè troverò l’asfalto nuovo di zecca

Duecento km non sono tanti su asfalto, ma su una strada così diventano interminabili.
Anche per le migliaia di buche, che ogni tanto si è costretti a prendere per sorpassare un camion o un auto che sollevano nubi di polvere così fitte da non vedere a un metro.
E con sommo dispiacere mi accorgo durante una sosta che il cocomero è esploso su una di queste buche.
Il succo rosso cola su sedile e catena, che sembra ci abbiano squartato un maiale sopra.
Decido di mangiare il mangiabile lì sul posto.



Peccato, speravo di giocarmelo più avanti in un’altra botta di condivisione ma la strada ha voluto così.
Mi chiedo cosa avranno pensato i passeggeri dei pullman vedendo un motociclista mangiare un cocomero fracassato a bordo strada in mezzo alla polvere.
Su queste strade si incontra spesso gente rimasta a piedi. Ci sono quattro ragazzi che spingono una macchina. Gli dico che se hanno un tubo posso dargli un po di benzina per arrivare al distributore. Ringraziano con la mano sul cuore, ma il problema non è la benzina.

Il paesaggio è notevole: la strada corre poco distante dal confine turkmeno e in lontananza si vede un lago che divide i due stati.












Mi fermo a un chiosco poco distante dal confine a bere qualcosa di zuccherato. Prendo una fanta da 1,5 litri che divido con i tipi al chiosco.
Beviamo tutti dalla stessa bottiglia e mi sembra la cosa più naturale del mondo.
Farò un’altra sosta all’inizio della strada asfaltata in una chaichana con qualche camionista russo, bevendo tre the accompagnati da altrettante sigarette e suscitando l’attenzione e i sorrisi dorati della proprietaria, sotto lo sguardo divertito del padre. Finalmente al calre del sole sono di nuovo sull’asfalto.
Da qui a Bukhara c’è un altro centinaio di km di asfalto tutto sommato buono in diversi tratti invaso dalla sabbia fine per molte centinaia di metri su cui ho sinceramente paura di perdere il controllo dell’anteriore e finire a terra.
In uno di questi tratti trovo un tir finito completamente fuori strada e insabbiato di traverso.
Il conducente è seduto a bordo strada con faccia disperata.
Gli chiedo se ha chiamato i soccorsi e, quando mi dice di non avere telefono, gli offro il mio per telefonare.
Facciamo tira e molla un paio di volte: sarebbe tentato di usarlo ma forse non sta bene chiedere aiuto a uno straniero.
Dirò quanto ho visto due volte più avanti: la prima in un posto in cui mi hanno proposto di fermarmi per la notte, l’altra ad un posto di controllo della polizia.
In entrambi i casi non fotte niente a nessuno del povero camionista.
Anche se insisto mi rispondono cose del tipo che prima o poi qualcuno lo aiuterà, o che gliel’hanno gia detto. I poliziotti sono più interessati a sentire il rombo della moto e a chiedermi di impennarla. Non mi torna proprio il contrasto tra l’ospitalità per lo straniero e la strafottenza per il connazionale.

Arrivo a Bukhara che è sera inoltrata.
Casualmente mi portano al B&B indicatomi dal tipo a Khiva.
Varcato il grande portone in legno , all’interno della corte su cui si sviluppano tre piani di edificio, ci stanno due moto parcheggiate e attrezzate da viaggione: un’Africa Twin e una Dominator.
Sono di Andrè e Alexandra, due tedeschi che due anni fa hanno spedito le moto in australia e piano piano stanno tornando verso casa.
Con loro ci stanno due russi, Slava e un altro di cui non ricordo il nome.
Vado a prendermi da mangiare e da bere alla bottega dietro l’angolo appena sistemate le cose in camera.
Ci vado a piedi nudi e la gente del posto mi guarda stranita.
Mangio con i russi e i tedeschi il mio scatolame appena comprato e facciamo un po di chiacchiere.
La prima impressione su Slava non è buonissima. E’ grosso, proprio grosso e a tratti arrogante.
Parla dell’addestramento nell esercito russo e delle missioni in Cecenia per scovare e distruggere i “terroristi”.
Parla del fatto che per lui Russia vuol dire sua moglie, sua figlia, quanto di più caro abbia al mondo.
Penso che il mondo è davvero strano e fare un viaggio di questo tipo renda tutto ancora più strano:
una settimana fa ero in casa con un Ceceno la cui famiglia è stata decimata dall’ esercito russo, ora qui con un russo che a suo dire combatteva i terroristi ceceni.
Mi chiedo se per caso Slava e Rizo non si siano incontrati in circostanze poco pacifiche e piacevoli.
L’altro russo e più taciturno, forse perché non parla inglese neanche un po.
I tedeschi mi consigliano subito di stare lì almeno due giorni, se proprio vado di fretta.
Dicono che Samarcanda è fattibile in un giorno, mentre Bukhara merita di essere vista con una certa calma.
Accolgo il loro consiglio mentre saluto per andare a nanna.
Saranno stati i racconti di guerra, il nazionalismo o semplicemente la stanchezza, ma le cose che più bramo sono una doccia e un letto.
 
14133928
14133928 Inviato: 15 Feb 2013 19:56
 

toto_le_moto ha scritto:
grazie sandro...
ma è gia grasso che cola se riesco a finirlo su queste piattaforme icon_biggrin.gif


Almeno pensaci!!!
Hai moltissime cose da raccontare e lo fai magnificamente 0509_up.gif

Ti do un'altro spunto
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L'autore è un mio amico, quando leggo i tuoi racconti mi sembra di ritornare alle serate passate a sfogliare le sue foto e i numerosissimi aneddoti di vita durante i suoi viaggi in oriente, le persone che lo hanno ospitato, quelle che lo hanno aiutato e chi lo ha fregato. Le difficoltà, le paure, la solitudine...
Avete molto in comune.
Lui ha scritto due libri e sono diventati la svolta della sua vita.


Se un giorno lo farai, una copia è già prenotata!!! 0509_doppio_ok.gif


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14135502
14135502 Inviato: 16 Feb 2013 18:26
 

Ok Sandro, l' hai detto: una copia, se mai ci sarà, è per te icon_biggrin.gif
Di barazzutti avevo già sentito parlare e mi pare di capire che sia ormai una istituzione del viaggio in moto all'Italiana.
Leggo hai una CBF 600... tu lo sai che ci si fanno grandi cose con quella motina, vero? icon_cool.gif
Che neanche lei sa di poterle fare....
Comunque sto contiiunuando, tra qualche giorno dovrei postare un' altra giornata uzbeka.
 
14138095
14138095 Inviato: 18 Feb 2013 1:41
Oggetto: Capitolo 6
 

Capitolo 6



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I Tedeschi li ritrovo al tavolo subito fuori dalla porta d’ingresso alle camere dove alloggio.
Stanno facendo una tranquilla colazione muniti di laptop e ne approfitto per dare un’occhiata alle schede SD dell’ActionCam
per eliminare i filmati inutili o partiti per caso e fare un po di spazio.
Andreé somiglia vagamente a Ben Stiller e, stranamente per un tedesco,
oltre ad avere una mimica molto espressiva gesticola discretamente quando parla,
effetto forse della necessità di farsi capire per due anni tra australia, sud-est asiatico e paesi ex-sovietici.
Alexandra invece ha tratti somatici molto “affilati”:
il naso e il mento puntuti, labbra larghe e sottili che sorridono sempre, a differenza degli occhi sfilati e chiari.
Sì, sorride sempre Alexandra.
Anche quando, raccontandomi del loro viaggio, mi racconta di aver conosciuto e
fatto strada insieme al motociclista giapponese ucciso a Khita (RU) mentre campeggiava da solo,
fatto di cui sapevo prima di partire e abbastanza noto, credo, tra gli scoppiati viandanti come noi.
Sorride anche quando mi racconta di aver spedito le foto fattegli alla famiglia come ricordo.
Sorrideva anche la sera prima quando, parlando io della mia spossatezza dal Kazakhstan in poi,
mi rimproverava di non aver preso integratori salini, raccontandomi di una coppia di viaggiatori in moto di cui Lei,
seduta come passeggero, era stata ricoverata non so dove per disidratazione, pur bevendo 5 litri d’acqua al giorno.
Mi accorgo mentre parla che è solo la bocca a mantenere l’espressione del sorriso.
Gli occhi variano dal divertito al dispiaciuto, dal seccato al profondo.
Insomma tutte le sfumature che possa prendere un volto durante l’esternazione di pensieri, sensazioni e sentimenti.
Forse anche questo è effetto di due anni e migliaia di km in terre straniere.
In ogni caso hanno entrambi gli occhi buoni e subito nasce una buona amicizia, per come possono essere le amicizie in queste situazioni: fugaci e brevi ma sincere e talvolta profonde.
Dopo avermi illustrato su cosa concentrarmi in Bukhara e Samarcanda, io e Andreè facciamo un po di manutenzione sulle moto.
Cerco di pulire il cocomero esploso ma ormai si è solidificato con gioia di mosche e moscerini che girano intorno al veicolo soddisfatte.
Il filtro dell’aria è abbastanza pulito nonostante i sabbioni attraversati, e di olio non ne ho perso neanche un grammo.
Do una spruzzata di grasso per catena ai leveraggi del mono dato che cigolano un po:
forse non è il prodotto più adeguato ma è l’unico che ho.
Rimaniamo d’accordo di vederci al tramonto in un locale con terrazza di fronte alla piazza del minareto Kalon da cui, a detta loro,
si gode un ottima vista della città alla luce del sole che se ne va.
Dopo una doccia inizio il mio giro con borsetta da tranviere e fotocamera d’ordinanza.







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Gironzolo tranquillamente tra piazze e vie di una città antica di secoli che, anche vivendo ormai di turismo,
non è stata trasformata in una bomboniera ma vive la sua vita di artigianato e commercio.
Poco vicino alla locanda si trova la grande piazza Lab-i-Khauz , con al centro la grande vasca d’acqua,
probabilmente centro della sterminata rete di pozzi che per secoli hanno reso abitabile quest’angolo del deserto del Kizil Kum,
i cui canali sono ancora visibili qua e là per la città.
Pare infatti che l’acqua di questa rete, non essendo cambiata così spesso, fosse veicolo di frequenti pestilenze.
I sovietici misero fine a tutto ciò costruendo una rete di canalizzazioni moderne.
Non faccio il turista di giorno da quando ho visitato Astrakhan e, se ricordate,
quella città non mi ha fatto sentire accolto ne soddisfatto della mia condizione solitaria, che pure prediligo in viaggio.
Qui invece non sento così forte il limite dell’ essere in solitaria.
Anzi è come se fosse possibile entrarne ed uscirne in ogni momento.
Mi fermo a comprare delle sigarette in un chiosco che vende altro e mi sento confortato dal sorriso della bellissima venditrice,
giovane ma in attesa del secondo figlio.
Attraverso il Bazar Taki- Zargaron (credo) e visito la medressa di Ulughbek,
non restaurata ma forse per questo ancor più carica di fascino, il cui cortile è occupato da bancarelle di artigiani.











Decido che i pochi souvenir di questo viaggio li comprerò in questa città,
non fosse altro per il fatto che questa gente produce da se le cose che vende ed è vera economia locale.
Passo più avanti a dare un occhiata alla piazza dell’appuntamento di stasera.
Il minareto Kalon è davvero qualcosa d’ impressionante,
una delle poche cose che quel mattacchione di Gengis Khan risparmiò quando rase al suolo la città nel 1220,
circa un secolo dopo la costruzione del minareto.
Si tratta di una torre alta 47 mt, le cui fondamenta si infiggono per 10 mt nel suolo (contando anche lo strato antisismico costituito da canne).
Per intenderci 47 metri corrispondono agli odierni 15 piani e mezzo:
niente di eccezionale per un edificio in cemento armato, ma assolutamente notevole per una torre isolata in muratura portante.
Ancorpiù considerando che dalla sua realizzazione non ha mai necessitato di restauri.







Nell’ intento di Arslan Khan doveva essere così alto per gettare l’ombra dell’Islam su tutto il mondo.
La leggenda vuole che il Khan avesse ucciso in un litigio un Imam.
Una notte questo venne in sogno al Khan e pretese che la sua testa giacesse in un posto dove nessuno avrebbe potuto calpestarla.
Detto fatto, venne seppellito sotto la torre.
Suppongo abbiano fatto presto nella costruzione, altrimenti non credo sarebbe rimasto molto da seppellire.
Di fianco alla torre stanno, contrapposte a descrivere la piazza, la Moschea Kalon e la medressa di Mir-i-Arab.
La moschea, di nuovo attiva dal 1991, si sviluppa intorno a un cortile capace di ospitare 10mila fedeli.
Vi si respira la geometria dell’Architettura Islamica,
pura e semplice nell’impianto ma di una complessità esponenziale man mano che gli occhi salgono verso il cielo.
Cerco di stare distante dai gruppi di turisti.
Soprattutto da quelli che parlano, da ovunque essi provengano, dei c***i loro.

















Mi accosto invece, senza dire una parola per non farmi sgamare,
a un gruppo di una decina di italiani che seguono una guida russa che parla loro della medressa antistante la moschea.
Pare che secondo la leggenda per costruire questa scuola coranica, tuttora attiva e mai chiusa neanche dai sovietici,
il Khan abbia contravvenuto a uno dei principi dell’Islam, ovvero quello che prescrive ai musulmani di non ridurre in schiavitù altri musulmani.
Servivano molti soldi per la costruzione della scuola e il Signore dell’epoca non ci pensò due volte a
vendere parte del suo popolo come schiavi agli infedeli per pagare le spese.





Ecco: questo è il motivo per cui tante volte rimango perplesso di fronte alle meraviglie del mondo, ai patrimoni dell’Unesco,
alle perle dell’Architettura, ai palazzi reali e a tutte queste manifestazioni materiali della vanità umana.
Che sia in nome di Dio, della Nazione, della Libertà, del Popolo, del Progresso.
In nome di qualsiasi cosa migliaia di persone sono state sfruttate, schiavizzate,
e fatte morire di sforzi per costruire qualcosa il cui nome rimane quello del Padrone che l’ha voluto.
Qualche volta si ricorda il nome dell’Architetto, mai si ricordano i Disgraziati morti in cambio di un pezzo di pane per onorare il volere del Padrone.
E noi ora stiamo qui davanti a scattarci foto uguali a quelle di altri,
ergendo a simboli di pace le testimonianze della prevaricazione dell’uomo sull’uomo, oltre che del genio dello stesso.
Immerso in questi pensieri svicolo verso quello che scopro essere il bazar degli orafi.
Faccio un giro rapido, visto che pare essere meno suggestivo e mi fermo per un the in una piccolissima chaikhana nel cortile antistante.



Qui non ci sono turisti e non credo ne vedano spesso.
Perfetto!

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Sto al mio tavolo a sorseggiare soddisfatto il mio the, dopo aver ordinato anche da mangiare.
Chiaramente incuriosisco qualcuno e inizia la chiacchierata con un paio di tipi al tavolo a fianco.
Uno di loro ha il laboratorio di tappeti lì a fianco. Parliamo di tutto un po e sono sorpreso di quanti pochi intoppi ci siano nella conversazione. Certo non parliamo di massimi sistemi, ma riesco lo stesso a portare il discorso sulla loro situazione. E grossomodo mi viene confermato quanto dettomi dal contadino il giorno prima. Sostanzialmente se non lasciano il paese per vedere il mondo è per una questione di valore della moneta. Solo i ricchi Uzbeki possono permettersi viaggi in Europa. Pare non ci siano grossi problemi per i visti. Mi confermano che lo standard di vita è abbastanza dignitoso. Certo, ci sono i ricchissimi e qualcuno è più vicino alla povertà. Ma finora non ho visto un mendicante che si possa definire tale e pare che il problema dei senzatetto non esista. Per cui o il governo li prende di notte e li brucia senza lasciare traccia, o effettivamente in questo paese c’è davvero il rischio di vivere una vita dignitosa anche senza mezzi adeguati. Certo non si può parlar male del governo o della polizia, ma non ho sentito tensione o falsità nelle loro risposte, né li ho visti ammiccare tra di loro per concordare al volo una risposta che non fosse troppo esplicita. E parliamo di un paese ampiamente servito da internet, dove il russo si insegna a scuola e quasi tutti gli operatori turistici e commercianti coinvolti in questo mercato parlano inglese. Arrivo alla conclusione che se hai poco di cui lamentarti la censura non pesa poi così tanto, evidentemente. In ogni caso, finisce a pranzo pagato e foto insieme. Quando gli chiedo l’indirizzo per mandargli la foto, mi danno l’indirizzo fisico del laboratorio di tappeti. Non hanno internet. Mi faccio scrivere l’indirizzo sul taccuino, ma inutile dire che quella foto non è mai stata ne stampata ne spedita. Càpita, ogni tanto!



