Leggi il Topic


Indice del forumMotobar

   

Pagina 1 di 1
 
Fiabe dell'infanzia
3412626
3412626 Inviato: 14 Gen 2008 18:49
Oggetto: Fiabe dell´infanzia
 

Propongo di fare una piccola raccolta di storie dell'infanza di ciascuno di noi, oggi ho tirato fuori una vecchia raccolta di fiabe e racconti, per caso sfogliando il libro, l'ho riletta con grande felicità, ecco la mia preferita di quando avevo 4 anni.

Cinque in un baccello
"In un grande orto, una bella pianta di pisello si era arrampicata su un palo e cresceva, cresceva, cresceva. Dentro uno dei baccelli più grossi abitavano cinque piselli, freschi e tenerissimi, di un bel verde splendente.
Poichè erano molto giovani, erano anche molto curiosi e spesso si chiedevano come fosse il mondo esterno. Il pisello più piccolo, quello che abitava vicino al picciòlo, era convinto che tutto il mondo fosse verde come lui e come il baccello che lo accoglieva. Il fratello che stava al centro era di parere contrario:
- Io dico che nel mondo devono esistere altri colori, oltre al verde che conosciamo.
- No - ribatteva il pisello più grosso e autorevole - c'è solo il verde, ma in diverse sfumature.
il tempo passava e i cinque piseli, al riparo dentro il baccello, passavano il tempo a dormire e a chiacchierare. E intanto crescevano, crescevano; la loro pelle si induriva e perdeva quel bel colore verde tenero per tendere al giallo.
- Qui si comincia a stare stretti - borbottò un giorno il pisello più grosso - mi piacerebbe uscire da qui e andarmene in giro per il mondo.
- Hai ragione - ammisero gli altri - ormai siamo cresciuti e il baccello, invece, è rimasto della stessa misura.
Insofferenti cominciarono quindi a muoversi, ad agitarsi e, dai e dai, spingi e tira, il baccello si aprì un poco. Subito i cinque piselli si affacciarono all'esterno con grande curiosità.
- Com'è vasto il mondo! - sussurrò il pisello più piccolo.
- E quanti colori! Chi lo avrebbe mai creduto! - aggiunse il più grosso.
Era la fine della primavera, gli alberi e i campi erano in fiore, il sole splendeva in un cielo azzurro e meraviglioso. il colore più smorto era proprio quello del baccello, che cominciava ad appassire.
- Dovremo passare tutta la vita in questa prigione? - si lamentò quasi piangendo uno dei piselli, quello che era diventato il più giallo di tutti.
In quel momento arrivò un contadino, staccò il baccello ingiallito e se lo mise in tasca. Quando giunse a casa, lo dette al figlio.
- Lo vuoi?
- Oh si, grazie. Questi grossi piselli così duri mi serviranno da munizioni per il mio cannoncino...
Il ragazzino depose i piselli in un angolo e andò a prenderlo. nel frattempo i cinque piselli si ritrovarono fuori dal baccello, per terra ed erano molto molto eccitati.
- Arrivederci fratelli - disse il pisello più grosso, che aveva una gran sete di avventure - tra poco ce ne andremo per il mondo.
- A me piacerebbe giungere fino al sole, volare insieme alle acquile - disse il pisello più presuntuoso.
- A me - ribattè un altro, vanitosissimo - non piace molto l'idea di venir chiuso dentro un cannone. E se, con lo sparo, mi rovino la buccia?
Le loro chiacchiere vennero interrotte dal ragazzino che tornava trascinandosi dietro un cannoncino di legno con tanto di ruote. Subito il primo proiettile venne infilato in canna.
- Arrivederci fratelli e buona fortuna! - gridò il pisello.
Un momento dopo, veniva catapultato per aria.
Uno alla volta, altri tre suoi fratelli provarono l'ebbrezza del volo e dell'ignoto. Ora restava solo il più piccolo e tranquillo. Il ragazzino lo afferò con delicatezza, lo sistemò in posizione di sparo, tirò la cordicella e...il pisello si ritrovò a volare nell'infinito.

***
Il caso volle che, finita la traiettoria, andasse a cadere sotto il davanzale della finestra di una vecchia soffitta. Li, tra due sassi, c'era un po di morbido terriccio e il pisello vi si affondò con un sospiro di sollievo. Volare era bello, ma trovarsi con un pò di terra sotto i piedi era più bello ancora. Si adagiò su quella specie di soffice lettino e si mosse e si agitò tanto, finchè non riuscì a farsi una specie di nido.
Poco più tardi scoppiò un gran temporale, l'acqua bagnò il terriccio e il pisello godè molto di quella bella doccia inaspettata.
Intanto il pisello, nelal sua nuova dimora, si chiedeva quale fine avessero fatto i suoi fratelli, se fossero stati fortunati come lo era stato lui. Forse avevano vissuto avventure ben più emozionanti, avevano fatto bellissimi incontri, ma chissà se avevo una casetta calda e confortevole come la sua!
Passarono i mesi, giunse l'inverno, cominciò a nevicare. il pisello si spinse ancora più profondamente dentro il terriccio e si addormentò di un sonno tranquillo, ignorando tutto ciò che accadeva al di fuori del suo nascondiglio.

***
Il crudo inverno era invece un gran tormento per la povera vedova che abitava nelal soffitta con la sua bambina ammalata. La buona donna lavorava duramente tutto il giorno per comprare cibo e medicine alla figlia ma i suoi sforzi servivano a ben poco: era sempre stanca, al minimo sforzo impallidiva e sospirava, se ne stava sempre a letto. L'unico suo svago era guardare fuori dalla finestra, ma dalla soffitta, lassù in alto, non vedeva che uno spicchio di cielo, ora azzurro, ora nuvoloso. guardava la palla a spicchi multicolori che un tempo aveva rincorso con allegria, guardava la trottola che tante volte era andata a cercare sotto i mobili e sospirava. Ogni tanto, sollecitata dalal mamma, provava ad alzarsi dal leto, ma subito era costretta a sdraiarsi di nuovo.
- Non posso, sono troppo stanca - sospirava. E alla povera vedova si stringeva il cuore per la gran pena.

