Ciao a tutti! Dopo il mio primo “esperimento letterario” mi
sono deciso a pubblicare il secondo. Visti i complimenti
dell’altro, sono un po’ timoroso... vediamo come va con
questo racconto!.. :)
Bella. Perché é bella la strada verso il passo. Dolce la
ripida salita che si fa via via più aspra. Salgo la valle,
mutevole di luce e d'ombra in questo pomeriggio di metà
settembre. Scorre silenziosa sotto le ruote della mia moto, di cui mi
pare di non sentire più il suono. Sembra tutto ovattato,
talmente è placido e tranquillo, in questa valle boscosa,
sferzata solo a tratti dai raggi rassicuranti del sole. Il panorama
scorre così vario e multiforme, mutevole, tra le curve che si
susseguono senza sosta regalando sempre nuove prospettive, che quasi
non mi accorgo...
Poi mi fermo al lato della strada e mi affaccio: la valle, placida fino
ad un momento prima, si fa severa. Nascosto dietro gli alberi
giù un profondo strapiombo. Laggiù in fondo turbina
l'acqua impetuosa di un ruscello che sa di nevi e di ghiaccio.
Così bella e così severa, così grande, soltanto
ora me ne accorgo! Nascosta dietro le chiome rassicuranti degli alberi,
che quasi accarezzano l’asfalto scopro una valle grande e
profonda.
E sono i giochi dell'ombra ora, non più della luce, che mi fanno
scoprire poco a poco tutti i suoi dettagli: dai tetti placidi dei masi,
giù in basso, lungo i pendii della vallata, al movimento
complicato, quasi disarmonico, ma bello, di questa fenditura che gira,
che ruota, nascondendosi e scoprendosi ad ogni svolta, nelle sue mille
forme, nelle sue ombre boscose e verdi, rassicurante e severa.
Il borbottio impetuoso del bicilindrico rompe il silenzio; riparto e
proseguo, gli alberi diradano e finalmente mi arrampico, con gli occhi
che seguono le cime, col polso e con le gomme che seguono gli andamenti
sinuosi delle curve. Ruvidamente accarezzandole col bordo morbido della
gomma, quasi mordendo le rocce con l’urlo impetuoso del motore,
che risuona e rimbalza su questa pietra viva che mi circonda.
Privilegiato. Il passo è splendido, molto poco battutto. Mi
dà un senso di pienezza, di soddisfazione. Spero che altri non
lo scoprano mai. È perfetto così, scomodo e poco
accessibile, in una valle secondaria dove non vanno che i valligiani.
Sulla strada quasi nessuno, qualche sparuta automobile, turisti
stranieri e cabriolet.
I tornanti si allungano, continuo a salire e ad una svolta la sorpresa
più strana: un gigantesco portone presidia la strada. Un enorme
portale di legno e di acciaio, corroso dal sale e dal ghiaccio difende
quel tratto di strada, preclude maestoso l'accesso alla nera galleria,
buia come una caverna, gocciolante di acque e di ghiaccio. Mi accingo
ad entrare, per me è aperta. Ma prima mi volto a guardare, un
ultima volta, quel panorama infinto e magnifico, di cime di monti e di
sole che mi sto per lasciare alle spalle.
Privilegiato e timoroso ne varco la soglia, indeciso se procedere
piano, deferente come un bambino impaurito che si avventura nel buio, o
sfrecciare attraverso la montagna nera prima che il portone si richiuda
dietro di me, lasciandomi intrappolato nel ventre freddo ed umido di
questo gigante di pietra. Che pare vivo.
Ritorno alla luce, la montagna è ancora più aspra. Il
vento mi sferza e le rocce appuntite ed aguzze sembrano volermi
colpire. Guardo di lato e, di là della strada, di là
della valle che l'indefinita distanza di uno sguardo può
misurare, altre montagne ed altre rocce, aguzze, mobili, con le punte
bagnate dal sole sembrano muoversi insieme a me, corrermi accanto, come
onde di un mare ghiacciato di rocce, sferzato da quel vento che ancora
batte e mi fa sbandare, che non vuole farmi avanzare, mentre la patina
bianca del sale di questo mare roccioso già si deposita sulla
moto e su di me.
La furia del vento non cessa, sono arrivato, vorrei cercare un riparo.
Scendo. E non riesco a fare a meno di correre tra quei sassi aguzzi,
godermi quel panorama spettacolare di mare, mentre il vento adirato
cerca di buttarmi giù mi schiaffeggia sul volto con polvere e
neve. Il rifugio è chiuso. Trovo riparo nel piccolo museo del
passo, scheggia di ferro piazzata nella roccia, che mi appare calda e
accogliente.
Dalla vetrata mi affaccio e quella tempesta di rocce è ora
ancora diversa, mutevole alla luce veloce del tardo pomeriggio.
Tentenno, dubito, misuro chilometri, orari e distanze. Devo tornare di
là prima che si chiuda il portone.
Ma mi avventuro per un po’ e scendo sull'altro versante,
scivolando su questa strada biancastra di polvere, sale e nevischio. Il
vento cessa, si arrende e mi abbandona, la montagna ora è dolce,
quasi bucolica e rassicurante.
Spengo il motore e mi lascio andare giù per la discesa, verso il
chiarore caldo del sole quasi al tramonto. Passo in mezzo ad un gregge
di pecore che attraversa, lascio la moto là in mezzo alla strada
deserta, cammino, mi fermo a contemplare, e una cabrio blu, un alfa
duetto degli anni 70, lei col foulard, lui coi guantini di pelle e
corda intrecciati, mi passa accanto. Sarà tutto un sogno?