Da lì è molto vicina la città regale fortificata di Ark, risalente al V secolo e abitata fin quando i Russi non la bombardarono nel 1920.
Ci giro un pò intorno prima di trovare l’ingresso, sorvegliato da due poliziotti di cui uno, gentilmente,
mi stringe la mano e mi dice di nascondermi dietro una rientranza nel muro.
Ho gia capito dove vuole arrivare e ci sto.
Appena sparisce un gruppo di turisti dall’altra parte della strada mi fa segno di entrare rapidamente e, appena girato l’angolo dopo l’arco di ingresso mi dice che non potrebbe farmi entrare perché è in restauro e pericolante, ma visto che sono solo può fare un’eccezione retribuita.
Quanto retribuita? Una decina d’euri. Va benissimo!





Allora saliamo, mentre mi descrive rapidamente i vari ambienti che attraversiamo :
la Moschea del Venerdì e la Corte per le Udienze e le Incoronazioni.







Purtroppo gli altri ambienti come gli alloggi dei ministri sono chiusi e non accessibili, ma per me va bene lo stesso.





Mi va meno bene che mi metta fretta ogni volta che mi fermo a fare foto.
Faccio però in tempo a fotografare un muro in restauro che mi rivela la tecnica costruttiva:
una sorta di muratura listata orizzontalmente di mattoni posati in verticale e armata da pali in legno, successivamente intonacata.



Arrivati di fronte a una staccionata chiusa con un lucchetto di cui possiede la chiave,
la Guardia esige il pagamento e in cambio mi da 15 minuti per osservare il panorama e fare tutte le foto che voglio.
Con la raccomandazione di non sporgermi troppo perché pericoloso(e anche perché potrebbero vedermi, credo).
Pago quanto pattuito e mi godo lo skyline imperioso di moschee, medresse e minareti sovrastante un tappeto di abitazioni basse e catapecchie.



Scatto le mie foto e rinuncio a meditare su quanto vedo: sono circa le tre di pomeriggio e il sole non picchia, frusta letteralmente.
La Guardia ringrazia me , io ringrazio lui.
Oltre a ricevere la raccomandazione di non fare con nessuno parola del favore ricevuto.
Gli do la mia parola.

Proprio di fronte c’è una moschea con davanti un grande portico.





Vado a sedermici per riposare all’ombra ma il venditore di piattini in metallo comincia a scocciarmi con la sua insistenza e allora decido di entrare.
All’interno ci sono tre uomini che discutono, seduti al centro sotto la cupola a voce normale, né alta ne bassa,
mentre un altro sta in disparte sonnecchiante.
Mi siedo appoggiando la schiena contro il muro e, coccolato dall’aria più fresca, mi addormento.
Quando mi sveglio per il mio stesso russare mi accorgo che gli uomini, accortisi del mio riposo,
stanno parlando tutti a voce decisamente più bassa rispetto a prima.
Uno mi vede sveglio e fa un cenno di saluto con la testa che ricambio con un sorriso, portandomi la mano al cuore.

Esco ristorato nell’afa e dopo 20 metri sosto in un ristorantino a farmi un paio di the, chiacchierando con un cameriere.
Ritornerò poi in locanda a prendere soldi per i souvenir che ho individuato e per la cena con i tedeschi.
Non senza prima fare qualche scatto a delle venditrici cercando, credo con scarso successo, di non essere visto.









Da una signora, parlante un perfetto inglese, comprerò due foulard in seta e cotone, uno per me uno per la mia metà, mentre per le donne di casa prenderò delle piccole lampade d’Aladino in ottone lavorate a mano.
In entrambi i casi sarà un piacere contrattare al ribasso come si può fare solo nei paesi islamici.



Mentre vado all’ appuntamento coi Crucchi incrocio i Russi, anche loro invitati.
A dirla tutta sono infastidito della cosa perché non ho nessuna intenzione di passare la serata con militaristi convinti e neanche tanto teorici.
Ma questa è, e mi tocca.
Saliamo insieme la scala a chiocciola del locale che porta alla terrazza e la vista è davvero piacevole,
ma più di questa è gradevole la sensazione dell’aria che si fa fresca mentre il sole va ad abbrustolire qualcuno più a ovest, lasciandoci finalmente respirare.



Faccio vedere i miei acquisti ad Alexandra che, sorridendo con aria di sufficienza, mi dice che ho pagati troppo i foulard.
Sorridendo le rispondo che questi soldi non mi avrebbero reso più ricco, ma forse avrebbero fatto stare meglio la signora che me li ha venduti.
Ah…. E sorride anche quando mi dice che lei non avrebbe pagato per entrare nella città fortificata, perché il tipo si è intascato i soldi.
Benedetta Crucca, e riditi sto c***o!
Gliel’ho spiegato, ma non credo l'abbia capito, che quello non è assimilabile a pagare una mazzetta o il diavolo sa cosa.
Non c’è stato verso di convincerla.
Nel frattempo, parlando parlando, cominciano a starmi sempre più simpatici i russi.
Scopro che Slava ha solo fatto il servizio militare di leva e, viste le sue dimensioni, l’hanno spedito nei corpi d’assalto.
E non credo che all’esercito russo si possa dire di no.
Sa di non aver fatto cose buone quando era lì, ma quella era la situazione e quello c’era da fare.
Mi torna in mente il libro “Caduta ibera” di Nicolai Lilin,
una sorta di autobiografia (se pur molto romanzata) della sua esperienza nell’ esercito russo come cecchino contro i Ceceni.
L’autore condanna la guerra ma non chi la subisce:
in primo luogo i civili, ma anche guerriglieri e soldati, vittime dello stesso gioco dettato dal potere.
Ed è un gioco a cui devi giocare bene, una volta che ti ci hanno buttato dentro.
Che tu appartenga a una comunità aizzata da un capetto religioso o ad un plotone dell’esercito,
comunque c’è qualcuno che, standosene col culo al sicuro, sta disponendo della tua vita per i suoi fini.
E in fondo la storia di questo ragazzo è uguale, come quella di altre migliaia.
Avrà vissuto l’Inferno in Terra, uccidendo e cercando di non essere ucciso,
avrà visto gente squartata da granate e razzi agonizzare senza speranza.
E tra questi ci saranno stati bambini, padri, vecchi depositari di sapienza, madri.
Avrà visto cos’è uno stupro di guerra e in cuor mio spero che non l’abbia praticato.
Avrà avuto i suoi problemi a ritornare alla vita normale, avrà avuto incubi tremendi e forse ancora li ha.
Anche i suoi occhi sono buoni, piantati in un faccione da bambascione cresciuto a vodka,
con un corpo così grande e forte e capace di uccidere un uomo a mani nude,
ma evidentemente desideroso di altri e pacifici tipi di contatto,
come l’abbraccio e le pacche sulle spalle di un amico, il bacio della figlia,
la fusione insieme mistica e prosaica del suo corpo con quello della donna amata.
Nella vita da civile Slava ha una laurea in geologia e lavora per una società petrolifera russa in cerca di petrolio in Uzbekistan,
mentre la moglie e la figlia vivono a un centinaio di km da Samara.
La lezione del giorno, che credevo di aver già imparato dalle mie letture e dai miei viaggi precedenti,
è che non si può giudicare chi ha vissuto una guerra se non se ne è vissuta una sulla propria pelle.

Ci ritroviamo a scherzare bevendo un paio di birre a cui aggiungiamo del sale per recuperare quanto sudato,
io Slava e l’altro Russo, mentre i tedeschi vanno a the.
L’Altro Russo è il vice boss di una società non meglio identificata,
che a questo punto potrebbe anche essere la stessa per cui lavora Slava.
Tende a fare il misterioso e a sottrarsi agli scatti.
E’ comunque molto simpatico anche lui.
Decidiamo di andare a mangiare al ristorante della piazza Lab-i-Khauz.
I russi dicono che vogliono offrirci loro la cena e, alle mie proteste, l’Altro Russo risponde :
-“ non c’è problema: qui paghiamo noi perché siamo di casa. Quando verremo in Italia pagherai tu per noi!”
Scroscio di risate: si era appena parlato di prezzi e valore delle monete nazionali.



Il posto pare essere uno dei migliori ristoranti della città, nonché evidentemente il più pacchiano.
La serata scorre tranquilla e serena.
I Russi ci aiutano a scegliere cosa mangiare.
Beviamo tutti birra, ma quando si tratta di brindare con la vodka l’unico a non tirarsi mai indietro sono io:
la megasbronza da adolescente in Ucraina mi ha aperto gli occhi sul mondo della vodka a cena.
Ed è un mondo bellissimo: va giu, non te ne accorgi e non ti distrugge.
Diverse volte durante la cena Slava mi prende per il culo, parlando di me come gran seduttore di donne.
Questo perchè, usciti dal locale con la terrazza, una venditrice di ceramiche ha insistito per regalarmi una ciotola fatta da lei,
dopo che le avevo detto di aver gia fatto gli acquisti dei souvenir.
E’ stata davvero gentile e siamo rimasti a parlare un po. E l’abbiamo fatto in Italiano.
Lei è tagika, cresciuta in Uzbekistan, divorziata a 26 anni e parla italiano ( oltre a inglese, tedesco, spagnolo e francese)
avendolo imparato dai turisti a cui vende i pezzi che produce.
Mentre questo succedeva, avrei voluto fosse presente Samat per sapere cosa avrebbe detto.
-“Questo è il mondo reale, Samat, non il Kazakhstan!” gli avrei detto io.



Finiamo la nostra serata fumando qualche sigaretta nel cortile della locanda.







Ci ritroviamo la mattina successiva in cortile tutti allo stesso tavolo: oggi io parto per Samarcanda, i Tedeschi per Khiva.
E’ destino di questo viaggio di beccare sempre gente che va dall’altra parte, però è gia tanto incontrarla.
I Russi, soprattutto Slava, hanno un espressione un po più tristanzuola.
Tra pochi giorni non ci saranno più così tanti turisti alla locanda e immagino ci sarà da rompersi abbastanza i cabbasisi.
I Tedeschi sono attrezzatissimi e hanno caricato le moto come muli, svegliandosi almeno due ore prima.
Gli rimane da mettersi soltanto l’abbigliamento da Cross: corpetto con le armature, pantaloni con protezioni e stivalazzi da Enduro pesante.
Gli faccio notare che forse è un po eccessivo, viste le temperature.





Alexandra (sorridendo ma già lo sapete) risponde che se ti cade la moto così carica su una gamba, sono problemi non da poco.
E lo so, e so anche che io sono sportivissimo con i miei anfibi da guardia giurata e senza neanche le protezioni alle ginocchia.
Di sicuro io se cado mi sfracello qualcosa. E non è un bel pensiero.
Baci, abbracci e i Tedeschi vanno per la loro strada.



Link a pagina di Youtube.com

Io rimango a farmi altri tazzoni di inutile Nescafè, approfittando della compagnia di Slava che oggi andrà a lavorare più tardi.
Però arriva anche per me il momento di andare, e lo faccio con una punta di dispiacere in fondo al cuore.
Avrei voluto più tempo per girare meglio nei vicoli della città,
prendermi una sbronza seria con i miei nuovi amici russi,
farmi raccontare le storie della città più sacra dell’Asia Centrale dai vecchi del posto,
andare al mercato a contrattare fino alla morte per qualcosa di cui non ho bisogno per il gusto di farlo.
Ma il tempo è tiranno e io, anche se a migliaia di km da casa, sono suo schiavo.
Saluto Slava affondando nel suo abbraccio e vado via mentre mi riprende col suo telefono.







La strada oggi è breve: solo 250 km di asfalto buono, mi hanno detto i Tedeschi.
Vado ancora verso est, ancora col sole in faccia.
Fuori dalla città, dopo qualche decina di km passo davanti all’aeroporto nel nulla di cui mi avevano parlano i Crucchi con grande stupore,
forse perchè non abituati alle cattedrali nel deserto tipiche del sud Italia.
Sono immerso nei miei pensieri che volano a 110 sull’ asfalto buono.
Non mi rendo conto che, per quanto nel nulla, ci sono delle case dall’altra parte della strada.
Me ne accorgo solo quando, dall’ombra di un albero, sbuca con scatto felino un poliziotto che mi ordina di fermarmi.
 
14138516
14138516 Inviato: 18 Feb 2013 11:24
 

non ci puoi lasciare così... eusa_wall.gif eusa_wall.gif eusa_wall.gif

sembre la fine di una puntata di Holly e Benji 0509_si_picchiano.gif 0509_si_picchiano.gif 0509_si_picchiano.gif
 
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14139739 Inviato: 18 Feb 2013 19:45
 

Bello...
Veramente bello...
icon_biggrin.gif icon_biggrin.gif icon_biggrin.gif
Questa sì che è una bella esperienza...
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14139780
14139780 Inviato: 18 Feb 2013 20:02
 

bailystic ha scritto:
non ci puoi lasciare così... eusa_wall.gif eusa_wall.gif eusa_wall.gif

sembre la fine di una puntata di Holly e Benji 0509_si_picchiano.gif 0509_si_picchiano.gif 0509_si_picchiano.gif


E loso icon_mrgreen.gif
l'effetto soap opera è questo.
Ma non è voluto, è che lo sto ancora scrivendo.
Avreta da penare per un altro pochino...
Grazie a tutti per l'incoraggiamento
 
14139922
14139922 Inviato: 18 Feb 2013 20:50
 

toto_le_moto ha scritto:
Ok Sandro, l' hai detto: una copia, se mai ci sarà, è per te icon_biggrin.gif
Di barazzutti avevo già sentito parlare e mi pare di capire che sia ormai una istituzione del viaggio in moto all'Italiana.
Leggo hai una CBF 600... tu lo sai che ci si fanno grandi cose con quella motina, vero? icon_cool.gif
Che neanche lei sa di poterle fare....
Comunque sto contiiunuando, tra qualche giorno dovrei postare un' altra giornata uzbeka.


La mia hondina è un mito e lo so che può fare tanto... la mia schiena purtroppo non più icon_sad.gif

Quando finirai di scrivere tutti i capitoli, ti basterà solo fare un copia/incolla generale, sistemare un pochino le impaginazioni, aggiungere e scegliere bene le foto più adatte, magari farti correggere le imperfezioni (pochissime davvero) da chi è del mestiere e per ultimo, cercare uno studio grafico per la stampa finale. Ed il libro è pronto!
Il mio amico Italo per il suo primo libro ha fatto così. E credimi che è stato un successone quasi senza pubblicizzarlo.
Puoi farlo anche tu, hai le capacità e hai da raccontare un viaggio incredibile! E poi trasmetti emozioni... non è poco!

Perdonami se insisto, non farlo sarebbe uno spreco.


0510_saluto.gif
 
14140236
14140236 Inviato: 18 Feb 2013 22:11
 

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OK, ci penso un po piu seriamente.
Grazie davvero per la convinzione con cui lo dici!
 
14140267
14140267 Inviato: 18 Feb 2013 22:19
 

Io lo comprerei sicuramente! 0509_campione.gif
 
14140294
14140294 Inviato: 18 Feb 2013 22:26
 

Effettivamente Sandro non ha tutti i torti...
Per solo uso personale, potresti stamparne qualche copia utilizzando questo servizio icon_arrow.gif Ilmiolibro.kataweb.it
Però, alla stampa "seria" pensaci... icon_wink.gif
 
14143416
14143416 Inviato: 20 Feb 2013 10:15
 

toto_le_moto ha scritto:
icon_mrgreen.gif icon_mrgreen.gif icon_mrgreen.gif
OK, ci penso un po piu seriamente.



Grande!!!
Questa è la risposta che volevo 0509_doppio_ok.gif


...e adesso siamo tutti in attesa del settimo capitolo 0510_five.gif


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14182645
14182645 Inviato: 8 Mar 2013 17:36
 

grandioso...non c'è altro da aggiungere... 0510_inchino.gif
 
14205523
14205523 Inviato: 18 Mar 2013 1:14
 

Mahh... direi che è ora di continuare.....
scusate la latitanza icon_smile.gif
 
14205524
14205524 Inviato: 18 Mar 2013 1:15
Oggetto: Capitolo 6
 

Capitolo 6



Accosto smadonnando mentre maledico la mia distrazione.
Le guardie , come è chiaro che sia, mi contestano una velocità pari a quasi il doppio di quella limite,
supportando l’asserzione con la prova schiacciante di una mia foto con su scritto 115 kmh.
Provo a difendermi dicendo che cazzarola non ci stanno i cartelli, che ne so io qual è il limite.
Mi viene ripetuta la regola aurea trasmessami due giorni prima: se vedi case , anche una, è centro abitato e devi andare a 60kmh.
Inizia una lunga pantomima:
-“la multa sarebbe alta, ma ti sto applicando il minimo, che comunque sono bei soldi, ma tanto sei italiano, però c’è un modo per pagare meno.”-
-“ Sì sono italiano, ma non c’ho na lira, cerca di capire, tu approfitti perché hai il mio passaporto, io non sono ricco.”e tutte le amenità del caso.
Mi vengono in mente le parole di Alexandra la sera prima quando (sorridendo,è chiaro) mi diceva che loro in due anni non hanno mai pagato una mazzetta. Avevano una copia plastificata di tutti documenti e davano quelli in mano alla polizia.
In questo momento mi verrebbe da risponderle che grazie al c***o che non hai pagato mazzette:
in due è più facile dire di no agli s*****i in divisa.
Se stai da solo sei semplicemente uno straniero contro due o tre sbirri e c’è poco da fare.
Alla fine, per stanchezza e sconforto, pago sta quindicina d’euri e ridivento proprietario della mia identità internazionale.
Ricomincio il mio viaggio ad andatura davvero turistica, cercando di leggere quest’imprevisto come la mano del fato che mi dice di godermi questi km in tranquillità, senza correre ne forzare la mano al tempo.
E così faccio, fermandomi più volte. Una volta per benzina, accolto da tutta la fila in attesa per guasto alla pompa e fatto passare davanti a tutti.