***
Passò il lungo freddo inverno e giunse la primavera, le nubi fecero largo ad un bel sole tiepido che riversò i suoi raggi dappertutto, anche sul terriccio fra le due assi di legno. Quel tepore giunse fino al pisello addormentato e gli mise addosso una gran vogla di uscire all'aperto; cominciò allora con pazienza a stendere le prime radici e poi, dopo un delizioso acquazzone, osò timidamente spingere fuori le prime tenere foglioline verdi.
Che aria tiepida, che bel cielo azzurro, quanti profumi! Sotto i raggi dle sole le timide foglioline si aprirono gioiosamente alla luce. E una mattina la malatina vide spuntare dalla finestra qualcosa di verde. Incuriosita, si rizzò a sedere sul letto.
- Mamma, cos'è quel verde che spunta al di là del davanzale?
La madre corse subito a guardare.
- E' una piantina di pisello; chissà com'è finita quassù, ora la strappo...
- No, no, ti prego! Sarò contenta di vederla crescere, mi farà compagnia.
Con il passare dei giorni, il pisello mise fuori le altre foglioline e qualche esile viticcio. E strano a dirsi, via via che la pianticella cresceva, la malatina stava meglio. Ora non era più tanto pallida, rideva, e si muoveva anche un poco, tanto che, una mattina, si alzò dal letto, si avvicinò alla finestra, salì su un panchetto e volle accarezzare il pisello che cominciava a fiorire.
Immaginarsi la felicità del pisello! Si sentiva profondamente orgoglioso di quanto era riuscito a fare, si considerava la pianta più fortunata del mondo e impiegava tutte le sue forse a crescere sempre di più, a coprirsi di bei fiori dai colori delicati.
Di tanto in tanto però si chiedeva che cosa ne fosse stato dei suoi fratelli.

***
Essi nel frattempo avevano avuto sorti diverse. il pisello più presuntuoso, quello che voleva volare fino al sole, finì ben presto il suo viaggio in bocca a un falco, stupito di trovare un legume a quell'altezza. Altri due, quelli vanitosi, dopo un breve volo nell'azzurro, ricaddero a terra e vennero beccati da una gallina starnazzante. L'ultimo l'avventuroso, rovinò nell'acqua di uno stagno e, li per li, fu contento della sua sorte.
- Questo stagno mi porterà al fiume e il fiume al mare. Sarò il primo pisello navigatore dell'universo, scriverò anche un diario con il resoconto dei miei meravigliosi viaggi. Ma le sue speranze andarono deluse: l'acqua stagnante, a poco a poco, lo fece marcire e un giorno cadde ingloriosamente sul fondo melmoso a far compagnia alle ranocchie.

***
Intanto il pisello sul davanzale della finestra continuava a crescere e le sue foglie a irrobustirsi; sembrava che la linfa che scorreva in quelle foglie scorresse anche nelle vene della bambina, che ora gioiva. Le sembrava che la voglia di vivere del pisello diventasse sua. Si sentiva finalmente guarita.

Il giorno in cui apparvero i primi teneri baccelli di un verde tenerissimo, il pisello sentì la bambina chiamare a gran voce la mamma per mostrarle i nuovi germogli.
Quel giorno il pisello si commosse e avrebbe pianto di gioia. Ma, purtroppo, i piselli non hanno occhi; la pianticella si limitò così a far sbocciare un ultimo fiore, il fiore più bello di tutti."

(Niente battute grazie)

Ultima modifica di Wise-CM il 14 Gen 2008 20:24, modificato 1 volta in totale
 
3413173
3413173 Inviato: 14 Gen 2008 19:32
 

Eddai, fate i bravi... se NON l'ha aperto in chiacchiere un motivo ci sara', no? icon_wink.gif
 
3415517
3415517 Inviato: 14 Gen 2008 23:14
 

icon_mrgreen.gif se trascrivessi qui sopra l' intera enciclopedia britannica cosa direbbe il Davide? icon_mrgreen.gif
 
3440826
3440826 Inviato: 17 Gen 2008 20:45
 

Io ricordo una fiaba che mi raccontava spesso mamma e che mi piaceva da impazzire!



Si tratta della storia di una principessa intrappolata in una torre altissima, come Raperonzolo aveva dei capelli lunghissimi che usava per tirar su la strega cattiva che la teneva intrappolata!
La strega la costringeva a pettinarle i capelli bianchi ed ispidi.
La dolce principessa lo faceva ed ogni volta ci trovava dei curiosi bachini colorati,a volte bianchi,a volte rossi, a volte verdi!
Incuriosita se li metteva in tasca e li teneva da parte!
Un principe che spesso passava nei dintorni della torre notò la principessa intrappolata ed un giorno facendo finta di esser la strega si fece tirar su!
Scapparono assieme ma poco dopo la fuga, la stega si accorse dell'accaduto e con il suo carro li inseguì..
La principessa vedendo la strega che si avvicinava sempre più si ricordò dei curiosi bachini.
Prese una manciata di quelli bianchi e li lanciò verso la cattiva.
Improvvisamente la distanza che li separava si fece enorme! tanto da non poter più intravedere la vecchia in lontananza.
Poco dopo però fu nuovamente visibile e la bella buttò quelli verdi che fecero apparire una distesa di chiodi sulla strda.
La strega perse il controllo del carro che si ruppe ma continuò ad inseguirli correndo a piedi nudi sui chiodi ignorano il dolore, tanto era infuocata dalla rabbia.
Allora la pricipessa provò i bachini rossi che crearono un grande ampio fiume alle spalle dei due fuggiaschi.
La strega annegò sopraffatta da una grande onda e finalmente i due giovani furono liberi di andare verso un futuro roseo e felice!
 