Prendo un the da qualche parte al fresco, e dopo pochi altri km intravedo una strada con un tot di piccole chaikhana che allestiscono barbecue per l’ora di pranzo.
Mi fermo da quelli che mi paiono più simpatici e vengo accolto come il Cugino d’America.
Uno dei ragazzi che gestisce mi fa segno di accomodarmi dentro.



E’ un piccolissimo bugigattolo con una porta che va su un retro, e quando gli occhi si abituano al cambio di luminosità riesco a vedere
due tavoli pieni di carne in piena macellazione: su uno un mucchio di pezzi di pollo e di manzo,
sull’altro (in realtà un frigo a pozzetto per bibite) un’ intera coscia di bovino ormai disossata.



I muri e il pavimento sono davvero lerci ma questo non ferma il languore che sale dallo stomaco, anzi pregusto un piatto fantastico .
Il tipo mi indica un tavolo all’interno per sedermi ma le mosche continuano a trovarmi interessante nonostante il tanfo dolciastro della macellazione,
di certo non invitante, e ritengo più opportuno sedermi fuori sotto un ombrellone.






Mangerò un numero imprecisato ed abbondante di buonissimi spiedi di pollo speziato innaffiati da una birra grande e gelata.
Dovrei cominciare a seguire il consiglio dei tedeschi e prendere degli integratori, ma i farmaci non sono buoni per socializzare coi locali.
Mentre consumo il mio pasto tutta l’umanità del posto si trova a passare da lì e con tutti c’è uno scambio di battute, una domanda, una stretta di mano, qualcuno più sfrontato si prova il casco.
So già che non ci sono fogne
(visto che da Rostov in poi ogni esercizio pubblico ha per servizio un baracchino di legno con un buco a terra che sembra l’ingresso degli inferi)
ma ora noto i piccoli canali a bordo strada dove finisce di tutto,
dall’acqua di cottura dei cibi all’acqua del lavaggio dei pavimenti al piscio dei bambini (ma quella è acqua santa).
Mentre sto lì a darmi in pasto alle curiosità dei villici (che poi sono le stesse in tutto il mondo)
mi viene da pensare che in fondo sono per loro una specie di Uomo dei Sogni.
Qualcuno in questo viaggio mi ha detto :-“ty romantichnyi putishestviennik!” “sei un viaggiatore romantico!”.
Per loro è molto strano che uno si spari migliaia di km da solo su una moto per venire nella loro terra.
Senza biglietti, treni o aerei, senza la sicurezza apparente di un abitacolo d’automobile il Viaggio sublima nella sua stessa essenza,
e questa gente semplice coglie il fatto associandomi ai cavalieri della tradizione timuride.
In fondo questi sono i discendenti di orde nomadi e io sono per loro una figura che arriva dritta dal passato e,
parcheggiata la macchina del tempo chissà dove, vaga tra di loro cavalcando su due ruote.
Ai loro occhi giro il mondo sul mio cavallo d’acciaio,
fedele a Tamerlano ma ribelle alle leggi che mi vorrebbero sposato e con prole da mantenere, sprezzante delle comodità domestiche come dei pericoli del mondo.
Consapevole del fatto che sono tutte cazzate autocelebrative di una mente spossata dal caldo, decido comunque di prendermi il buono di queste situazioni, ovvero la stima e l’ammirazione che mi circondano e i conseguenti rispetto e ospitalità.
La strada scorrerà tranquilla fino a Samarcanda.



L’ingresso epico che immaginavo alla meta del mio viaggio non c’è stata:
sulle mappe opensource è segnato il bed & breakfast suggeritomi dai tedeschi e ci arrivo senza perdermi neanche ad un bivio.
Lo ammetto: è stato un arrivo quasi noioso, sembrava di arrivare a casa a Centocelle dopo essere uscito prima da Studio, con tanto di traffico sulla Casilina. Percepisco l’importanza del momento dal fatto che invece dei palazzoni della periferia romana,
a guardarmi ci sono complessi di mausolei rivestiti di maioliche e Lui, il complesso del Registan.

Link a pagina di Youtube.com

No, di sicuro non sono a casa, sono arrivato a Samarcanda , che non è poco, e gli imprevisti e i colpi di scena già ci sono stati.
Mi merito un tranquillo taglio di traguardo, checcazzo!
Davanti al portone della locanda trovo parcheggiato un Land Cruiser attrezzato di fari e verricelli con svariati adesivi.
Quando entro, nello stretto corridoio che porta al cortile della casa, c’è una GS 1200 che ha l’aria di stare facendo il giro del mondo.
Ovunque alle pareti adesivi del Mongol Rally e altri gadget del genere.
Penso subito di aver trovato il posto giusto e penso che, essendo le quattro di pomeriggio, oggi sarà una giornata strameritatamente rilassante .
Mi accordo con il Tipo della locanda, parlante un ottimo inglese, il quale mi accompagna nel cortile dove,
sotto due lunghe verande, trovano posto grandi tavoli, panche sedie e quanto necessario per stravaccarsi in tranquillità.
Mi accomodo vicino a un polacco dai tratti asciutti e nervosi, col viso bruciato dal sole su cui brillano due occhi azzurri come il ghiaccio.
Occhi che pianta fissi nei miei mentre succhia come fosse brodo l’anguria che il proprietario ci porta, masticandola a bocca aperta mentre in inglese mi racconta del suo viaggio: la famiglia in vacanza in Ucraina, lui in viaggio con gli amici a fare i cazzoni in fuori strada attraverso l’Asia Centrale.
Hanno spaccato un semiasse e adesso stanno trovando un posto economico dove fermarsi per la riparazione. Ma la vedono nera. Dice di essere roso dai sensi di colpa perché se hai una famiglia da mandare avanti non vai a fare ste cazzate.
Dalla soddisfazione con cui racconta la sua avventura,
ho tutta l’impressione che se la stia spassando alla grande e dica queste cose giusto per salvare un minimo di dignità paterna.
Mentre continuo a ingurgitare litri di the e chili di frutta comincio a sentirmi appagato e rilassato.
Il Polacco mi dice che non dormiranno lì stanotte ma andranno non so dove.
Saluto il polacco e decido che è l’ora di prendere possesso della mia reale stanza di fianco alla reception.
E’ veramente squallida e la doccia è praticamente un tubo di gomma da cui esce un filo d’acqua,
ma per me è davvero una reggia ed è tutto quello di cui ho bisogno.
Non posso non pensare con un sorriso agli hotel 5 stelle che progettiamo a Studio.
Affido la mia catasta di panni da lavare al Tipo con la raccomandazione di farli prima possibile, che forse domattina riparto.
Cambierò idea entro un’oretta.
Dopo una doccia e 10 minuti di collasso a letto.
Mentre aspetto temperature più favorevoli a una passeggiata smantello i bagagli dalla moto e provo a dare una pulita dal succo di cocomero ormai cristallizzato sul portapacchi usando uno straccio e una pompa che sta proprio lì.
Do una sbirciata alla BMW e noto alcuni dettagli che mi anticipano qualcosa del Finlandese in giro per il mondo.
Noto subito la foto di una donna dai tratti orientali, forse Kazaka, attaccata al parabrezza.
Il nastro telato alle leve di frizione e freno mi dice della sua abitudine di guidare dove fa molto freddo,
e il fatto di averlo lasciato lì mi fa pensare che prevede di visitare posti altrettanto freddi.
Monta anche lui le k60 della Heidenau e sono consumate a metà, quindi ha fatto un bel po di strada.
Alla fine sbuca dal portone e facciamo conoscenza.
Non ricordo il suo nome, ma è secco di costituzione, pelle chiara e occhi azzurri da bonaccione.
Si presenta in canottiera e pantaloncini sfoggiando un fisico da cura ricostituente.
E’ molto socievole, come lo è necessariamente chi sta in viaggio in solitaria da molto tempo quando incontra un suo simile.
E’ partito qualche mese prima dalla Finlandia, dopo essersi licenziato dall’ambìto posto di ispettore di produzione (o qualcosa del genere) alla Nokia,
aver venduto tutto e preparato la moto per un giro del mondo.
Viaggia con pochissimi vestiti e una delle borse laterali è quasi piena di apparecchiature fotografiche.
Sta facendo sosta a Samarcanda per qualche giorno, mentre gira per uffici in cerca di un modo per prolungare il visto:
vorrebbe fare un giro in un fantomatico mercato di ricambi per veicoli dove pare si trovi di tutto.
Nei suoi piani c’è di attraversare il Kirgizistan per poi stare una settimana in Cina, dove lo aspetta un fixer che gli farà da guida.
Il Finnico diventa subito il mio eroe.
Stimo profondamente la sua scelta di mandare tutto a f*****o e partire per vedere il mondo senza nessuna certezze,
anzi forse proprio perché di certezze non ne ha e se ne fotte.
Dice che per ora non gli interessano le sponsorizzazioni:
BMW lo ha contattato e sono in mezza trattativa, ma per ora si limitano a seguirlo con interesse.
A lui non fotte molto di quest’argomento. Per ora non vuole che questa cosa diventi un lavoro con tutti gli obblighi che ne conseguono.
Vuole solo godersi il viaggio e girovagare con i suoi tempi.
Gli chiedo come si trovi a fare queste strade con quel bisonte di moto, come si comporta nella sabbia.
Con mia sorpresa mi risponde che sì è pesante ma non quanto sembra, è abbastanza maneggevole e anche quando, inevitabilmente, si appoggia a terra nei passaggi difficili è facile rialzarla perché i cilindri sporgenti evitano che vada giu orizzontale.
A differenza della mia Tenerè che si corica proprio e col c***o che riesco ad alzarla da solo.
Ha dormito nel deserto in Kazakhstan e mi dice di non essere stato da solo.
Capisco la foto sul parabrezza e l’espressione vagamente triste che proprio non riesce a dissimulare.
Ok, è lui il vero uomo dei sogni, quello che vaga sul suo cavallo d’acciaio fottendosene di tutti e pure di Tamerlano.
Non posso che nutrire ammirazione profonda per una scelta che io, dopo anni di sogni al proposito, non ho ancora avuto il coraggio di mettere in atto.
Sì, senza dubbio il mio Uomo dei Sogni è lui.

Rimango a parlare per un po’ con il mio nuovo eroe dei nostri rispettivi viaggi ,
dopodiché vado a fare il mio giro da turista al Registan, che sta proprio lì vicino.
Vista l’ora prossima al tramonto visito il complesso con la luce peggiore per fare foto.
Non è un problema viste le migliaia di immagini che girano di questa meraviglia.
La luce del crepuscolo da sicuramente un’aria inconsueta ai volumi tappezzati di lucide maioliche,
la cui dominante azzurra è mitigata dal giallo del sole che inizia a scendere.
Pago il biglietto anche se Andree mi ha spiegato come entrare senza pagare:
ho voglia di lasciare dei soldi che serviranno al restaturo di un’Architettura tra le più affascinanti del mondo e non mi preoccupano i quasi 10 euri dell’ingresso.













Giro per gli ampi cortili con un senso di svuotamento dentro.
Mi sento come nei pomeriggi universitari che seguivano un mega esame, come statica o progettazione.
Quei momenti di gloria personali formalizzati da un 30 sul libretto dopo settimane di chiusa a produrre disegni e progetti,
sistematicamente messi in discussione dal prof e dai suoi scagnozzi per mesi, che alla fine vengono ripagati dal voto massimo.
Quella sensazione del tipo: “Ok, ce l’ho fatta. E ora? Ora niente: è finita e mi annoio”.
Quei momenti in cui si dovrebbe riposare ma si ha addosso ancora troppa adrenalina per farlo.
Quando sembra che tutti gli sforzi siano stati finalizzati a una soddisfazione inconsistente ed effimera.

Mi siedo su una panchina guardandomi intorno un po’ spaesato, pensando che la vacanza è ormai finita.
Non riesco però a focalizzare fino alla fine il pensiero:
sento una musica provenire dal fondo del viale pedonale che passa davanti al complesso e, attraverso fontane e aiuole, porta a una sorta di campetto coperto. La musica è intervallata dalla voce di una presentatrice e mi incammino pensando di trovare un concerto di piazza.
Hanno la stessa pensata due francesi che alloggiano alla mia stessa locanda qui a Samarcanda e stavano nella stessa locanda a Bukhara.
Ci salutiamo con un cenno della testa quando arriviamo davanti al campo coperto.
Che non è un campo sportivo, ma una sorta di spazio per eventi.
C’è un sacco di gente seduta a tavoli circolari e vestita di tutto punto.
Sulla sinistra c’è il palco degli artisti, che perlopiù canteraano su basi registrate o andranno direttamente di playback.
Sulla destra c’è il palco con un tavolo addobbato a cui siedono un uomo e una donna: lui con abito nero, lei in bianco:
un matrimonio! Un mega matrimonio!

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Dev’essere qualcuno di importante, tipo la figlia del sindaco o il figlio dell’industriale della città:
a occhio duecento invitati, almeno tre cameramen con tanto di giraffa e un botto di fotografi.
Mi giro verso uno dei francesi, quello vestito con pantaloncini e maglietta rosa
(come c***o ti viene di andare per l’Uzbekistan con una maglietta rosa?) e gli dico:
-“ Ora dobbiamo trovare il modo di farci invitare!”
Il Franzose Rosa non fa in tempo a rispondermi che un signore all’ingresso ci fa segno di avvicinarci e ci porta, tutti e tre, a un tavolo con una decina di uomini.
Siamo ufficialmente invitati al matrimonio dell’anno a Samarcanda.
Gli uomini ci fanno subito spazio e i camerieri ci portano piatti, posate e bicchieri.
Io e il Franzose Rosa gustiamo tutto quello che la tavola offre, mentre il Franzose Quattrocchi non beve ne mangia praticamente nulla per via della dissenteria massacrante che lo sfinisce da quando è sbarcato dall’aereo.
Vengono portate bottiglie da mezzo di ottima vodka che finiscono con rapidità nell’ordine di un brindisi ogni due bocconi.

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Ma il cibo è sostanzioso e l’effetto dopo una decina di bicchieri è una sana euforia da sfogare quando ci dicono che è ora di ballare.
La musica è di un tamarrume sconvolgente: non solo musica tradizionale uzbeka con basi campionate o dance commerciale in uzbeko.
Su tutte spiccano i Ricchi e Poveri, Toto Cutugno e addirittura la Lambada.

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Noi andiamo a fare i cazzoni in pista e subito siamo circondati di nuovi Màifrènd che vogliono immortalarsi insieme a noi e sapere da dove veniamo.





La cosa interessante è che ogni volta che ci mettiamo a ballare dove ci stanno donne,
gli uomini vengono a prenderci e ci portano a ballare nel gruppo degli uomini.
Niente, è definitivamente così che funziona: i masculi cu i masculi, i fimmini cu i fimmini.

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I ragazzi ballano esibendosi in passi complicati, o credendo di fare ciò, in ogni caso mettendosi in mostra.
Le ragazze fanno quelle che non cacano i ragazzi manco di striscio ma intanto li guardano con la coda dell’occhio e ridacchiano con le amiche.
Prima o poi qualcuno chiederà la mano dell’altra e in qualche modo convoleranno a nozze.
Mi stupisce questo bisogno di somigliare agli occidentali con i loro costumi,
che inevitabilmente cozza con gli usi che tuttora pretendono una divisione tra i sessi anche in queste occasioni.
Si percepisce che durerà ancora per poco, ma anche se controvoglia si continua a fare così.





Mentre stiamo lì a bere e ballare vediamo anche altri ospiti della locanda fatti entrare alla festa e sottoposti alla stessa ospitalità.
Veniamo a sapere da un’amico dello sposo che il matrimonio è stato combinato e i due ragazzi, pur non essendo d’accordo, hanno dovuto piegarsi alle volontà delle famiglie. E’per questo che hanno la faccia serissima, quasi da funerale.
Che stride pesantemente con le nostre, quando tocca a noi farci le foto al loro tavolo.

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La festa finisce di colpo quando tutti lasciano il posto, seguendo gli sposi che, a piedi, escono nella piazza a farsi riprendere mentre camminano per mano.
Che pare si usi, visto che becchiamo un’ altra coppia fresca di cerimonia che si fa riprendere da tre cameramen e fotografi che gli girano intorno.
Solo che loro sono felici perché sorridono a trentadue denti scambiandosi occhiate da palumbelli.
Torniamo in massa alla locanda e concludiamo la serata a chiacchierare mentre continuiamo a bere birra,
raccontando la serata agli ospiti che non erano presenti.

L’indomani a colazione rivedo un po tutti.
Anche un francese bassino con la faccia da calabrese che alla festa sembrava il più scocciato.
Sentendo il mio accento mi chiede da dove vengo e Carramba! È originario di Petrizzi, un paese a pochi km dal mio.
Dopo 20 giorni di russo e inglese mi ritrovo a parlare in calabrese a Samarcanda.
Ed è veramente uno spasso ascoltare il mio dialetto parlato con cadenza francese.
Lui è figlio di genitori calabri e ha passato molte estati della sua vita sul mar jonio.
Si trova lì in bici insieme alla moglie e un paio di amici e quella sera stessa partiranno per tornare a casa, le bici sono gia impacchettate.
Il Finnico mi dice che passerà la giornata tra gli uffici della polizia per il visto e la locanda per aggiornare il blog dopo 15 giorni.
Oltre che per prendere contatti con altri motociclisti con cui dovrebbe incontrarsi sul Pamir, se riesce ad entrarci.
Faccio la mia giornata da turista girovagando tra Registan (di nuovo ma dall’esterno) e vecchie moschee e medresse ormai cadenti.

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Ascolto dalle guide storie di principesse rinchiuse, di infedeltà, di architetti presuntuosi e di punizioni atroci ed esemplari.
Non sono sicuro di ricordare bene ma pare che Tamerlano, tornando dalla guerra, abbia scoperto il tradimento della moglie bellissima consumato (mi sembra, ma forse è il mio orgoglio corporativo) con l’architetto di palazzo.
Scoperto il fatto, uccise lui e rinchiuse lei in un minareto dal quale si lanciò disperata.
Per evitare che si ripetessero situazioni di questo tipo il conquistatore impose che le donne andassero in giro col volto coperto,
visibile solo ai propri uomini tra le mura domestiche.
Osservo in silenzio i turisti italiani e mi rendo conto che il più delle volte siamo orribili in gruppo all’estero.
E c’è un sacco di gente che non ha idea del perché scelga una destinazione piuttosto che un’altra.
Come sempre evito di socializzare con i miei compatrioti , preferendo perdermi nel mercato tra spezie e frutta:
C’è chi ha un banco sotto le grandi tettoie in acciaio reticolare, divise per generi merceologici, e chi si dispone alla rinfusa con ceste e banchetti mobili.












Scambio una chiacchiera con un signore e il suo vicino da cui compro peperoncino e the.
Il vicino, più giovane, mi mostra orgoglioso la foto dei figli sul telefonino.
Da una signora compro un pesce fritto che mangerò seduto su un marciapiede, godendomi il vociare delle contrattazioni.





Non posso fare a meno di notare che la maggioranza dei commercianti sono donne.
E’ decisamente un mercato di venditrici.
E a pensarci bene era così anche a Bukhara, dove ho notato che anche alcuni lavori come la manutenzione delle aiuole e dei giardini è affidata alle donne, infagottate all’inverosimile per proteggersi dal sole e dalla polvere.
Decisamente in queste città il commercio è donna.
Mi sorprende come in un paese islamico così lontano dall’occidente, molto più della Turchia che già nel nostro immaginario è oriente, le donne abbiano una libertà di movimento pari a quella degli uomini: guidano tranquillamente, scherzano, alzano la voce.
Certo questa è la città, ma anche nei paesini non ho visto situazioni molto diverse.
Qui vanno in giro per lo più in abito tradizionale, fatto di una casacca su pantaloni a sigaretta, molto spesso a fantasie vivaci.
Si muovono sicure nelle contrattazioni, nel parlare con gli uomini.
Non hanno l’aria di essere sottomesse per istituzione.

















E alcune sono davvero molto belle, con tratti somatici particolari: pelle turca modellata con lineamenti orientali.








Passo qualche ora tra banchi di frutta e chaykhane a guardare una umanità tutto sommato rilassata.
Si contratta, si vende e si acquista, si imbroglia e si viene imbrogliati ma , per quanto si tratti di sopravvivenza, nessuno pare perdere le staffe più di tanto.





Dopo il mercato e prima di tornare alla locanda, una visita veloce al complesso dei mausolei molto importante.
Il cuore dello shah-I –zinda è il mausoleo di Qusam- ibn- Abbas, cugino del profeta Maometto, responsabile della diffusione dell’islam in queste aree. Successivamente anche Tamerlano e la sua discendenza iniziarono a seppellire qui i loro defunti, dando origine a questo “viale dei mausolei”.















Ascolto un po svogliato guide locali raccontare storie a turisti inglesi, ma sono davvero stanco e ho bisogno di andare al fresco della locanda.
Prima però cerco di comprare questi benedetti integratori.
Provo in una farmacia grandicella, ma i tipi dentro cercano di spacciarmi vitamine per bambini a 60 dollari.
Ritento in una più piccola dove trovo tre donne, la proprietaria e due amiche.
Capisce subito cosa voglio e mi vende una confezione di pastiglie a 5 euro.
Sto lì un quarto d’ora, mentre le signore mi raccontano di un grande concerto di Toto Cutugno a Tashkent con migliaia di persone in piazza ad ascoltarlo.
Non riesco a convincerle del fatto che Celentano abbia avuto dei colpi di genio di cui Cutugno è sempre stato carente.
Nulla da fare: Cutugno è Cutugno e loro lo adorano, tutte e tre.
Dopo essermi beccato tre buona fortuna da altrettanti sorrisi passo a comprare frutta in quantità che mi godo beatamente sotto il portico della locanda prima di fare manutenzione alla moto.
In una ferramenta mi hanno regalato del fil di ferro che ho preso apposta per la targa.
E il fissaggio funziona. Il vero problema adesso è un altro.
Ho perso l’aggancio della valigia destra. Heavy duties utilizza delle C in plastica, che si avvitano dall’interno valigia, per fissare le borse al telaio.
Per paura di spanare le filettature non ho stretto a sufficienza e mi sono perso la C.
La valigia è rimasta incastrata attraverso le viti, rimaste al loro posto impedendo che una scatola da 39 litri piena zeppa di indumenti e ricambi volasse per strada.
Fisso anche quella con quattro o cinque giri di fil di ferro.
Mentre sono lì a fare queste operazioni sento una voce di donna che mi parla in italiano.
La tipa ha una cinquantina d’anni, dai tratti somatici decisamente ariani e vestita di bianco.
Sembra appena uscita da un romanzo di viaggi di inizio novecento , così chiara di carnagione e così candida nell’abbigliamento.
E’ un miracolo non si sia ustionata dopo due settimane in uzbekistan in piena estate.
Nonostante qualche segno dell’età ancora una bella figliola.
Milanese ma vive a Londra da anni, mi racconta della sua passione per i viaggi.
Iniziamo a parlare dell’argomento e poterlo fare finalmente in italiano mi da un senso di rilassatezza.
Durante la conversazione esce fuori che le dispiace che questi posti si stiano occidentalizzando,
perdendo le tradizioni e il fascino che fino a poco tempo fa conservavano integralmente.
Le rispondo che ci sono comunque gli aspetti positivi e la condizione femminile è uno di questi.
Se poi il progresso arriva anche senza nessun esercito che esporti democrazia a suon di missili, beh meglio ancora.
Il discorso ci porta a parlare del Finnico e del suo viaggio:
a mio avviso non ha ancora dato un senso preciso a questo girovagare e forse per questo ha l’espressione un po scocciata,
mentre secondo lei ci sta che uno molli tutto e per un po vada dove lo portano gli eventi.
Delle due l’una: o io sono rimasto con la testa in occidente, o lei ha una visione da operetta del viaggio.
Scoprirò in breve tempo che la risposta giusta è la prima.
Decidiamo di mangiare alla locanda, insieme agli altri viaggiatori .
I Francesi sono partiti, ma in compenso sono arrivati altri ciclisti.
Passiamo la serata con due coppie (spagnoli e olandesi) di giramondo a pedali incontratisi lì per caso.
Arriverà anche il Finnico che, dopo una giornata dalla polizia, non ha risolto nulla per il visto.
E’ una serata piacevole e mi godo la fine dell’ultimo giorno da turista.
Mentre aspetto che il sonno venga,focalizzo meglio il pensiero che facevo sulla panchina la sera del mio arrivo.
Ci ho messo venti giorni ad arrivare qui. Ora ne ho dieci per tornare. Domani si va ad Ovest.




A colazione sono l’unico a sparasi due macchinette di caffè con la moka:
neanche l’italiana ormai londinese ne ha voluto, abituata all’ acqua sporca che lì passano per caffè.
La locanda ferve di preparativi di gente che va via.
Gli olandesi vanno via un po prima di me.
Il Finnico continua ad avere la sua aria malinconica mentre ci salutiamo abbracciandoci.
E mentre lo facciamo ho l’impressione che si sia rotto le palle seriamente di vagare da solo.





Ora, per tornare verso casa l’opzione più rapida sarebbe quella di rifare la stessa strada per risbucare in Kazakhstan nello stesso punto,
ripassare da Qulsary e rientrare in Russia da Astrakhan.
Mi incammino di buona lena in quella direzione convinto che la mia strada sarà quella.
I miei programmi vengono alterati per l’ennesima volta al primo posto di blocco in uscita da Samarcanda.
Appena fermato tiro fuori passaporto e documenti e inizio a chiacchierare con il poliziotto di turno che parla un buon inglese.
In tono cordiale mi chiede da dove sono entrato e anche da dove prevedo di uscire.
Gli dico di aver deciso stamattina di uscire dalla stessa frontiera di ingresso e lui cambia espressione.
Mi chiede cosa ho dichiarato in ingresso riguardo alla frontiera di uscita.
Gli rispondo di non aver dichiarato nulla.
“Wait a moment” mi dice mentre entra nell’ufficio con i miei documenti.
Ne riesce pochi minuti dopo dicendo che a Beyneu ho dichiarato che sarei uscito a Tashkent.
Di colpo con un flashback mi torna in mente la scena esatta:
quel giorno, all’ultimo controllo documenti insieme ai tedeschi del rally, in situazione concitata e caotica, il funzionario si ostinava a parlare in un pessimo inglese mentre io mi ostinavo a esibire un pessimo russo.
Quando gli ho detto che forse sarei andato a Tashkent credevo mi avesse risposto qualcosa del tipo
–“ Ci devi andare, è una bellissima città. Io vengo da lì” e non capivo la sua insistenza nel chiedermi la conferma sul fatto che ci sarei andato o meno.
Alla fine per tagliare corto gli avevo risposto che sì, ci sarei andato a vedere la sua splendida città.
In realtà mi stava chiedendo conferma che sarei uscito da lì e lui ha annotato questo sulla mia pratica di ingresso.
Chiedo al poliziotto che fare: se provarci lo stesso ad uscire da Nukus oppure non rischiare e andare da Tashkent.
A suo avviso è meglio fare come involontariamente dichiarato:
trovassi degli s*****i potrei correrei il rischio di elargire diverse mazzette o peggio ancora potrei finire con il tornare indietro verso Tashkent
con la concreta possibilità che i visti scadano uno dopo l’altro, ritrovandomi così clandestino.
Ringrazio per la solerzia nei controlli e inverto la marcia verso la direzione opposta.
Vado ancora verso Est.
A questo punto dovrò uscire da Chinaz, che è il posto di frontiera per i veicoli poco più a sud,
e percorrere le terribili (a detta di Samat)statali che in Kazakhstan avevo evitato per fare prima,
quindi passando da Aralsk e Aktobe per poi puntare verso la frontiera russa ad Astrakhan.
In realtà non mi dispiace affatto di quest’imprevisto e ho un’ottima scusa per fare il giro lungo.
L’unico problema è il poco tempo. E’ non è un problema da poco.

Attraverso i 200 km o poco più prima del confine godendomi per l’ultima volta profumi e colori di questo splendido paese.

















Intorno a mezzogiorno mi fermo in una piccola città per un caffè.
Preferisco un ristornate un po’ defilato nel tentativo di evitare le domande dei curiosi che oggi mi stresserebbero più del solito.
Il ristorante è addobbato per l’ora di pranzo e mi ricevono le figlie del proprietario che subito mi portano a fare la sua conoscenza.
Mi invita a sedermi con lui e iniziamo a chiacchierare.
Naman E’ secco, prossimo alla 60ina, con occhi e modi placidi.
Quando parla scandisce bene le parole con voce bassa ma ferma.
E mi ascolta attentamente quando parlo il mio russo da sopravvivenza, ripetendo le mie frasi con altre parole per confermarmi che ha capito.
Per questi suoi modi mi fa venire subito in mente mio padre, sebben Naman abbia più di vent’anni in meno.
Quando mi chiede, inevitabilmente, della mia famiglia mi sento già in confidenza quanto basta per confessargli che mi sento un po’ in colpa per il fatto che sto in giro a migliaia di km da casa invece di passare del tempo con mio padre ormai avanti con gli anni.
Lui mi risponde di non avere rimorsi perché sto vedendo il mondo e mio padre non può che essere contento di queste mie avventure.
Parla con parole semplici e con frasi essenziali ma cariche di sostanza.
Questo basta a farmi sentire meglio: come spesso accade è un perfetto sconosciuto ad alleviare la coscienza da rimorsi e dubbi.
Bevo il mio nescafè gentilmente offerto e altrettanto gentilmente declino l’invito di fermarmi per il pranzo vista la fretta che ormai mi è salita in corpo .
Lui sembra un po rattristarsi di questo, e anche io vorrei passare un po di tempo con lui. Fosse solo per la calma che mi infonde.
La foto con lui è una di quelle a cui tengo di più.



Altri controlli entrando nella regione di Tashkent e poco prima del confine vedo davanti a una chaykhana due XT 125 acchittate da viaggio con targa inglese.
Mi fermo chiedendo al tipo che cucina la carne all’esterno dove siano i proprietari delle moto.
Mi indica il cortile interno. Ci trovo due signori intorno alla 50ina,Nick e Kevin, che stanno lì a fare il Mongol Rally.
Oggi entrano anche loro in Kazakhstan per poi, a Shimkent, girare verso Almaty e proseguire in Mongolia.
E’ stato davvero un caso incontrarli, dato che sono stati fermi per 15 giorni a Bukhara in attesa della frizione di ricambio per la moto di Kevin .
Ci diamo appuntamento alla frontiera.
Li raggiungerò dopo aver consumato il mio pasto in compagnia di una bambina curiosa che la madre non ha smesso un minuto di cazziare perché stava a suo avviso disturbandomi.
Ed eccoci qua alla frontiera: il m*****a del Deserto e i Due Idioti all’ Estero (two idiots abroad è il nome del loro blog/sito).
Nell’attesa che aprano i cancelli facciamo meglio conoscenza, parlando delle rispettive moto e attrezzature e prendendoci per il culo a vicenda.
I ragazzotti sono simpatici e facciamo un bell’ incontro al vertice tra humor inglese e cazzoneria mediterranea.

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Oggi ho la conferma di quanto sia tosta la frontiera tra questi due stati.
Ci mettiamo quasi 5 ore tra attese, controlli e tentativi di estorsione.
Soprattutto sul lato kazako.
Il militare di turno ci fa aprire borse e valigie continuando a chiederci “Dov’è il kalashnikov?”
Quando gli indico la sacca contenente la tenda sgrana gli occhi e mi chiede “davvero? E tiralo fuori!”.
Gli direi che è proprio cazzone, mi limito a far notare a Kevin la posizione fragile che abbiamo in quel momento:
un idiota completamente ignorante e magari semianalfabeta potrebbe decidere di privarci della libertà per una battuta o la voglia di alzare due soldi.
Il fatto di essere in tre ci rende forti quando, uno ad uno, completiamo le pratiche di ingresso in un ufficio, accompagnati da un funzionario con la faccia da truffaldino che alla fine ci chiede dei soldi.
Altrimenti, dice, il computer non funziona e loro non trasmettono i dati alla polizia.
Questo dopo che già il funzionario preposto aveva messo i dovuti timbri sui documenti (ovviamente chiedendomi dei soldi, ma in maniera educata).
Stiamo insieme e non ci lasciamo mai soli e io per quel che posso faccio da interprete per loro.
Il Corrotto attacca bottone insistendo col tentativo d’estorsione che interrompe però quando gli dico che
sono fidanzato con la figlia del console italiano a Mosca.
E’ una palla clamorosa ma devo averla detta così bene che il Tipo mi guarda stupito dicendo
- “Allora sei ricco?”-
- “No, la mia fidanzata è ricca. Io sono solo bello.”-
Questo basta per convincerlo che forse è meglio lasciarci perdere.
L’ultima rottura di c***o ce la danno i militari intorno alle moto quando uno di loro, prima che andiamo via,
insiste col dire che è impossibile che non abbiamo contanti da dichiarare, dobbiamo tirar fuori i soldi.
Alla fine un superiore gli urla, dall’edificio degli uffici, di lasciar perdere e farci andare.
E cazzarola! Sono o non sono il genero del console?