3441665
3441665 Inviato: 17 Gen 2008 21:59
 

Cappuccetto Rosso
C'era una volta una cara ragazzina; solo a vederla le volevan tutti bene, e specialmente la nonna, che non sapeva piu' cosa regalarle. Una volta le regalò un cappuccetto di velluto rosso, e, poichè le donava tanto ch'essa non volle più portare altro, la chiamarono sempre Cappuccetto Rosso.
Un giorno sua madre le disse:
- Vieni, Cappuccetto Rosso, eccoti un pezzo di focaccia e una bottiglia di vino, portali alla nonna; è debole e malata e si ristorerà. Mettiti in via prima che faccia troppo caldo; e, quando sei fuori, va' da brava, senza uscir di strada; se no, cadi e rompi la bottiglia e la nonna resta a mani vuote. E quando entri nella sua stanza, non dimenticare di dir buon giorno invece di curiosare in tutti gli angoli.
-Farò tutto per bene, - disse Cappuccetto Rosso alla mamma e le diede la mano.
Ma la nonna abitava fuori, nel bosco, a una mezz'ora dal villaggio. E quando giunse nel bosco, Cappuccetto Rosso incontrò il lupo. Ma non sapeva che fosse una bestia tanto cattiva e non ebbe paura.
- Buon giorno, Cappuccetto Rosso, - egli disse.
- Grazie, lupo.
- Dove vai cosi presto, Cappuccetto Rosso?
- Dalla nonna.
- Cos 'hai sotto il grembiule?
- Vino e focaccia: ieri abbiamo cotto il pane; così la nonna, che è debole e malata, se la godrà un po' e si rinforzerà.
- Dove abita la tua nonna, Cappuccetto Rosso?
- A un buon quarto d'ora di qui, nel bosco, sotto le tre grosse querce; là c'è la sua casa, è sotto la macchia di noccioli, lo saprai già, - disse Cappuccetto Rosso.
Il lupo pensava: " Questa bimba tenerella è un grasso boccone, sarà piu' saporita della vecchia; se sei furbo, le acchiappi tutt'e due". Fece un pezzetto di strada vicino a Cappuccetto Rosso, poi disse:
- Vedi, Cappuccetto Rosso, quanti bei fiori? perché non ti guardi intorno? Credo che non senti neppure come cantano dolcemente gli uccellini! Te ne vai tutta contegnosa, come se andassi a scuola, ed è così allegro fuori nel bosco!
Cappuccetto Rosso alzò gli occhi e quando vide i raggi di sole danzare attraverso gli alberi, e tutto intorno pieno di bei fiori, pensò: " Se porto alla nonna un mazzo fresco, le farà piacere; è tanto presto, che arrivo ancora in tempo ". Dal sentiero corse nel bosco in cerca di fiori. E quando ne aveva colto uno, credeva che più in là ce ne fosse uno più bello e ci correva e si addentrava sempre più nel bosco.
Ma il lupo andò difilato alla casa della nonna e bussò alla porta.
- Chi è?
- Cappuccetto Rosso, che ti porta vino e focaccia; apri. - Alza il saliscendi, - gridò la nonna: - io son troppo debole e non posso levarmi.
Il lupo alzò il saliscendi, la porta si spalancò e, senza dir molto, egli andò dritto a letto della nonna e la ingoiò.
Poi si mise le sue vesti e la cuffia, si coricò nel letto e tirò le coperte .. Ma Cappuccetto Rosso aveva girato in cerca di fiori, e quando n'ebbe raccolti tanti che più non ne poteva portare, si ricordò della nonna e S'incamminò. Si meravigliò che la porta fosse spalancata ed entrando nella stanza ebbe un'impressione cosi strana che pensò:

" Oh, Dio mio, oggi, che paura! e di solito sto cosi volentieri con la nonna! " Esclamò:
- Buon giorno! - ma non ebbe risposta.
Allora s'avvicinò al letto e scostò le cortine: la nonna era coricata, con la cuffia abbassata sulla faccia e aveva un aspetto strano.
- Oh, nonna, che orecchie grosse!
- Per sentirti meglio.
- Oh, nonna, che occhi grossi!
- Per vederti meglio.
- Oh, nonna, che grosse mani!
- Per meglio afferrarti.
- Ma, nonna, che bocca spaventosa!
- Per meglio divorarti!.
E subito il lupo balzò dal letto e ingoiò il povero Cappuccetto Rosso.
Saziato il suo appetito, si rimise a letto, s'addormentò e cominciò a russare sonoramente.
Proprio allora passò li davanti il cacciatore e pensò: " Come russa la vecchia! devo darle un'occhiata, potrebbe star male ".
Entrò nella stanza e, avvicinatosi al letto, vide il lupo.
- Eccoti qua, vecchio impenitente, - disse, - è un pezzo che ti cerco.
Stava per puntare lo schioppo, ma gli venne in mente che il lupo avesse mangiato la nonna e che si potesse ancora salvarla: non sparò, ma prese un paio di forbici e cominciò a tagliare la pancia del lupo addormentato. Dopo due tagli, vide brillare il cappuccetto rosso, e dopo altri due la bambina saltò fuori gridando:
- Che paura ho avuto! com'era buio nel ventre del lupo!
Poi venne fuori anche la vecchia nonna, ancor viva, benché respirasse a stento. E Cappuccetto Rosso corse a prender dei pietroni, con cui riempirono la pancia del lupo; e quando egli si svegliò fece per correr via, ma le pietre erano cosi pesanti che subito s'accasciò e cadde morto.
Erano contenti tutti e tre: il cacciatore scuoiò il lupo e si portò via la pelle; la nonna mangiò la focaccia e bevve il vino che aveva portato Cappuccetto Rosso, e si rianimò; ma Cappuccetto Rosso pensava: " Mai più correrai sola nel bosco, lontano dal sentiero, quando la mamma te l'ha proibito ".