Ci fermiamo subito dopo il cancello a cambiare soldi.
E’ una piccola e caotica kasbah a cielo aperto.
Veniamo immediatamente circondati da cambiavalute e astanti.
Appena cambiati i soldi sono io a mettere fretta agli inglesi per andarcene: lì c’è troppa gente e ci guardano come se fossimo quelli ricchi.
Si percepisce chiaramente che non siamo più in Uzbekistan e i soggetti intorno a noi hanno le pupille a forma di dollaro.
Loro convengono e andiamo via attraversando le due kilometriche file di TIR ai lati dello stretto rettilineo.
Mentre la attraverso ho l’impressione che quella coda sia una sorta di villaggio permanente di cui continuamente cambiano gli alloggi: gli autisti arrivano lì sfiancati da giorni di guida sulle strade Kazake e stanno lì ore, forse giorni, in attesa dell’apertura dei cancelli.
Vi si vede gente in ciabatte, scalza, in mutande, mentre si lava alla bell’e meglio.
Intravedo dietro i camion gruppi di camionisti che si radunano per accendere un fuoco e cucinare qualcosa.
Superate le colonne di veicoli la strada si perde nella steppa senza soluzione di continuità mentre il sole cala tingendo tutto di arancio,
come se ce ne fosse bisogno.

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Io sono contentissimo: finalmente ho trovato la mia piccola carovana ed è bello dopo tutta questa solitudine avere dei compagni di viaggio,
ancora più preziosi perché sappiamo già che sarà solo per pochi kilometri.

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Decidiamo di comprare un po’ di cibo al primo villaggio e di accamparci per la notte nella steppa lì vicino.
Io suggerisco delle zone alberate per ripararci dal sole.
Nick mi fa notare che se ci sono alberi c’è acqua e quindi zanzare.
Optiamo per un pascolo completamente sgombro a un km dalla statale.
E’ pieno di cacca di capra ma chi se ne fotte: è secca come pietra.



Montiamo le tende mentre il sole va giù e con il loro fornello iperspacchiometrico mettiamo insieme la carne di cavallo in scatola comprata poco fa con il riso in scatola al manzo che mi porto dietro da Beyneu.
Ne esce fuori un piatto buonissimo che mangiamo sotto le stelle, nel nulla, mentre cazzeggiamo e ci raccontiamo delle nostre vite.
Kevin ha una concessionaria di scooter e moto di piccola cilindrata mentre Nick fa un lavoro che non ho ben capito ma ha che fare con l’immobiliare.
Dice che per le leggi che ci stanno in Europa può farlo solo in Inghilterra.
Hanno entrambi moglie e figli e si stanno sparando questo rally di beneficenza con minime sponsorizzazioni.
Sono attrezzati bene senza dubbio, forse un po troppo carichi per i motori che hanno. Affidabili ma sempre 125.
Gli parlo del mio lavoro e del ritardo clamoroso che ho accumulato:
E’ il 22 Agosto e il 3 Settembre dovrei essere a Studio.
Di certo lo Studio non chiude senza di me, visto che siamo in 12 a lavorarci, ma non brillerei per affidabilità e mi seccherebbe molto.
Anche loro sono in ritardo mostruoso, 15 giorni, ma non hanno problemi.
Nick dice:
-“ non mi preoccupo, sono il capo. Ho uno staff che lavora per me.”
–“ Nick, io mi preoccupo: sono io lo staff!”
-“ oh, capisco, comunque dovresti farcela con un paio di giorni di ritardo”
-“magari!...”
Andiamo a dormire prestissimo, dopo un paio d’ore di buio.
Sappiamo che intorno a noi ci sono piccoli villaggi e centri abitati, ma dal punto in cui siamo non si vede nulla.
Ho montato la tenda senza il telo sopra, sia per il caldo sia per poter vedere il cielo attraverso la rete del camino.
La vacanza è finita e da domani inizia un lungo ritorno che sarà, già lo so, molto impegnativo.
Però non me ne fotte niente di studiare le tappe e le distanze per stasera.
So solo che ci sono migliaia di km tra me e la mia vera vita, e sono da fare in una decina di giorni.
Ma a questo ci penserò domani.
Ora mi godo questo cielo saturo di stelle e il silenzio assoluto che ci circonda.

 
14205644
14205644 Inviato: 18 Mar 2013 8:54
 

Quella foto finale è... 0510_inchino.gif 0510_inchino.gif 0510_inchino.gif 0510_inchino.gif 0510_inchino.gif 0510_inchino.gif 0510_inchino.gif


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14222987 Inviato: 25 Mar 2013 10:27
 

Che dire...
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14248194 Inviato: 3 Apr 2013 16:59
 

sono a bocca aperta...
 
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14261697 Inviato: 8 Apr 2013 18:38
 

davvero spettacolare il modo in cui narri la storia
 
14307149
14307149 Inviato: 25 Apr 2013 23:07
 

Complimenti per il tuo report !! Mi hai trasmesso l'emozione del tuo viaggio !!
 
14319259
14319259 Inviato: 30 Apr 2013 13:30
 

Grazie a voi per la pazienza... entro la settimana spero di andare avanti col racconto. icon_mrgreen.gif
 
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14326689 Inviato: 3 Mag 2013 1:58
 

e dai che inizio un altro capitolo.
Entro la fine della settimana dovrei completarlo.
poi un altro soltanto e basta co sta storia che nun ja faccio ppiù! icon_mrgreen.gif
 
14326690
14326690 Inviato: 3 Mag 2013 1:59
Oggetto: Capitolo 7_ Kazakhstan Atto II.Tabula Rasa Elettrificata
 

Capitolo 7
Kazakhstan Atto II_Tabula Rasa Elettrificata





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Mi sveglio che il sole ancora non si vede, ma già illumina il cielo quanto basta per farmi aprire gli occhi.
Contrariamente a quando mi sono addormentato il cielo è coperto e questo mi da la misura di come possa cambiare rapidamente il tempo da queste parti. Kevin sta smanettando sulle loro moto da un pezzo, rigirandole come biciclette per quanto sono leggere.



Orgoglioso della mia moka offro un caffè italiano ai miei compagni che gradiscono quello e pure il bis.
Questi ragazzi over 50 mi fanno una tremenda simpatia mentre mi parlano della preparazione che hanno fatto per il viaggio:
palestra, due settimane di addestramento militare, viaggiano con delle buste di cibo liofilizzato che chiamano “russian portions” .
Sono muniti di segnalatore satellitare SPOT , hanno qualcuno che gli cura gli aggiornamenti su twitter, facebook e sul loro blog.
Hanno un navigatore Garmin strafico, maglie con le protezioni e quant’altro. Me li prendo un po per il culo anche se mi sento un po’ sotto equipaggiato. Mentre parlano ho come l’impressione di stare con Boorman e Mc Gregor in Long Way Round.
Raccogliamo tende e bagagli mentre un pastore transita col suo gregge, provocandomi una fitta al cuore che non riesco a decifrare.










Dopo aver fatto benzina ci fermiamo a mangiare qualcosa mentre inizia a piovigginare.
I proprietari del posto sono davvero onorati di cotanti clienti e il ragazzo corre a mettere l’intrattenimento musicale che qui, come in tutto il Kazakhstan, consiste nella già citata tamarrissima dance del c***o.
Musica che gli faremo levare alla prima occasione, visto che sono le 9 di mattina e stiamo ancora più che rintronati.
Ci spariamo una colazione che praticamente è un pranzo per quanto è abbondante e carnivora.
Credo di aver bevuto almeno un litro di the, sperando nell’effetto della caffeina che a quanto pare scarseggia nelle loro miscele.
Siamo nella parte centrale del paese, decisamente più verde e popolata da gente senza dubbio più cordiale di quella incontrata a ovest.
E questa è la buona notizia.
Quella brutta , che mi getta per un attimo nello sconforto, è che con l’ultima frontiera siamo andati avanti di un’altra ora rispetto all’Uzbekistan: se questo è un ritorno, proprio non ci siamo .
Ripartiamo alla volta di Shymkent attraversando caotici villaggi e placide campagne, battendo una statale a 4 corsie dall’asfalto più che decente: la famigerata M32 che in questo tratto è molto veloce e tutto sommato ben tenuta.










Qui potrei correre un po, ma rallento sempre per aspettare gli Inglesi che, sulle loro motine cariche come muli, a 80kmh sono già a manetta.
Si scusano per il loro essere d’impiccio ma tanto durerà poco: dopo appena 150 km arriviamo a Shymkent dove le nostre strade si dividono.
Provo un magone non indifferente a lasciare i miei nuovi amici e proseguire da solo.
Di nuovo vorrei non dover subire la tirannia del tempo.
Ci salutiamo augurandoci il bene più sincero e promettendoci di rimanere in contatto per andare insieme da qualche parte prima o poi.



Il magone dura poco: la ricerca di una scheda sd per l’actioncam e di un apriscatole mi fanno dimenticare i romanticismi e mi rilanciano nella bestemmia quotidiana del viaggiatore solitario. Paradossalmente trovo subito la scheda, ma l’apriscatole risulta più difficile da reperire.
Ho un botto di scatolame con me e qui ‘ste c***o di linguette incorporate alle scatole non sono previste da nessun produttore.
Dopo aver fatto un po di show disegnandolo a penna prima e chiedendolo a voce dopo, decido che me ne fotto e in qualche modo farò. L’instant roadbook prevede di arrivare fino a Kizylorda per poi il giorno dopo raggiungere Aral e magari, dopo studiata un po la situazione, vedere se sia il caso di dormire vicino al lago prosciugato.
Ridimensiono rapidamente il piano appena mi rendo conto che poco dopo Shimkent la strada diventa un lungo rettilineo sterrato in procinto di ricevere l’asfalto.
Per ora è un grande cantiere e si usano le piste che corrono sui due lati e di volta in volta la attraversano.
Ogni tanto è possibile percorrere la strada nuova ma puntualmente bisogna ridiscendere sulla pista.
Tutto sommato il fondo è buono, abbastanza duro anche se sabbioso. Solo in alcuni punti, con chiazze di sabbia più fine,la paura di cadere si fa sentire forte.
Il vero fastidio è la polvere sollevata da auto e camion che si appiccica addosso e nei polmoni.

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Sarà un lungo pomeriggio di sterrati circondati da un paesaggio non molto diverso da quello uzbeko, con alberi e qualche corso d’acqua.
Gli incontri della giornata saranno soltanto tre.
Il primo, in un punto imprecisato prima di Turkistan, dove mi sono fermato per riposarmi dal vento e dalla polvere in una chaikhana per strada.
Tra tutta l’umanità del posto si è fermato a parlare con me un uomo sulla trentina col fare del piccolo boss del posto,
vestito inspiegabilmente di candido bianco in mezzo a tutta quella polvere, conferendo alla scena un che di surreale.
Parlando del mio viaggio rimane sorpreso dal fatto che possegga una tenda e la usi.
- “Ma è pericoloso dormire in tenda!”
- Perché pericoloso?
- Ci sono i banditi!
- Non ne ho visti ancora. Tu sei un Bandito?
- .....
- Dormo in tenda ma mai se sono da solo
- Ah bene. Dimmi… E’ un Rolex il tuo orologio?
(indicando con un gesto del mento il mio orologio in plasticaccia preso da decathlon a 10 euro)
- Un Rolex? Che dici? È un brutto orologio made in china!
- E allora se non è un rolex regalamelo!
- E perché?
- Souvenir!
Lo guardo fisso e incredulo per una manciata di secondi, dopodiché gli propongo uno scambio:
- Ho bisogno di un apriscatole. Trovami un apriscatole e ti do il mio orologio.
- Un apriscatole? Non so dove trovarlo!
- Neanche io! Allora niente orologio per te!
Finisco il mio the dopo aver spiazzato il mio interlocutore che continua a parlare di me con una ragazza del posto,
la quale a sua volta continua a guardarmi sorridendomi e arrossendo sempre di più.
Prima che comincino anche qui a propormi giovani spose volo via verso Turkistan, dove mi fermo al volo giusto per vedere un mausoleo che è l’unica opera di architettura storica visibile in Kazakhstan centro-occidentale.



Qui lo stupore per la gentilezza della custode del mausoleo viene subito demolita dall’ accoglienza della donna all’ingresso dei cessi pubblici che, appena mi vede entrare, mi dice secca “PAGA!” .
Io alzo le mani in segno di resa e pago per il primo cesso vero dopo giorni: alla turca ma sempre cesso.
Bello, piastrellato, pulito e profumato. Una vera goduria!
Subito dopo Turkistan vengo fermato dagli sbirri su un rettilineo in mezzo al verde,
nulla di costruito intorno, mentre vado a non più di una 60ina all’ora.



Sempre la stessa storia: anche se non ci sono i cartelli e non correvi, comunque lo vedi che ho i tuoi documenti in mano, per cui dammi i soldi.
Gli sbirri sono in due, e uno sembra rendersi meglio conto del fatto che non ho una lira per davvero.
Non ricordo la cifra esatta che mi viene chiesta, ma corrisponde a tutto quello che ho in contanti di moneta locale.
Da c******e qual sono gli propongo addirittura di non prendersi tutto ma di darmi il resto.
Il tipo mi risponde “Antonio, non sono un bancomat!” .
Io lì mi incazzo e alzo la voce:
“Io sono Italiano , ma non mi chiamo Berlusconi! Non sono ricco e non ho fatto niente! Dammi i miei documenti e fammi andare via!Se ti do tutti i soldi che ho, poi cosa faccio?”
lo sbirro buono capisce e quasi impone a quello s*****o di ridarmi i documenti.
Ringalluzzito dal successo contro gli s*****i in divisa riprendo la strada e decido di fermarmi al tramonto in un paesino nel nulla di nome Birlik (almeno Google Earth dice così).
Faccio un giro per vedere se esiste una locanda o qualcosa di simile ma non trovo nulla.
Decido di accamparmi poco fuori dal paese ma questa scelta non mi farà stare tranquillo:
sono molto visibile e tutti in quella desolazione avranno sentito il rombo della moto.
E infatti mentre sto lì a riscaldare la carne in scatola arrivano dei bambini del villaggio a urlarmi qualcosa da lontano.
Hanno timore ad avvicinarsi allo straniero in moto e io faccio di tutto per non dargli corda.
Non ho voglia di parlare con nessuno, men che meno di dare adito a preoccupazioni di genitori o fratelli maggiori che possano scaturire in spedizioni punitive.
E neppure alimentare racconti di bambino su presunte ricchezze di un viaggiatore straniero,
racconti che qualcuno potrebbe poi voler verificare.
Mi rendo conto che possa sembrare esagerato pensare queste cose, ma essendo da solo ogni precauzione è valida,
purchè non diventi paranoia.
Starò con le orecchie tese fino a quando, verso mezzanotte,
il bar del paese non spegnerà la sua tamarrissima techno che copre ogni rumore nella notte.





I più attenti tra voi si staranno chiedendo come ho fatto ad aprire lo scatolame senza apriscatole.
Bastava davvero poco: ho usato il coltellino a serramanico comprato l’anno prima al mercatino delle pulci a Tbilisi.
Niente di eccezionale: un coltellino lungo 4 dita con una buona punta,di cui tengo la lama sempre affilata, e la scatola piano piano si è aperta. ‘Nto culu agli svizzeri e ai loro coltellini multiuso, nonché ai kazaki e ai loro produttori di carne in scatola.
Soddisfatto di quest’altro passo avanti, ma la carne della sera prima era più buona.
Sarà stata la compagnia?

Di nuovo sveglia all’alba. Il caffè della moka è buono, ma bevuto nel nulla è ancora meglio.


Mentre mi stiracchio mi dico che l’obbiettivo del giorno è raggiungere Aral, senza se e senza ma.



Il fondo non era proprio buono per dormire, tappezzato di ciuffi di sterpaglia dura,
ma lo stesso mi sento riposato e pronto a farmi questi 700km.
Il fatto di sapere che fino alla meta non c’è praticamente nulla, insieme alla strada che trovo per i primi 200 km,
mi conforta sulla fattibilità del programma.

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Fino a Kizylorda il paesaggio si mantiene dolce e la temperatura abbastanza mite.
Il manto stradale è tutto sommato buono, anche se la sabbia ai bordi mi lascia intendere che poco lontano da lì non c’è molta vegetazione. Anche le deviazioni su sterrati laterali sono molto meno rispetto al giorno prima.
Comincio quasi a convincermi che tutte le storie sentite su questa statale siano esagerazioni di viaggiatori sboroni
che non hanno mai fatto una SA-RC o una SS 106, oppure che negli ultimi anni sia iniziata una politica di potenziamento delle infrastrutture. Addirittura dopo Kizylorda la strada è circondata da affioramenti d’acqua su cui cresce vegetazione spontanea dando vita a uno scenario che ricorda la steppa alle porte della Calmucchia.