Raccontano pure che una volta Cappuccetto Rosso portava di nuovo una focaccia alla vecchia nonna, e un altro lupo volle indurla a deviare. Ma Cappuccetto Rosso se ne guardò bene e andò dritta per la sua strada, e disse alla nonna di aver incontrato il lupo, che l'aveva salutata, ma l'aveva guardata male:
- Se non fossimo stati sulla pubblica via, mi avrebbe mangiato.
- Vieni, - disse la nonna, - chiudiamo la porta, perché non entri.
Poco dopo il lupo bussò e gridò:
- Apri, nonna, sono Cappuccetto Rosso, ti porto la focaccia.
Ma quelle, zitte, non aprirono; allora Testa Grigia gironzolò un po' intorno alla casa e infine saltò sul tetto, per aspettare che Cappuccetto Rosso, la sera, prendesse la via del ritorno; l'avrebbe seguita di soppiatto, per mangiarsela al buio. Ma la nonna si accorse di quel che tramava. Davanti alla casa c'era un grosso trogolo di pietra, ed ella disse alla bambina:
- Prendi il secchio, Cappuccetto Rosso, ieri ho cotto le salsicce, porta nel trogolo l'acqua dove han bollito.
Cappuccetto Rosso portò l'acqua, finché il grosso trogolo fu ben pieno.
Allora il profumo delle salsicce sali alle narici del lupo, egli si mise a fiutare e a sbirciare in giù, e alla fine allungò tanto il collo che non poté più trattenersi e cominciò a sdrucciolare: e sdrucciolò dal tetto proprio nel grosso trogolo e affogò.
Invece Cappuccetto Rosso tornò a casa tutta allegra e nessuno le fece del male.




Il Principe ranocchio
Nei tempi antichi, quando desiderare serviva ancora a qualcosa, c'era un re, le cui figlie erano tutte belle, ma la più giovane era così bella che perfino il sole, che pure ha visto tante cose, sempre si meravigliava, quando le brillava in volto. Vicino al castello del re c'era un gran bosco tenebroso e nel bosco, sotto un vecchio tiglio, c'era una fontana: nelle ore più calde del giorno, la principessina andava nel bosco e sedeva sul ciglio della fresca sorgente; e quando si annoiava, prendeva una palla d'oro, la buttava in alto e la ripigliava; e questo era il suo gioco preferito.
Ora avvenne un giorno che la palla d'oro della principessa non ricadde nella manina ch'essa tendeva in alto, ma cadde a terra e rotolò proprio nell'acqua. La principessa la seguì con lo sguardo, ma la palla sparì, e la sorgente era profonda, profonda a perdita d'occhio. Allora la principessa cominciò a piangere, e pianse sempre più forte, e non si poteva proprio consolare.
E mentre così piangeva, qualcuno le gridò: - Che hai, principessa? Tu piangi da far pietà ai sassi.
Ella si guardò intorno, per vedere donde venisse la voce, e vide un ranocchio, che sporgeva dall'acqua la grossa testa deforme. Ah, sei tu, vecchio sciaguattone! - disse, - piango per la mia palla d'oro, che m'è caduta nella fonte.
- Chétati e non piangere, - rispose il ranocchio, - ci penso io; ma che cosa mi darai, se ti ripesco il tuo balocco?
- Quello che vuoi, caro ranocchio, - diss’ella, - i miei vestiti, le mie perle e i miei gioielli, magari la mia corona d'oro.
Il ranocchio rispose: - Le tue vesti, le perle e i gioielli e la tua corona d'oro io non li voglio: ma se mi vorrai bene, se potrò essere il tuo amico e compagno di giochi, seder con te alla tua tavolina, mangiare dal tuo piattino d'oro, bere dal tuo bicchierino, dormire nel tuo lettino: se mi prometti questo; mi tufferò e ti riporterò la palla d'oro.
- Ah sì, - diss’ella, - ti prometto tutto quel che vuoi, purché mi riporti la palla.
Ma pensava: « Cosa va blaterando questo stupido ranocchio, che sta nell'acqua a gracidare coi suoi simili, e non può essere il compagno di una creatura umana! »
Ottenuta la promessa, il ranocchio mise la testa sott'acqua, si tuffò e poco dopo tornò remigando alla superficie; aveva in bocca la palla e la buttò sull'erba. La principessa, piena di gioia aI vedere il suo bel giocattolo, lo prese e corse via.
- Aspetta, aspetta! - gridò il ranocchio: - prendimi con te, io non posso correre come fai tu.
Ma a che gli giovò gracidare con quanta fiato aveva in gola! La principessa non 1'ascoltò, corse a casa e ben presto aveva dimenticata la povera bestia, che dovette rituffarsi nella sua fonte.
Il giorno dopo, quando si fu seduta a tavola col re e tutta la corte, mentre mangiava dal suo piattino d'oro - plitsch platsch, plitsch platsch - qualcosa salì balzelloni la scala di marmo, e quando fu in cima bussò alla porta e gridò: - Figlia di re, piccina, aprimi!
Ella corse a vedere chi c'era fuori, ma quando aprì si vide davanti il ranocchio.
Allora sbatacchiò precipitosamente la porta, e sedette di nuovo a tavola, piena di paura. Il re si accorse che le batteva forte il cuore, e disse: - Di che cosa hai paura, bimba mia? Davanti alla porta c'è forse un gigante che vuol rapirti?
- Ah no, - rispose ella, - non è un gigante, ma un brutto ranocchio.
- Che cosa vuole da te?
- Ah, babbo mio, ieri, mentre giocavo nel bosco vicino alla fonte, la mia palla d'oro cadde nell'acqua. E perché piangevo tanto, il ranocchio me l'ha ripescata; e perché ad ogni costo lo volle, gli promisi che sarebbe diventato il mio compagno; ma non avrei mai pensato che potesse uscire da quell'acqua. Adesso è fuori e vuol venire da me.
Intanto si udì bussare per la seconda volta e gridare:
- Figlia di re, piccina, aprimi!
Non sai più quel che ieri m'hai detto vicino alla fresca fonte? Figlia di re, piccina, aprimi!
Allora il re disse: - Quel che hai promesso, devi mantenerlo; va' dunque, e apri -.
Ella andò e aprì la porta; il ranocchio entrò e, sempre dietro a lei, saltellò fino alla sua sedia.
Lì si fermò e gridò: - Sollevami fino a te.
La principessa esitò, ma il re le ordinò di farlo. Appena fu sulla sedia, il ranocchio volle salire sul tavolo e quando fu sul tavolo disse: - Adesso avvicinami il tuo piattino d'oro, perché mangiamo insieme.
La principessa obbedì, ma si vedeva benissimo che lo faceva controvoglia.
Il ranocchio mangiò con appetito, ma a lei quasi ogni boccone rimaneva in gola. Infine egli disse: - Ho mangiato a sazietà e sono stanco; adesso portami nella tua cameretta e metti in ordine il tuo lettino di seta: andremo a dormire.
La principessa si mise a piangere: aveva paura del freddo ranocchio, che non osava toccare e che ora doveva dormire nel suo bel lettino pulito.
Ma il re andò in collera e disse: - Non devi disprezzare chi ti ha aiutato nel momento del bisogno.
Allora ella prese la bestia con due dita, la portò di sopra e la mise in un angolo.
Ma quando fu a letto, il ranocchio venne saltelloni e disse: - Sono stanco, voglio dormir bene come te: tirami su, o lo dico a tuo padre.
Allora la principessa andò in collera, lo prese e lo gettò con tutte le sue forze contro la parete: - Adesso starai zitto, brutto ranocchio!
Ma quando cadde a terra, non era più un ranocchio: era un principe dai begli occhi ridenti.
Per volere del padre, egli era il suo caro compagno e sposo.
Le raccontò che era stato stregato da una cattiva maga e nessuno, all'infuori di lei, avrebbe potuto liberarlo. Il giorno dopo sarebbero andati insieme nel suo regno. Poi si addormentarono.
La mattina dopo, quando il sole li svegliò, arrivò una carrozza con otto cavalli bianchi, che avevano pennacchi bianchi sul capo e i finimenti d'oro; e dietro c'era il servo del giovane re, il fedele Enrico.
Il fedele Enrico si era così afflitto, quando il suo padrone era stato trasformato in ranocchio, che si era fatto mettere tre cerchi di ferro intorno al cuore, perché non gli scoppiasse dall'angoscia. Ma ora la carrozza doveva portare il giovane re nel suo regno; il fedele Enrico vi fece entrare i due giovani, salì dietro ed era pieno di gioia per la liberazione. Quando ebbero fatto un tratto di strada, il principe udì uno schianto, come se dietro a lui qualcosa si fosse rotto.
Allora si volse e gridò:- Rico, qui va in pezzi il cocchio!
- No, padrone, non è il cocchio,
bensì un cerchio del mio cuore,
ch'era immerso in gran dolore,
quando dentro alla fontana
tramutato foste in rana.
Per due volte ancora si udì uno schianto durante il viaggio; e ogni volta il principe pensò che il cocchio andasse in pezzi; e invece erano soltanto i cerchi, che saltavano via dal cuore del fedele Enrico, perché il suo padrone era libero e felice.