Manco il tempo di pensarlo seriamente che si ricomincia con il saliscendi dalla carreggiata:
la politica di potenziamento delle infrastrutture è in atto, sì. Ma sono proprio all’inizio.
Per di più passate le prime ore del mattino la temperatura è salita notevolmente e si schiatta letteralmente di caldo.
Come e più del giorno prima mi ritrovo su sterrati dritti e abbastanza veloci mentre la polvere mi si attacca addosso impastandosi col sudore. Il fatto di non lavarmi da tre giorni non mi da fastidio più di tanto. La cosa fastidiosa è soltanto il caldo.
E l’unico modo per non sentirlo è andare avanti, cercando di sorpassare prima possibile i veicoli davanti a me o fermandomi per far andare avanti chi mi sorpassa.

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Ci si mette anche il meteo, trasformando un dolce mattino d’estate in un teso pomeriggio di vento sabbioso.
Che spinge parecchio forte facendo inclinare di molto la moto.
Non capisco se il sole vada via per le nuvole o per la sabbia mentre arrivo in un enorme agglomerato urbano che secondo il navigatore si chiama Dzhusaly dopo aver attraversato un ripido cavalcavia.
Il paesaggio è veramente desolato con costruzioni di epoca sovietica ingrigite dal tempo e dalla sabbia che batte sempre più forte.
Mi fermo in una Chaikhana dall’evocativo nome Oasis davanti alla quale sostano parecchi TIR e camion di qualsiasi epoca del ‘900.

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La gente lì intorno, perlopiù camionisti, mi guardano incuriositi mentre entro nella casupola.
C’è anche un po’ di gente che viaggia in pullman, in sosta per il pranzo.
Dentro, una caciara inimmaginabile.
Metà dell’ambiente, a sinistra, è occupata dalla pedana con i tappeti e i tavoli bassi.
A destra c’è un piccolo banco con la cassa e la vendita di bottiglie, pane, sigarette e cose simili dove tutti si accalcano come fossero broker a Wall Street, cercando di attirare l’attenzione della cassiera, una donna sulla 50ina discretamente in carne dai tratti spiccatamente slavi e con una punta di cattiveria negli occhi.
Sembra pronta a zompare oltre il banco e con le zanne fare strazio di quella plebaglia urlante e maleducata.
In asse con l’ingresso, un corridoio che da sulla cucina davanti alla cui porta un altro gruppo di persone aspetta di ricevere quanto ordinato. In tutto questo io mi sento parecchio smarrito: mi guardo intorno imbambolato senza capire cosa si dica tutta quest’umanità vociante ed affamata.
Vago per un tempo indeterminato nei 2 metri quadri liberi cercando di capire cosa devo fare.
Esco dal mio torpore quando uno dei ragazzi in fila alla cucina mi chiede se ho bisogno di aiuto e sì: mi puoi dire come funziona?
E allora aspetto che si plachi la calca alla cassa e con calma ordino da mangiare alla signora la quale rinfodera la punta di cattiveria nello sguardo e inizia a darmi ascolto con calma, premurandosi sempre che mi arrivi tutto e tutto sia ok.
Anche gli altri, i camionisti , si accorgono di me e scambiamo qualche chiacchiera.
Mi invitano a bere con loro della vodka ma rifiuto facendo il gesto di impugnare un manubrio e non insistono.
Quando si fa un viaggio di questo tipo la gente di solito ti si appiccica addosso per la curiosità, e spesso succede che ti infastidiscano con le loro domande sentite decine di altre volte o insistendo per bere insieme o spingendosi fino al contatto fisico.
I camionisti no.
Loro conoscono la dimensione della guida per ore nel nulla, da soli con i propri pensieri.
E’ la loro dimensione, il loro lavoro. Anche se sanno che io sono in vacanza, conoscono e rispettano la mia stanchezza.
E io rispetto la loro.
Mentre sto seduto a uno dei tavoli fuori dalla pedana, li osservo entrare e uscire:
quasi tutti sono a piedi nudi e sembrano non avere caviglie per quanto le hanno gonfie.
Migliaia di km seduti a controllare un volante, due leve del cambio e tre pedali.
E oltre il parabrezza un mondo fatto di vento che colora le cose con la sabbia.
I camionisti mi rispettano, io rispetto i camionisti.

La gran tempesta che sembrava stesse per arrivare pare abbia deciso di prendersela comoda.
Saluto il capannello di viaggiatori su autoarticolato intorno alla moto e continuo sulla M32.
Mi rendo conto dopo poche decine di km che la strada va dritta verso il nulla assoluto e il serbatoio segna metà.
Sulla sinistra vedo una chaikhana dove forse qualcuno può vendermi della benzina.
Ci giro intorno ma nulla, non c’è nessuno: perché non ho fatto benzina in città?
Faccio segno a un grosso SUV che attraversa la pista sterrata lì vicino di fermarsi.
E’ chiaramente un occidentale e appena inizio parlare in inglese mi dice: “ Ammazza, sei arrivato fino a qui co ‘a moto?”
E’ un ingegnere romano che lavora per la Salini S.p.A., la società italiana che sta costruendo la nuova M32.
Mi chiede scusa per i lavori non ancora completati.
Mi conferma che da dove stiamo ora fino ad Aral non c’è assolutamente nulla se non Baykonur e qualche villaggetto sperduto, e la prima benzina sta a un centinaio di km.
Lo saluto rapidamente per correre verso la moto alla quale si sono avvicinati tre tipi scesi da una bmw serie 3 degli anni ’80.
Uno dei Tipi è mbriaco perso e mi chiede con insistenza di fargli fare un giro.
Rispondo a c***o alle loro domande confuse mentre metto in moto tenendo d’occhio le chiavi affinchè le sue mani impiccione non le raggiungano.
Scappo sgommando letteralmente, lasciando una nuvola di polvere che mi nasconde i Fracidi nello specchietto.
Sono teso.
Sono inquieto.



Una fretta del diavolo si è impossessata di me e sento che c’è qualcosa di sbagliato in questa giornata.
La sensazione si amplifica man mano che vado avanti avvicinandomi al cosmodromo di Baykonur.



Faccio benzina poco prima di raggiungerlo in una cittadina che pare essere uno snodo dei principali elettrodotti del paese.
Scoprirò a casa, guardando le tracce del navigatore, che quella era proprio la cittadina del cosmodromo.
Riempio all’orlo il serbatoio in questo distributore dimenticato da Dio circondato dal nulla più desolante, mentre il vento incalza e la sabbia nasconde il cielo tingendolo di giallo.
Nulla di diverso rispetto a quanto visto finora, se non fosse per il fatto che la strada prosegue attraverso una selva di tralicci dell’alta tensione il cui ronzio si mescola al vento .

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E’ un paesaggio davvero postatomico e la cosa che più mi impressiona è la forza bruta della natura a confronto con la fredda tecnologia umana.
Anche se gli esperimenti atomici venivano condotti lontano da qui, questa zona ha l’aspetto di un poligono nucleare.
Mi pento di non aver fatto una foto, perché a dirlo non rende l’idea.

Il pomeriggio trascorre tosto e lentissimo, e questa maledetta strada sembra non finire mai.
Ogni volta che trovo uno slargo tra i cumuli di sabbia posti a chiusura sull’asfalto nuovo mi ci infilo,
ma appena percorse poche centinaia di metri sono costretto a ridiscendere sulla pista perché la barriera è invalicabile.
Per giunta siamo in pieno deserto, quindi per andare dalla pista sterrata al rilevato stradale, distanti tra loro intorno al centinaio di metri in alcuni punti, bisogna attraversare un fondo di sabbia finissima, spesso non battuto se non dalle ruote dei fuoristrada.
E ho una profonda e genuina paura di perdere il controllo dell’anteriore o peggio di insabbiarmi, visto il peso della moto.
Oltretutto il battistrada comincia ad appiattirsi e comincio ad avere poca aderenza su sabbia e terra.
Fortunatamente la tempesta vera e propria non arriva.
Il vento ha deciso di graziarmi senza però rinunciare a rompermi le palle fino a ben oltre il cosmodromo, che scorgo in lontananza, inconfondibile per le sue antenne paraboliche.



Intorno a me solo cammelli e desolazione per lunghe centinaia di km.



E carovane di TIR. Mangio sabbia quando respiro, fumo sabbia quando mi fermo a fumare.



In un punto imprecisato , nel saliscendi di una deviazione, dalla polvere appaiono come fantasmi in direzione contraria tre motociclisti con pezzi degli anni 80.
Mi salutano ma non si fermano.
Intravedo giusto i loro stivaloni da cross. Uno di loro ha lunghi dreadlocks biondi. E questo mi innervosisce molto.
Voglio arrivare ad Aral prima che faccia buio anche perché dei polacchi incontrati all’inizio del pomeriggio, prima della sosta,
mi hanno detto di aver incrociato tre motociclisti italiani diretti ad Aral poco prima di me.
E da quel momento mi è presa la smania di raggiungere un branco a cui aggregarmi, un gruppo che mi dia un minimo di appoggio morale, qualcuno che abbia il mio stesso obiettivo: quello di tornare a casa senza sfracellarsi o insabbiarsi da qualche parte e
che all’occorrenza mi aiuti a evitare cose brutte.
Ma non è così facile guadagnare strada: le operazioni di saliscendi sono lunghe e spesso devo ritornare indietro a cercare un punto dove la sabbia sia più compatta.
Tanto che ad un certo punto me ne fotto dell’asfalto e provo a fare solo la pista.
Ma è durissima e sconnessa, oltre che piena di camion. Molti camionisti dalle loro cabine mi urlano di usare l’asfalto.

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Verso l’imbrunire , calato il vento, sono dalle parti di Aral.
Oltre al cartello me lo dice anche il verde che ricomincia di tanto in tanto ad apparire sui rilievi per poi farsi inghiottire dal deserto.





La strada sembra buona per qualche decina di km ma poi si ricomincia col sali e scendi.
Ormai mi mancano una 60ina di km e sono stradeciso ad arrivare a destinazione.
Potrei anche fermarmi con la tenda lì intorno, ma è ormai questione di principio.
Allora risalgo sull’asfalto e do di gas.
Vado spedito.
L’asfalto è nuovo di zecca, solo qualche macchia o cumuletto di sabbia.
Eccone uno piccolo davanti a me.
Sembra piccolo: il parabrezza è sporco e non vedo che quel cumulo di sabbia forma due dossi di una certa consistenza.
Me ne accorgo mezzo secondo prima, quando è troppo tardi.
Non serve a nulla tirare il peso indietro: Sofia salta ma il posteriore , stracarico, va più in alto di parecchio.
Per il peso e il mono precaricato quasi al massimo inizia a rimbalzare:
scalcia letteralmente come un cavallo imbizzarrito, rimbalzando a destra e sinistra per tre volte.
Di colpo la prospettiva si abbassa e corro alla stessa velocità ma vicinissimo all’asfalto,
guardando dritto negli scarichi della moto alla mia sinistra.
Poi Sofia si gira facendo perno sul manubrio e mi guarda lei dritta negli occhi.
Strisciamo per una buona decina di metri e un paio di secondi che sembrano un’eternità.
Il primo istinto è quello di alzarmi immediatamente, e ci riesco.
Sto in piedi e posso camminare. La cosa principale è ok.
Soltanto mi brucia il ginocchio sinistro, lo guardo e vedo un buco niente male sul pantalone.
Ancora sento solo un certo fastidio ma so che tra poco farà un male cane.
Ho il cuore a mille e mi sento decisamente confuso.
Provo a rialzare Sofia ma capisco subito che non posso farcela da solo.
Mi guardo intorno e vedo che sulla pista sterrata, in direzione contraria, arriva una motina piccola.
Mi sbraccio a fare segni. Mi vede e piano piano mi raggiunge una yamaha 250.
Il russo alla guida non parla inglese e io di colpo non parlo più quel poco di russo che ho imparato e messo in pratica in questi giorni. Completamente rimosso.
Tiriamo su la moto che pare non essersi fatta nulla e, da brava compagna di viaggio, si accende al primo colpo per tranquillizzarmi.
Alexei pare invece più preoccupato per la mia gamba.
Mi chiede di sollevare il pantalone e quando tiro su mi lancia un’ occhiataccia e mi cazzia (in russo) mostrandomi le sue ginocchiere.
E sì… ricordo ancora la scena nel negozio a Roma: avevo in mano due ginocchiere belle toste e non le ho prese perché ero lì per comprare ricambi per il viaggio, ripromettendomi di passarci il giorno dopo, cosa che non ho più fatto.
Alexei mi cazzia forte e fa bene.
Immagino che se ci fosse stata Alexandra ora mi starebbe dicendo che sono un cazzone sfoggiando uno dei suoi sorrisi mentadent, mentre mi mostra i suoi stivali blindati da cross .
In effetti il ginocchio non ha proprio un bell’aspetto: ci sono atterrato sopra con tutto il peso e la prima parte della strisciata l’ho fatta su di esso, prima di girarmi e strisciare col fianco destro e il gomito sinistro per evitare di incastrare la gamba sotto la moto.
L’ho praticamente pelato come una patata sbucciata male e si vedono tutti gli strati della pelle e della carne viva come una sezione di un pezzo meccanico: un bollo poco più grande di 2 euro profondo che più non si può.
L’asfalto nuovo di pacca gli si è appiccicato sopra insieme a un bel po di pietruzze e sabbia di varia pezzatura.
Gronda sangue e sta iniziando a gonfiarsi tanto che la rotula perde di definizione rispetto al resto della gamba.
Alexei tira fuori le sue bende e garze sterili e la sua acqua ossigenata.
Mi fa pulire da me la ferita dopo averla bene innaffiata. Saggia mossa perché a strofinarla con la garza fa davvero male.
Poi esegue una fasciatura da manuale, lasciandomi un rotolo di bende e un paio di pacchi di garza da portare con me.
Capisco la sua perizia nelle medicazioni quando mi dice che è poliziotto in pensione (a 42 anni).
Suppongo l’abbiano congedato per infermità mentale e mi convinco non possa essere altrimenti,
dato che dopo avermi medicato mi saluta proseguendo per Baykonur, che dista buoni 150 km di quella stradaccia e sta facendo buio.
Così com'è comparso se ne va. Provvidenza o botta di culo? vai a capire!...



Io invece mi rincammino per Aral con addosso una stanchezza ormai conclamata dalla caduta, un ginocchio fuori uso e buona parte del corpo discretamente dolorante.
Faccio i 60 km rimanenti di saliscendi dalle piste con l’entusiasmo di un cane bastonato e raggiungo Aral che ormai è buio pesto.
E posso affermare senza tema d’essere smentito che si tratta davvero di un posto di m***a.