di Jakob e Wilhelm Grimm




Scarpette Rosse
C'era una volta una povera orfana che non aveva scarpe.
La bimba conservava tutti gli stracci che riusciva a trovare finchè un bel giorno riuscì a confezionarsi un paio di scarpette rosse. Erano rozze, ma le piacevano. La facevano sentire ricca nonostante trascorresse, fino a sera inoltrata, le sue giornate a cercare cibo nei boschi.
Un giorno, mentre percorreva faticosamente una strada, vestita dei suoi stracci e con le scarpette rosse ai piedi, una carrozza dorata le si fermò accanto.
La vecchia signora che la occupava le disse che l'avrebbe portata a casa con sé e l'avrebbe trattata come una sua figlioletta.
Così andarono nella dimora della vecchia signora ricca, e là furono lavati e pettinati i capelli della bambina. Le furono dati biancheria fine, un bell'abito di lana e calze bianche e lucide scarpe nere.
Quando la bambina chiese dei suoi vecchi abiti, e in particolare delle scarpette rosse, la vecchia le rispose che, sudici e ridicoli com'erano, li aveva gettati nel fuoco.
La bimba era molto triste perché quelle umili scarpette rosse che aveva fatto con le proprie mani le avevano dato la più grande felicità. Ora era costretta a stare sempre ferma e tranquilla, a parlare senza saltellare e soltanto se interrogata.
Un fuoco segreto le si accese nel cuore e continuò a desiderare più di ogni altra cosa le sue vecchie scarpette rosse.
Poiché la bambina era abbastanza grande da ricevere la cresima, la vecchia signora la portò da un vecchio calzolaio zoppo, per acquistare una paio di scarpe speciali per l'occasione.
In vetrina facevano bella mostra di sé un paio di scarpe rosse confezionate con la pelle più morbida che si possa trovare.
La bimba, spinta dal suo cuore affamato, subito le scelse.
La vecchia signora ci vedeva così male che non si accorse del colore e glie le comprò. Il vecchio calzolaio strizzò l'occhio alla piccola e le incartò le scarpe.
Il giorno dopo, in chiesa, tutti rimasero sorpresi da quelle scarpe rosse che brillavano come mele lustrate, come cuori, come prugne ben lavate. Ma alla bimba piacevano sempre di più.
In giornata la vecchia signora venne a sapere delle scarpette rosse della sua pupilla.
"Non mettere mai più quelle scarpe" le ordinò minacciosa.
Ma la domenica dopo la bambina non potè fare a meno di mettersi le scarpette rosse, e poi si avviò alla chiesa con la vecchia signora. Sulla porta della chiesa c'era un vecchio soldato con il braccio al collo. S'inchinò, chiese il permesso di spolverare le scarpe e toccò le suole cantando una canzoncina che le fece venire il solletico ai piedi.
"Ricordati di restare per il ballo" e le strizzò l'occhio.
Anche questa volta tutti guardarono con sospetto le scarpette rosse della bambina.
Ma a lei piacevano tanto quelle scarpe lucenti, rosse come lamponi, come melagrane, che non riusciva a pensare ad altro. Era tutta intenta a girare e rigirare i piedini, tanto che si dimenticò di cantare.
Quando uscirono dalla chiesa, il vecchio soldato esclamò:
"Che belle scarpette da ballo!".
A quelle parole la bambina prese a piroettare e non riuscì più a fermarsi, tanto che parve avesse perduto completamente il controllo di sé. Danzò una gavotta e poi una csarda e poi un valzer, volteggiando attraverso i campi.
Il cocchiere della vecchia signora si lanciò all'inseguimento della bambina, la prese e la riportò nella carrozza, ma i piedini che indossavano le scarpette rosse continuavano a piroettare nell'aria. Quando riuscirono a togliergliele, finalmente i piedi della bambina si quietarono.
Di ritorno a casa, la vecchia signora lanciò le scarpette rosse su uno scaffale altissimo e ordinò alla bambina di non toccarle mai più. Ma lei non riusciva a fare a meno di guardarle e desiderarle. Per lei erano ancora la cosa più bella che si trovasse sulla faccia della terra.
Poco tempo dopo, mentre la signora era malata, la bambina strisciò nella stanza in cui si trovavano le scarpette rosse. Le guardò, là in alto sullo scaffale, le contemplò, e la contemplazione si trasformò in potente desiderio, tanto che la bambina prese le scarpe dallo scaffale e subito se le infilò, pensando che non sarebbe accaduto nulla di male.
Ma non appena le ebbe ai piedi subito si sentì sopraffatta dal desiderio di danzare.
Danzò uscendo dalla stanza, e poi lungo le scale, prima una gavotta, poi un csarda e poi un valzer vertiginoso. La bambina era in estasi, e si accorse di essere nei guai solo quando volle girare a sinistra e le scarpe la costrinsero a girare a destra, e volle danzare in tondo e quelle la obbligarono a proseguire. E poi la portarono giù per la strada, attraverso i campi melmosi e nella foresta scura.
Appoggiato a un albero c'era il vecchio soldato dalla barba rossiccia, con il braccio al collo.
"Oh che belle scarpette da ballo!" esclamò.
Terrorizzata, la bambina cercò di sfilarsi le scarpe, ma più tirava e più quelle aderivano ai piedi.
E così danzò e danzò sulle più alte colline e attraverso le valli, sotto la pioggia e sotto la neve e sotto la luce abbagliante del sole. Danzò nelle notti più nere e all'alba, danzò fino al tramonto. Ma era terribile: per lei non esisteva riposo. Danzò in un cimitero e là uno spirito pronunciò queste parole:
"Danzerai con le tue scarpette rosse fino a che non diventerai come un fantasma, uno spettro, finchè la pelle non penderà sulle ossa, finchè di te non resteranno che visceri danzanti. Danzerai di porta in porta per tutti i villaggi, e busserai tre volte a ogni porta, e quando la gente ti vedrà, temerà per la sua vita".
La bambina chiese pietà, ma prima che potesse insistere le scarpette rosse la trascinarono via.
Danzò sui rovi, attraverso le correnti, sulle siepi, e danzando danzando arrivò a casa, e c'erano persone in lutto. La vecchia signora era morta.
Ma lei continuava a danzare.
Entrò danzando nella foresta dove viveva il boia della città. E la mannaia appesa al muro prese a tremare sentendola avvicinare.
"Per favore" pregò il boia mentre danzava sulla sua porta, "Per favore mi tagli le scarpe per liberarmi da questo tremendo fato".
E con la mannaia il boia tagliò le cinghie delle scarpette rosse. Ma queste le restavano ai piedi.
E lei lo pregò di tagliarle i piedi, perché così la sua vita non valeva nulla. Il boia allora le tagliò i piedi.
E le scarpette rosse con i piedi continuarono a danzare attraverso la foresta e sulla collina e oltre, fino a sparire alla vista.
E ora la bambina era una povera storpia, e doveva farsi strada nel mondo andando a servizio da estranei, e mai più desiderò delle scarpette rosse.