E’ la prima serata quando arrivo, quella in cui i giovanotti locali escono:
chi con la ragazza -e allora sta più tranquillo e appagato- chi da single con gli amici e allora ha da sfogare tutta la frustrazione derivante dal passare l’adolescenza in un buco sperduto nel deserto senza un c***o di costruttivo da fare.
Da subito la gioventù locale si dimostra assolutamente inospitale, con gente che mi urla dalle auto, soprattutto vecchie Lada truccate, con luci allo xeno, vetri oscurati e pompate di subwoofer, che mi sorpassano a un centimetro.
Nessuno vuole darmi indicazioni per raggiungere un albergo, fino a quando non chiedo a dei ragazzini in bicicletta che sono felicissimi di portarmi all’hotel vicino la stazione, e lo fanno facendomi passare per vicoletti e stradine secondarie.
Sono stupiti del mio russo e sfrutto la mia posizione da avventuriero carismatico per esortarli a studiare, così da grandi conosceranno le lingue e anche loro potranno vedere il mondo.
Ma la cosa che più li affascina è la moto, per cui continuano a fare sgommate e derapate davanti all’albergo fino a quando non mi sistemo.
Il mio tentativo da educatore è stroncato sul nascere.
L’albergo fa letteralmente schifo: L’intonaco della reception è scrostato in molti punti, i muri sono sporchi e non vedono un pennello o una spatola di stucco da almeno trent’anni.
La signora della reception sta a guardare una telenovela in una stanza laterale.
Ci mettiamo a contrattare per il prezzo e pare completamente indifferente al mio status di miracolato della strada.
Non riesco a scendere sotto i 25 (!) euri per una camera che so già sarà da schifo.
Una vecchia mi accompagna nella mia reale stanza, che sta al secondo piano.
Saliamo usando le scale e ogni gradino è per me una bestemmia.
La stanza è davvero vecchia, con gli intonaci scrostati e la moquette sporca e bucata in diversi punti.
C’è un bagno con i tubi che perdono e la vasca arrugginita, come i tubi del resto.
Le lenzuola sembrano comunque decenti, ma dormirò sopra il sacco a pelo aperto su di esse.
La vera chicca è il chiavistello per chiudere dall’interno la porta della camera.
Torno di sotto per andare a mettere la moto nel garage che scopro essere un cortile appartenente a una famiglia che abita li di fronte.
La stessa vecchia mi porta da loro e ci riceve un altro vecchio che, a petto nudo coi soli pantaloni di una cosa che pare essere un pigiama, mi farfuglia il prezzo e la posizione da occupare. Il cortile è pieno zeppo di fuoristrada tedeschi e francesi e sistemiamo la moto in modo tale da non intralciare le manovre di questi. Cosa abbastanza difficile visto il caos che regna in quello spiazzo, oltre all' oggettiva difficoltà di farlo con una gamba sola .
Non ricordo la cifra pattuita, fatto sta che do un pezzo piu grande e mi viene detto che il resto l’avrei preso l’indomani mattina.
Tutte queste operazioni, la calma da mantenere e la diplomazia da sfoderare mi pesano particolarmente.
Se non avessi avuto l’incidente avrei fatto un’altra notte di wild camping senza vedere nessuno ma ho bisogno di un posto pulito (!) per stanotte.
Mi incazzerei pure ma in questo momento sono troppo sfatto per protestare.
Vado a mangiare in un posto lì di fronte.
Sono l’unico in questa sala ristorante al piano terra infestata dalle mosche.
Di sopra c’è musica dance a palla e di continuo entrano signorine e giovanotti tirati pacchianamente a lucido.
Nessuno sembra fare caso allo straniero, anche quando lo straniero va fuori a fumare vicino ai giovanotti fieri di accompagnare le signorine che al piano di sopra cinguettano e fanno caciara.
Meglio così, perché non ho nessuna voglia di socializzare.
Ho l’impressione di guardare tutti di traverso. E ne ho motivo.
Mando un sms sintetico ma dettagliato al Capo dello Studio spiegandogli la situazione e prevedendo di dover rallentare l’andatura.
Mando un sms alla dolce metà ora in giro per l’Amazzonia rassicurandola del fatto che sto bene e che la moto cammina.
A mia sorella scrivo tutto ok. Nessuno risponde tranne mia sorella.
Vado a letto dolorante dopo essermi sciacquato a pezzi per levare il grosso di tre giorni di polvere,
ma con scarsi risultati visto il filino d’acqua che esce dalla doccia.




L’indomani mattina mi sveglio con calma e per prima cosa vedo di procurarmi un caffè.
Trovo solo un nescafè al latte in un posto dietro l’angolo dove la ragazza di turno mi guarda in cagnesco e lava il pavimento con la varecchina mentre provo a mangiare qualcosa.
Vado in una farmacia lì di fronte per comprare acqua ossigenata e bende.
Il farmacista è molto scortese e ancor più di lui un altro cliente che mi supera nella fila pur vedendomi zoppicare di brutto.
Sarà il sole che mette tutto in evidenza, ma di giorno questa città è ancora più squallida.
Tutti sembrano immersi in un loro microcosmo personale fatto di rabbia e frustrazione.
Penso non sia dovuto al solo fatto di vivere in un deserto: ho attraversato km di desolazione e bene o male ho sempre incontrato gente ospitale e accogliente, chi più chi meno.
Mi viene da pensare che la rabbia sia dovuta al fatto che queste aree siano diventate inospitali per mano dell’uomo da pochi decenni.
Vivere a ridosso di un lago che si prosciuga, con le navi incagliate nella sabbia arida e un economia svanita come la stessa acqua del lago, mentre tuo nonno ti racconta di pascoli verdi e pescherecci che arrivavano carichi al porto, non può che generare frustrazione, odio per gli altri e voglia di fuga. Fuga di fatto inattuabile perché non c’è modo di fare soldi per andare via.
E’ un cane che si morde la coda.
Cosa volete che gliene fotta a loro di un turista straniero che si permette il vezzo di arrivare fin qui in moto a scimmiottare la loro catastrofe? E secondo me hanno pure ragione, per inciso.
Se la politica del governo tendesse a spingere sul turismo della catastrofe, educando la gente del posto a raccontare la storia ai turisti e investendo in strutture ricettive, allora sarebbe diverso.
Ma da quello che ho visto il potere tende a non parlare di questa zona.
Negli stessi opuscoli distribuiti al consolato sono descritti diversi percorsi, ma in nessuna pagina si parla del lago d’ Aral.
Ricordo che lo stesso Samat, mentre mi spiegavano la strada per arrivarci da Qulsary, mi disse:
"la domanda è: perchè vuoi andare ad Aral?"
Fin quando verrà vissuta come una vergogna non credo potranno essere felici di vedere occidentali su Jeep e enduro scorazzare e fare foto alle navi arenate nel deserto.

Intanto il turista straniero ha colto i segni che il destino gli ha mandato.
Decido di lasciar perdere ‘sto c***o di cimitero delle navi:
due volte ho deciso di andarci e la prima sono rimasto insabbiato nel deserto, mentre la seconda mi sono cappottato sull’ asfalto nel nulla.
Ed entrambe le volte ho avuto un culo sovrumano a cavarmela.
Qualcuno lassù mi sta dicendo di non andarci.
E non ci andrò.
Vado piuttosto a cambiarmi la medicazione in camera.
Cerco di ripetere la fasciatura fatta da Alexei e al secondo tentativo più o meno ci riesco. Il ginocchio è gonfio come un pompelmo e la ferita è profonda ma sono ottimista: ha un buon colore e penso che col vento sulla moto si asciugherà meglio.
Porto giù i bagagli e riprendo la moto dal cortile senza ricevere resto ma me ne fotto di loro e dei loro pidocchi.
Prima di caricare e partire però smonto quel maledetto cupolino della Puig, troppo alto per me.
Ancora più alto considerando l’abbassamento del posteriore dovuto al carico extra.
Con la luce del sole e la mente riposata controllo meglio i danni alla moto e ho la conferma che praticamente non ce ne sono:
i paracolpi in plastica sul serbatoio hanno funzionato alla grande, così come i paramani (quelli originali a cui non davo una lira)
che hanno salvato leve e manopole.
Buona parte del colpo l’ha assorbito la valigia sinistra che ha fatto anche da pattino per la scivolata.
Questa, a parte l’abrasione sullo spigolo più esposto e una inevitabile ammaccatura sul lato interno all'altezza del telaio,
non ha risentito più di tanto dell’urto.
Ci metto un po a levare il cupolino e a caricare i bagagli in modo più equilibrato, anche per il nervosismo causatomi da due adulti del posto che si sono messi lì a farmi le solite domande del c***o.
Unica cosa utile che mi dicono è che nel giro di 200 km la strada diventa perfetta fino ad Aktobe.
Alla fine riesco a sistemare tutto e finalmente via da questo posto di m***a.
Il navigatore mi fa fare un giro panoramico della città prima di indirizzarmi sulla M32.
Ovunque soltanto casette basse e infrastrutture fatiscenti abitate da gente che pensa spudoratamente ai c***i suoi.
Sì… decisamente un posto di m***a. Riattraverso la porta coi leoni, simboleggiante non si sa quale fasto, e sono di nuovo sulla M32.









Mi fermerò entro una 50ina di km a pranzare in un posto sperduto sulla strada dove comincerò a chiedermi se sono io fuori dal mondo o sono loro strani: Chiedo info a dei locali che telefonano a un italiano della Salini per darmi conferma che la strada sarà buona entro un centinaio di km premurandosi in maniera davvero eccessiva e quasi invadente di farmi avere quest’informazione, andando poi via senza salutarmi.
La ragazza al banco mi sorride, è incuriosita dal mio orecchino, cerca di attaccare bottone come può. Ma alla fine mi tratta male quando arriva il momento di pagare.
Rifiuto di capire. Ho altro a cui pensare.
Mando un altro sms al capo per avere conferma della ricezione ma nessuna risposta.
Ormai ho deciso che non forzerò la mano, ma preferirei avere conferma da parte sua.
Con un sms dico a mia sorella quanto accaduto e la rassicuro che funzioniamo sia io che Sofia.
Mi risponde che mi vuole bene.
Le rispondo che anch’io le voglio bene.
Ed è la prima volta che ce lo diciamo.
Con un sms a 10mila km di distanza.
Alle venerande età di 40 anni io e 50 lei.
La morosa non risponde ancora. La mia scheda deve avere problemi a mandare sms in Ecuador.
E’ simpatico il fatto che mentre io mi cappotto nelle lande kazake, lei si perde intorno a un lago dentro un cratere vulcanico.
Sarà una guida locale a recuperare lei e la sua amica sul calar del sole.

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Per i primi km il paesaggio è ancora desertico e la strada sterrata e piena di camion però man mano che risalgo verso nord ovest il paesaggio si fa più verde e i cammelli lasciano il posto a mandrie di cavalli e bovini che pascolano liberamente e fuggono spaventati al mio passaggio.




Spesso intravedo falconi dominare in volo la sconfinata pianura e mi sento parte anch’io dell’ecosistema, tutt’ uno con cavalli, rapaci e camionisti.
La cosa che più ricordo di questi giorni è il cielo: qui sembra più grande, l’azzurro è purissimo e le nuvole vi si stagliano bianche molto più nitidamente che da noi.





Sulla sinistra vedo in lontananza i rilievi montuosi che attraverserei se prendessi la M26 come avevo pensato di fare,
ma alcuni camionisti in una chaikhana mi dicono che la strada è sterrata e non ci sono molti centri abitati.
Decido di ascoltarli e di farmi l’asfalto, viste le condizioni della gamba che di fatto non riesco a caricare.
A parte queste basse montagne non c’è nient’altro a sporcare l’orizzonte piatto e verde.





Io mi sento ormai in pace: stremato, con un ginocchio fuori uso che fa malissimo, sporco e appiccicoso.
Ma in pace e con una sensazione addosso simile alla serenità.
Non posso non pensare all’assurdità di correre per gli impegni che mi aspettano a 8000 km di distanza mentre sto vivendo il sogno degli ultimi anni, ma riesco a guardare la cosa con il dovuto distacco.
Non è il primo viaggio in solitaria e fuori dall’Europa, ma sicuramente è il più difficile fatto finora.
Ormai ci sono dentro: non è più una vacanza. Adesso è la vita: ritorna la sensazione provata in Russia, il giorno che incontrai Pavel.
Potrei fare questa vita per tanto tempo. Non è una vacanza propriamente detta: è più una messa alla prova sui propri limiti e possibilità.
Che dopo un po di tempo diventa l’unico modo possibile e vero di conoscere il mondo.
Viaggiare non tanto per vedere cose ma per incontrare gente.
Alla ricerca di storie da farmi raccontare che mi lascino la voglia di raccontarle ad altri.
Farmi lasciare un segno dentro dagli sguardi e dalle parole e dai gesti.
Potrei farlo, vorrei farlo.
Potrei benissimo tornare indietro verso Shimkent, regolarizzare la situazione del visto prolungandolo e lavorare in qualche modo.
Potrei continuare verso est, superare la Mongolia e arrivare a Magadan.
Potrei ridiscendere verso Vladivostok e da lì imbarcarmi per il Giappone.
Potrei fare tante cose.
Ma non è mio costume mollare tutto senza preavviso.
Ho impegni di lavoro da mantenere, una casa in affitto con un amico.
E poi ci sono gli affetti.
E sono quelli la vera catena che ci imprigiona alle nostre vite.
L’unico motivo per cui non mollare tutto e partire alla scoperta di questa piccola sfera nell’universo.
In questo pomeriggio passato nella landa desolata più bella che abbia visto finora prendo consapevolezza del fatto che questa per me non è una scusa.
Per arrivare a questo distacco dalla mia vita ufficiale è stato necessario cappottarmi a 100 all’ora in un deserto.
L’essere umano è proprio cazzone a volte!

Anche l’arrivo del tramonto col calare del livello di benzina non mi agita più di tanto.



Trovo un distributore in una zona umida infestata dalle zanzare a un centinaio di km dalla prima vera città che ormai è buio.
Chiedo se ci sia un posto per dormire da quelle parti ma niente: mi tocca arrivare a Khromtau.
Se non fossi acciaccato dormirei anche in tenda, ma voglio controllare la ferita e disinfettarla.
Negli ultimi km l’asfalto perfetto è interamente coperto da brecciolino finissimo che, considerando le mie condizioni, mi risulta non poco impegnativo.
Il perché di questa distesa di pietrisco credo di scoprirlo all’inizio della città.
Sul buio si staglia un’enorme e minacciosa fabbrica che ha tutto l’aspetto di essere la parte meccanizzata di una grande cava.
Riesco a trovare un albergo in zona centrale e mi accordo per un prezzo ragionevole per una stanza pulita con un bagno vero.
C’è anche la possibilità di lasciare la moto in un parcheggio custodito in un piazzale lì vicino.
La gnura dell’albergo, cicciottella con gli occhi di ghiaccio, mi sconsiglia di andare a mangiare nei locali lì vicino: troppi giovinastri ubriachi in cerca di risse e io sarei un bersaglio perfetto.
Mi consiglia piuttosto di comprare qualcosa al Magazin lì vicino e di mangiare in camera.
Cosa che farò dopo aver parcheggiato.
Mangio una specie di formaggio industriale che dalla forma sembrava un wurstel, mentre guardo una fiction australiana doppiata in russo mandando già a lunghe sorsate di birra un pasto non proprio invitante.
In tv passano dei cartoni sovietici degli anni 70 quando mi sposto in bagno per la medicazione.
E lì la sorpresa: sapevo che il vento l’avrebbe asciugata, solo non credevo così rapidamente.
La crosta si è perfettamente indurita inglobando le garze.
Utilizzo una boccetta intera di acqua ossigenata per scioglierla: ogni volta che la schiuma si dirada la garza è ancora saldata e mi trovo costretto a strapparla via con cautela ma con fermezza.
Sudo freddo, la testa mi gira e ho una scarica di conati di vomito ma alla fine ce la faccio.
Rimango sudato a fumare un paio di sigarette russe sul pavimento fresco prima di farmi una doccia, mentre penso che mi sono rotto le palle di fare Rambo tutte le estati.
Mi riprometto per l’anno prossimo di fare il villeggiante stanziale su una spiaggia e v********o all’avventura.
Lascio asciugare la ferita senza bende mentre crollo soddisfatto sulle lenzuola pulite
godendomi il fresco della serata e mandando mentalmente tutti affanculo.
 
14329376
14329376 Inviato: 4 Mag 2013 0:51
 

Bene...
Ora che ho letto, direi che posso andare proprio a letto... icon_smile.gif icon_smile.gif
 
14330109
14330109 Inviato: 4 Mag 2013 14:21
 

Citazione:
Sudo freddo, la testa mi gira e ho una scarica di conati di vomito ma alla fine ce la faccio.
Rimango sudato a fumare un paio di sigarette russe sul pavimento fresco prima di farmi una doccia, mentre penso che mi sono rotto le palle di fare Rambo tutte le estati.
Mi riprometto per l’anno prossimo di fare il villeggiante stanziale su una spiaggia e v********o all’avventura.
Lascio asciugare la ferita senza bende mentre crollo soddisfatto sulle lenzuola pulite
godendomi il fresco della serata e mandando mentalmente tutti affanculo.


grande 0509_up.gif anche come scrittore

spero non ci farai attendere troppo per il gran finale
 
14333879
14333879 Inviato: 6 Mag 2013 9:58
Oggetto: Capitolo 7
 

Capitolo 7



Link a pagina di Grooveshark.com

Riparto con calma dopo aver fasciato bene il ginocchio di nuovo asciutto, caricato la moto ed essermi sparato mal volentieri un nescafè nell’enorme e pacchiana sala ristorante dell’hotel.
La strada mi benedice ancora con il suo asfalto liscio fino ad Aktobe, dove giungo più o meno all’ora di pranzo.
Sono a poche decine di km dalla Russia e si vede: il verde è diffuso e ci sono anche alberi bassi e corsi d’acqua.
Addirittura un fiume dove qualcuno pesca vicino a mandrie di vacche felici e ignare del deserto a pochi kilometri.





Pranzo in un self service frequentato perlopiù da impiegati che mi guardano straniti, in particolare due signore che non mi tolgono gli occhi di dosso. Potrei spararmi le pose dell’avventuriero ma non ne ho nessuna voglia ne bisogno.
Mi sembra quasi di essere tornato alla civiltà, ma dura poco: dopo Aktobe la strada si biforca e io, invece di andare a nord verso Oral, punto a sudovest verso Atyrau, imboccando la M27.
Il paesaggio per un po’ rimane verde e bucolico.







Quello che cambia con una certa rapidità è l’asfalto che inizia a diventare sempre più sconnesso,
non tanto per le buche quanto per i solchi lasciati dai mezzi pesanti.