di Hans Christian Andersen
 
3441721
3441721 Inviato: 17 Gen 2008 22:02
 

Sinbad il Marinaio
Durante il regno del califfo Harùn ar-Rashìd, Emiro dei credenti, viveva nella città di Baghdad un uomo chiamato Sindbad il Facchino, il quale era molto povero e per guadagnarsi da vivere portava dei carichi sopra la testa.
Ora avvenne che un giorno di gran caldo, mentre trasportava una cesta assai pesante che lo faceva sudare e faticare moltissimo, il povero Sindbad si trovò a passare davanti alla porta di una ricca dimora. La strada davanti alla casa era stata spazzata e innaffiata e dal giardino veniva un delizioso venticello.
Vedendo che accanto alla porta c'era una panca, Sindbad depositò a terra la cesta e si sedette per riprendere fiato in quel luogo delizioso. E mentre stava seduto, asciugandosi il sudore e riflettendo sulla miseria della sua condizione, il vento gli portò dall'interno della casa il profumo di cibi squisiti, il suono di musiche e canti, un rumore di voci allegre e scoppi di risa e il cinguettare meraviglioso di uccelli d'ogni specie.
Allora Sindbad il Facchino alzò gli occhi al cielo e disse:
" Sia lode a te, o Allah, Creatore di tutte le cose, Signore Onnipotente che distribuisci la ricchezza e la miseria. Tu non devi rendere conto a nessuno di ciò che fai ed ogni uomo ha quel che gli tocca. Vi sono quelli, come il padrone di questa casa, che sono agiati e felici, e vi sono quelli che, come me, sono poveri e afflitti! Eppure siamo tutti di uno stesso seme. Ma a me è toccato in sorte portare carichi pesanti e ricevere in cambio solo miseria e afflizione. Scommetto che il padrone di questa casa non ha mai toccato nemmeno con un dito una cesta pesante come questa; eppure, egli si ristora al fresco di questo giardino. La sua sorte assomiglia alla mia quanto il vino assomiglia all'aceto. Tuttavia non credere, Signore, che io mi lamenti. Tu sei Grande, Magnanimo e Giusto. E se Tu governi così il mondo, vuol dire che è giusto che il mondo sia governato così! "
Quando ebbe terminato questa invocazione, Sindbad fece per rimettersi in capo la cesta e riprendere il cammino, allorché dalla porta della casa uscì un giovane servo, bello e ben vestito, il quale, presolo per mano, gli disse:
" Entra, perché il mio padrone desidera vederti. "
Sindbad lasciò la sua cesta in consegna al portinaio e seguì il servo, che lo introdusse in un meraviglioso salone dal pavimento di marmo, coperto di tappeti preziosi, e dove era imbandita una mensa ricchissima. Tutto intorno, su meravigliosi, cuscini, sedevano persone di riguardo; al centro, nel posto d'onore, sedeva un uomo dalla lunga barba bianca e dall'aspetto grave, dignitoso e nobile.
" Per Allah! " pensò Sindbad il Facchino, " questo luogo deve essere la dimora dì qualche re o di qualche sultano! "
Poi si ricordò di compiere quelli atti che esige la buona educazione e, dopo avere salutato rispettosamente gli astanti, si inginocchiò davanti al padrone di casa e baciò la terra. Con molta amabilità il padrone di casa gli diede il benvenuto, poi lo fece sedere accanto a sé le lo invitò a gustare cibi e bevande che il povero Sindbad non aveva mai assaggiato in tutta la sua vita. Quando questi ebbe finito di mangiare e si fu lavato le mani,
" Sia lode a Dio! " disse e ringraziò tutti i presenti per le loro gentilezze.
Come vogliono le buone regole, solo quando vide che il suo ospite si era rifocillato il padrone di casa prese ad interrogarlo:
" Benvenuto in casa mia, e che la tua giornata sia benedetta! Ma dimmi, o mio ospite, come ti chiami e che mestiere fai? "
" Mi chiamo Sindbad il Facchino, o signore, e il mio mestiere consiste nel portare carichi sulla testa. "
Il padrone di casa sorrise e gli disse: " Sappi, o facchino, che il tuo nome è uguale al mio; infatti, io mi chiamo Sindbad il Marinaio. Ora vorrei pregarti di ripetere qui ciò che dicevi poco fa mentre stavi seduto fuori della porta di casa mia. "
Allora Sindbad il Facchino si senti pieno di vergogna e disse:
" Nel nome di Allah, non rimproverarmi per la mia insolenza! La fatica e la miseria rendono l'uomo sciocco e maleducato! "
Ma Sindbad il Marinaio gli disse: " Non devi vergognarti. Ripeti senza alcuna preoccupazione ciò che dicevi perché tu ora sei come mio fratello. "
Allora il Facchino, rassicurato, ripete le parole che aveva pronunciato sulla porta di casa. Quando ebbe terminato, Sindbad il Marinaio si rivolse a lui e gli disse:
" Sappi, o Facchino, che la mia storia è senza precedenti. Ora ti racconterò tutte le avventure che mi sono capitate e tutte le prove che ho dovuto subire prima di giungere a questa felicità e di poter abitare nel palazzo in cui tu mi vedi. Sentirai quanti disagi e quali terribili calamità io abbia dovuto affrontare per poter ottenere gli agi che circondano ora la mia vecchiaia. Sappi dunque che io ho fatto numerosi viaggi, e ogni viaggio fu un'avventura meravigliosa, tale da destare in chi l'ascolta uno stupore senza limiti. Ma tutto ciò che ora ti racconterò è avvenuto perché era scritto, e da ciò che è scritto non v'è scampo né rimedio! ".