Mi perdo dentro una cittadina di nome Alga, fatta di casermoni sovietici e più avanti, in un punto imprecisato, per i sobbalzi in velocità perdo la valigia destra, quella legata col fil di ferro fin da Samarcanda. Fortunatamente non ho nessuno dietro .
Smadonno e pure tanto ma la valigia, a parte qualche ammaccatura e strisciata, è intatta.
Il fil di ferro che ho con me è troppo sottile per reggere le sollecitazioni ma non è un problema trovarne di più grosso:
la M32 e la M27 sono praticamente tappezzate di acciaio filiforme di qualsiasi forgia e dimensione.
Credo sia ciò che rimane di migliaia di gomme esplose e lasciate lì a macerarsi con gli sbalzi di temperatura, oltre ai resti di fondi stradali distrutti e spalati un po’ più in là e altri rifiuti di questo tipo.
Ho avuto fino alla fine il terrore di forare con tutta questa ferraglia sotto le gomme, ma stavolta si rivela provvidenziale.
Sistemo la valigia sotto gli sguardi incuriositi e divertiti dei kazaki che passano.
Più a sud vado, più il verde si dirada, meno asfalto rimane sulla strada e gli abitanti (almeno quei pochi che incontro)
diventano più scorbutici e inospitali.




Durante un rifornimento ho una questione con il gestore della stazione di servizio e il suo sottoposto.
Liquidato, mentre sbraito, con un “guarda quella donna! Bella vero?”
Più avanti quando ormai il paesaggio si è inaridito e l’asfalto non c’è più, dei bulletti mi si parano davanti con la loro auto e
mentre qualcuno di loro, tra cui una ragazza, fanno foto coi telefonini, il Little Boss mi sfotte, dicendo di non conoscere il russo ma capendo tutto quello che dico.
Vado via appena inizia a darmi schiaffetti sul casco provocando sugli altri ilarità sguaiata.
Mi hanno poi superato sgommando e non li ho più visti.

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Non posso non pensare, di nuovo, che qui sono l’extracomunitario: sono quello diverso che nessuno rivendica.
E per chi è cresciuto nel nulla a latte di cammello e telenovele russe non posso che essere nulla più di un c******e da sfottere con cui passare un pomeriggio diverso.
E i ventenni di provincia annoiati, di qualsiasi parte del mondo, possono essere molto pericolosi.
Quest’ incontro mi fa tenere gli occhi aperti fino al tramonto quando, ormai nel nulla su una strada cosparsa di buche grandi come crateri , decido di accamparmi per la notte.

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Il prossimo centro abitato non è lontano più di una 50ina di km,
ma andando verso ovest il sole tramonta dritto in faccia ed’è difficilissimo fare lo slalom in mezzo ai crateri sulla strada non vedendoli.
E a questa velocità dovrei farmi un bel pezzo in notturna e proprio non è il caso.
Certo non sono tranquillo a starmene lì da solo ma prendo un paio di precauzioni, tipo uscire dalla “strada” principale mentre l’ultimo camion in lontananza non mi può più vedere per poi percorrere una pista secondaria che mi porta dietro un avvallamento,
così da non essere visto dalla strada se non a km di distanza.



La luna è già alta e si preannuncia molto luminosa.
Per evitare riverberi che segnalerebbero la mia presenza nella notte copro il faro con un asciugamano e smonto una valigia utilizzandola come sedia.
Sono soddisfatto della giornata:
oggi ho guadagnato un’ora di fuso e, anche se non riesco ancora a caricare sulla gamba sinistra, in due giorni ho fatto un bel po di strada. Mangio una scatoletta e un pò di formaggio rimastomi dalla sera prima nel silenzio più totale, interrotto solo un paio di volte da un paio d’auto sulla M27 e da un’altra che percorre una delle decine di piste che uniscono punti persi chissà dove.
Per il resto silenzio e calma assoluti.



Non c’è neanche un filo di vento e devo dire che la sensazione è addirittura fastidiosa:
nelle orecchie che mi fischiano riesco a sentire perfino i battiti del mio cuore, e ogni suono che produco muovendomi sembra amplificato.
La definirei un sensazione di disagio, non essendoci abituato.
Mi ritrovo con mia sorpresa ad accendere un po’ di musica per riempire il vuoto di rumori che tanto ho desiderato.
La spengo quando sento uno sbuffo a pochi metri da me: è una mandria di cavalli che pascola al chiaro di luna.



Sto un po’ a godermi la notte limpida e piena di stelle nonostante la luna quasi piena, continuando a ripetermi che il mondo è bello e io voglio vivere come quei cavalli, ai quali non mi avvicino solo per non rompergli le palle.
E mi ripeto anche che valeva la pena di tutto questo sbattimento per vivere una notte così.
Dormirò di filato fino all’alba, svegliato solo una volta dal rumore di pentolame fuori dalla tenda.
Ho subito immaginato fossero i bulletti del pomeriggio e mi sono messo a urlare “chi c’è là?” (come se mi potessero capire).
Aperta la tenda vedo in lontananza la sagoma di un animale simile a un piccolo cane mentre mi accorgo che il formaggio e il pane lasciati fuori dalla tenda non ci sono più. In compenso il mio amichetto mi ha lasciato una cacca molto educata vicino alla tenda.



All’alba e senza caffe (la bombola mi si è scaricata nel sacco) riprendo la M27 e le sue voragini,
tra mandrie libere di bovini e cavalli e falchi che si alzano in volo spaventati dal mio passaggio.

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Prendo il mio mezzo litro di caffè in una chaikhana al primo centro abitato, mentre in tv danno una fiction su una boyband kazaka, una sorta di kiss me lycia con gli occhi a mandorla.
Lì divido il lavabo all’ingresso con due fratelli di Almaty in viaggio in fuoristrada attraverso il paese.



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La strada è sempre quella, in pessime condizioni e senza speranza di trovare 10 metri di asfalto buono.
Non è facile con un ginocchio fuori uso:
Quando devo necessariamente alzarmi in piedi faccio leva sul manubrio col braccio sinistro e non riesco a fare lunghi tratti in piedi.
E’ un vero peccato avere tutta questa pista davanti a me e farla azzoppato.
Mi dico che è sempre meglio che farla ingessato o non farla proprio.



Il nastro d’asfalto è completamente sprofondato ai lati, mentre al centro si aprono voragini più lunghe della moto stessa.
Tanto che a un certo punto capisco che è meglio attraversarle piuttosto che evitarle.
Ma le gomme quasi lisce non mi ispirano molta sicurezza su questo fondo così ruvido, allora mi faccio coraggio e scendo anch’io fuori strada.

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Anche perché se ci vanno tutti perché non dovrei andarci io?
Qui il fondo è migliore rispetto agli sterrati della M32:
compatto e veloce, solo ogni tanto qualche pozza di fango che con le dovute cautele attraverso lateralmente dopo aver preso bene la mira.
Anche qui ogni tanto mi tocca tornare indietro perché non mi fido ad attraversare una macchia di fango di 10 metri.
Ma tutto sommato me la sto cavando abbastanza bene.
Il ginocchio va meglio anche se non ho cambiato la medicazione.
Anzi forse proprio per questo.
Comunque è ancora gonfio e stare in piedi è una piccola tortura, ma le endorfine che ho addosso fanno il loro lavoro egregiamente.



Le piste sono tante ed è divertente arrivare alle biforcazioni e scegliere quale prendere, anche perché il rischio di perdermi è basso per via della strada sempre visibile in questa pianura.Il Navigatore lo tengo acceso ma giusto per tenere traccia della strada fatta. Anche Sofia se la sta cavando bene, divorando ogni avvallamento e rispondendo reattivamente a ogni comando. Da qualche giorno batte in testa quando apro con decisione, tanto che quando stavo nella sabbia verso Aral avevo paura si fossero fottute le valvole. Poi mi sono ricordato che da 2 settimane sta bevendo benzina a 80 ottani con chi sa quante schifezze dentro e mi sono tranquillizzato. Mentre sto li a cercare le piste buone mi viene da sorridere pensando che anche se mettessi vodka e ‘nduja nel serbatoio lei andrebbe lo stesso.



Dopo la metà della mattina il vento si alza e ancora sono sferzato da raffiche di sabbia.
Sono quasi all’esasperazione quando le deviazioni mi portano su una strada non segnata sulle mappe opensource che rapidamente mi riporta sull’asfalto e mi accorgo con piacere che sono a Dossor.
Da qui è iniziato tutto quasi due settimane fa e qui finalmente sono ritornato.
Anche se sconnesso, pieno di buche e infido, l’asfalto mi accoglie come una carezza irresistibile per il mio ginocchio tormentato.
Faccio benzina in un distributore strafico ai bordi della città e mangio in un posto sulla strada,
assordato dalla dance kazaka anche se sono l’unico cliente mentre la tipa al banco non fa altro che chattare via smartphone.
Devo segnalare che la dance di questo locale è la peggiore di tutto il viaggio:
passano per due volte una cover di “zombies “dei Cranberries (gruppo che odio ma meritevole di rispetto) su base a cassa dritta e con
il testo che recita “ Who’s sleeping in your bed” invece che “they’re crying in your head”.
Ovvero: come trasformare un testo sulla questione Irlandese in un gossip di corna e ficco galeotto.
Il top del kitsch post-sovietico!
Con l’occasione do quasi fondo agli ultimi tengè visto che prevedo di uscire entro la serata per puntare verso Astrakhan e dormire nello stesso appartamento dell’andata.
Ripercorro la stessa strada da cui sono entrato con i suoi solchi e buche e mi sembra un’ autobahn dopo gli ultimi quattro giorni passati a respirare e sollevare polvere.
Sento forte l’odore del mar Caspio, cosa a cui non potevo far caso quando entrai all’andata.
Sono tentato di girare verso un paesino sulla costa al tramonto ma ho fretta di uscire da questo paese.
Non sopporto più i suoi abitanti, ne’ i pozzi di petrolio e i cammelli in mezzo ai c******i sulle strade:
ne ho beccati anche di acciaccati dai camion sul ciglio stradale.
Fa una certa impressione vedere degli animali morti così grandi a zampe all’aria e con la pancia gonfia per la decomposizione.
Sì, voglio uscire dal Kazakhstan al più presto.





Ci tornerò di sicuro per visitare la parte orientale e la regione prossima all’Altai che a naso mi è parsa popolata da gente più cordiale.
La regione centro occidentale è stata tosta e la sua gente ancora di più.
O forse sono io semplicemente stanco di correre e tutto mi appare negativo.
Vorrei vedere il Caspio ma punto deciso verso la frontiera, salvo poi fermarmi a Ganyushkino, l’ultima città prima del confine:
Sta facendo buio e vorrebbe dire arrivare ad Astrakhan di notte giocandomi il mattino del giorno dopo.
Avrei fatto meglio ad andare sul Caspio e accamparmi lì se mi fossi deciso prima:
l’hotel non accetta carte e bancomat, per cui devo tornare in città a prelevare.
Ormai è buio e le auto mi abbagliano in risposta ai miei fari che puntano in alto per il troppo carico:
non serve a nulla lampeggiare per fargli capire che quelli sono gli anabbaglianti.
Loro mi piantano in faccia i loro abbaglianti quasi a punirmi, come se lo stessi facendo apposta.
Trovo l’ unico bancomat funzionante e ritorno all’hotel per prendere possesso della stanza, abbastanza pulita e con una doccia enorme.
Visto il prezzo non proprio economico della stanza rinuncio a mangiare al ristorante dell’albergo e compro qualcosa al market di fianco.
Sono veramente distrutto e dopo la doccia e la medicazione mangio di nuovo guardando la TV, stavolta una fiction russa dal titolo “boomerang”.
Anche se non capisco tutte le parole, anzi ben poche visto che i russi parlano molto velocemente, è chiarissima la trama:
Lui (insignificante) tradisce Lei (gnocca) con Una più Giovane (sempre gnocca).
Le compra vestiti, prende una casa insieme a lei e tutte queste cose, fin quando la moglie non lo scopre e allora lo sbatte fuori di casa e contatta l’ex fidanzato della Giovane (brutto ma massiccio) e comincia a vessare la coppia di amanti oltre che a smerdare il marito in ogni modo, ad esempio scopandosi l'ex della Giovane.
Sto lì a guardare questa gran boiata spalmato sul letto, mentre dalla sala ristorante arrivano voci di donne in festa insieme alla kazak- dance a tutto volume. Potrei andare a prendermi una vodka, di cui pure sento il bisogno, e so che diventerei in un attimo l’attrazione della serata, dando così soddisfazione a un ego ormai sottoterra da qualche giorno.
Ma sono distrutto al punto tale di non voler vedere nessuno, figuriamoci una mandria di kazake tirate a festa per un addio al celibato.
La cosa buona di tutto ciò è che l’indomani sono al confine alle dieci.
Sono gasato.
Sono eccitato.
Nei pochi kilometri tra l’albergo e la frontiera ho strombazzato allegramente ai veicoli che mi incrociavano, salutando tutti con segno di vittoria e un allegro “allu culu compà!”.



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Fumo un paio di sigarette mentre aspetto il mio turno, spingendo a mano la moto man mano che la fila scorre.
Come sempre i veicoli russi passano prima, sbrigando poche formalità.
Quando tocca a me arrivo al controllo passaporti con fare del tipo “dai, sbrighiamo sta pagliacciata che ho fretta!”
Ma vedo che il tipo nella garitta inizia a fare telefonate.
Il soldato che ha scambiato un paio di parole con me chiedendomi della moto e del viaggio mi sia avvicina e mi dice di mettere di lato la moto,
mentre parla con il collega nella garitta.
Prende il mio passaporto e mi dice di seguirlo.
Andiamo nel blocco degli uffici, posto lateralmente al lotto rispetto alle corsie per i veicoli.
Saliamo uno o due piani di scale, lui con passo fermo e io zoppicando.
Mi chiede di aspettare in uno slargo dove è allestita una saletta d’attesa dopo avermi fatto parlare con un superiore.
Lo spazio, per quanto angusto, è comunque decente: ci stanno un divano e una poltrona in pelle nera e ,se non ricordo male, delle piante in plastica.
Sui muri, oltre a poster dell’esercito, mappe geografiche del Kazakhstan e foto che mostrano l’addestramento dei prodi soldati kazaki, anche vignette umoristiche sulla vita militare.
Tra tutte mi ricordo in particolare una in cui a due soldati veniva ordinato di scavare una buca da un superiore il quale dice: “voi scavate, stasera passerò a dirvi perché”.
Il titolo era una cosa tipo la saggezza del tenente o qualcosa del genere
(non ho mai capito un c***o dei gradi militari italiani, figuriamoci cosa posso capire di quelli kazaki).
Finora sono stato abbastanza tranquillo, ma ora comincia a salirmi una certa ansia.
Ho capito che ho un problema coi documenti ma non mi è chiaro quale.
Infine il soldato ritorna e mi svela l’arcano:
questo è il mio 6° giorno di permanenza nel paese ed entro il 5° avrei dovuto timbrare il foglio d’immigrazione all’ufficio della Polizia preposto all’uopo.
Ora mi tocca tornare alla città più vicina, trovare la Polizia, pagare la multa, farmi timbrare il foglio e tornare qui per poi uscire.
Alla mia richiesta se fosse possibile fare tutto da loro mi viene risposto di no: il timbro dell’immigrazione spetta alla polizia.
Porca p*****a porca! Adesso non solo mi sento extracomunitario.
A tutti gli effetti sono un clandestino!
Torno di volata a Ganyushkino, dove mi assicurano troverò la polizia.
Sono incazzato una iena e mentre corro sui solchi dei camion i veicoli in direzione contraria strombazzano salutandomi con un “allu culu compà!” allegro e brioso.
v********o paese di m***a!
Sono sicuro al 100 % che farò la gioia di qualche s*****o in divisa ben felice di aiutarmi in cambio di una mancia.
La polizia sta vicino al bancomat della sera prima.
E’ un edificio col solo piano terra, non diverso dalle altre casupole a fianco, se non fosse per le sbarre agli infissi.
Quelle sulla porta sono chiuse e sorvegliate dall’interno da uno sbirro con in braccio un mitra.
Un paio di persone aspettano nel vialetto d’ingresso.
Spiego la mia situazione al tipo della reception quando mi viene ordinato di parlare.
Mi dice di aspettare l’ufficiale che sta per arrivare.
Provo a sedermi sui gradini ma il mitragliere, con sguardo completamente inespressivo, mi intima di alzarmi chè lì non si può stare, giovanotto!
 
14334225
14334225 Inviato: 6 Mag 2013 11:26
 

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14341552
14341552 Inviato: 8 Mag 2013 13:45
 

"E poi ci sono gli affetti.
E sono quelli la vera catena che ci imprigiona alle nostre vite.
L’unico motivo per cui non mollare tutto e partire alla scoperta di questa piccola sfera nell’universo. "

come non darti ragione... doppio_lamp_naked.gif doppio_lamp_naked.gif doppio_lamp_naked.gif
 
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