Primo viaggio di Sinbad il Marinaio

Sappiate, o illustri signori, e te, onesto Facchino, che mio padre era mercante di professione e uno dei più ricchi che ci fossero nel suo tempo. Quando mio padre morì, mi lasciò grandi ricchezze in denaro, merci, case e terreni. Io, purtroppo, nella insipienza della gioventù, presi a frequentare compagnie dissipate, passavo il mio tempo a bere e giocare e in festini e in conviti e non mi avvedevo che le mie ricchezze, per quanto grandi fossero, andavano sempre più scemando. Un giorno, finalmente, mi riscossi da quel mio stordimento e mi accorsi che tutte le mie sostanze erano dilapidate. Mi ricordai allora delle parole del nostro signore Salomone, figlio di Davide;
" Tre cose sono migliori di tre altre: il giorno della morte è meglio del giorno della nascita, un cane vivo è meglio di un leone morto, la tomba è preferibile alla povertà. "
Misi insieme allora quel poco che mi era rimasto e lo vendetti all'incanto ricavandone tremila dirham. Poi ricordai il verso del poeta:
"Chi vuole la gloria senza fatica, passerà la vita inseguendo un sogno impossibile."
Senza por tempo in mezzo, mi recai al suk, dove acquistai per duemila dirham di merci. Quindi con la mia roba salii su una nave, dove erano già imbarcati diversi mercanti, e scesi lungo il Tigri fino a Bassora. Di qui la nave spiegò le vele verso il mare aperto.
Viaggiammo per giorni e notti, toccando un'isola dopo l'altra e una terra dopo l'altra; e in ogni luogo dove ci fermavamo scendevamo a terra a vendere ed a scambiare le merci.
Un giorno, dopo che navigavamo da parecchio tempo senza avere avvistato un solo lembo di terra, improvvisamente vedemmo sorgere davanti a noi un'isola che sembrava il paradiso. Il capitano fece vela verso l'isola e, ormeggiata la nave, scendemmo tutti a terra, dove alcuni prepararono i fornelli per cucinare, altri si misero a passeggiare contemplando le bellezze del luogo. Io fui fra questi ultimi.
Mentre ce ne stavamo così, godendoci la bellezza di quel sito, a un tratto sentimmo la terra che tremava sotto i nostri piedi e udimmo il capitano che, sporgendosi dalla murata della nave, gridava:
" Passeggeri, salvatevi! Fate presto! Risalite subito a bordo! Lasciate ogni cosa, se tenete alla vita! Fuggite l'abisso che si spalanca sotto di voi! Perché l'isola su cui vi trovate non è un'isola, ma una balena gigantesca, che da tempo immemorabile si è adagiata in mezzo al mare. La balena è rimasta così da tanto tempo che il mare l'ha ricoperta di sabbia, e le sono cresciuti sul dorso gli alberi che vedete! Voi, accendendo i fuochi per cucinare, l'avete risvegliata, ed ecco che ora si muove e vi trascinerà con sé negli abissi! Salvatevi, abbandonate tutto! " .
Udendo queste parole del capitano, i passeggeri, presi dal terrore, si misero a correre verso la nave abbandonando le loro robe, i fornelli, le pentole. Ma la balena era già in movimento e la nave stava già levando le ancore, così che solo alcuni riuscirono a salire a bordo. Gli altri, quelli che si trovavano più lontano o che si erano attardati a raccogliere le loro cose, furono travolti dalle onde e sommersi nel mare profondo.
Io fui fra questi ultimi. Ma Allah Altissimo e Misericordioso mi salvò dalla morte facendomi capitare sotto mano un grosso mastello di legno, di quelli che si usano per fare il bucato. Io mi ci misi sopra a cavalcioni e muovendo disperatamente i piedi come fossero remi cercai di raggiungere la nave che si allontanava a vele spiegate. La seguii per un pezzo, finché non la vidi sparire all'orizzonte, e mi ritrovai in mezzo al mare, solo e derelitto, sicuro ormai di morire.
Per una notte e un giorno, fui sballottato dalle onde e dai venti. Alla fine le correnti marine mi gettarono contro un'isola rocciosa. Aiutandomi con le mani e con i piedi riuscii ad attaccarmi a dei cespugli e a salire in cima alle scogliere. Quando toccai terra, mi esaminai il corpo e vidi che era tutto gonfio e martoriato e che i piedi recavano i segni dei morsi dei pesci. Ma non sentivo alcun dolore, tanto ero sfinito. Mi gettai a terra e per la stanchezza svenni. Rimasi a lungo così, in questo stato d'incoscienza, e mi risvegliai solo al secondo giorno, quando il sole cominciò a battermi addosso.
Feci per alzarmi in piedi ma le gambe, gonfie e piagate, non mi reggevano. Considerai la miseria del mio stato, ma con la forza della disperazione cominciai a trascinarmi per terra, fino a che, dopo molto patire, giunsi in mezzo ad una pianura, dove scorrevano ruscelli e crescevano alberi da frutta. Rimasi in quel luogo molti giorni, bevendo l'acqua dei ruscelli e mangiando la frutta, finché non mi sentii guarito e rifocillato. Quando fui in grado di alzarmi, mi fabbricai un bastone con il ramo di un albero e cominciai a passeggiare ammirando tutto ciò che Allah aveva creato su quella terra.
Un giorno, che camminavo lungo la spiaggia del mare, vidi di lontano qualcosa che mi parve essere una bestia selvaggia o un mostro marino. Curiosità e paura si combattevano in me, sì che facevo dieci passi avanti e cinque indietro. Alla fine mi feci coraggio e, avvicinandomi, potei vedere che si trattava di una bellissima giumenta, legata a un paletto sulla riva del mare. Mentre stavo là a contemplare la bestia, essa emise un alto nitrito ed ecco che da sotto terra sbucò un uomo, il quale mi venne dietro gridando:
" Chi sei tu? E da dove vieni? Per quale motivo ti sei avventurato fin qui? "
" Signore, " risposi, " sappi che io sono uno straniero e mi trovavo insieme ad altri passeggeri su una nave che ha fatto naufragio. Tutti i miei compagni sono morti, ma Allah mise fra le mie gambe un mastello che mi tenne a galla e così arrivai sino alle sponde di questa terra. "
Quando quell'uomo ebbe udito le mie parole, mi prese per mano e mi disse: " Seguimi! "
Scendemmo in una caverna sotterranea ed entrammo in una grande sala, dove mi fece sedere e dove mi portò da mangiare. Poiché avevo fame, mangiai di buon appetito e quando egli vide che ero rifocillato e il mio animo era tranquillo, mi chiese di raccontargli per filo e per segno tutto ciò che mi era accaduto; io gli raccontai la mia storia fin dal principio senza trascurare nulla, ed egli dimostrò grande meraviglia. Quando ebbi finito il mio racconto, gli dissi:
" In nome di Allah, signore, non prendertela con me se ora ti chiedo una cosa. Io ti ho raccontato la verità sulla mia condizione. Ora vorrei che tu mi dicessi chi sei e per quale motivo abiti in questa sala sotterranea e perché tieni una giumenta legata sulla riva del mare! "
" Sappi, " mi rispose, " che siamo in parecchi sparsi sulle spiagge di quest'isola e siamo tutti guardiani dei cavalli del re Mihragiàn. Tutti i mesi, quando c'è la luna nuova, scegliamo una giumenta di razza e la leghiamo sulla riva del mare, poi ci nascondiamo in queste caverne sotterranee. Ed ecco che, attirato dall'odore della femmina, esce dal mare un cavallo marino e si guarda intorno e non vedendo nessuno piomba sulla giumenta e la copre. Quando ha finito di montarla si avvia verso il mare, ma la giumenta che è legata non può seguirlo e allora comincia a nitrire e a scalpitare. E il cavallo marino grida e la colpisce con la testa e con le zampe. Allora noi che siamo nascosti qui sotto sappiamo che il cavallo marino ha finito di montare la giumenta e usciamo fuori dal nostro nascondiglio e cominciamo a correre e a gridare e il cavallo marino spaventato si tuffa di nuovo tra i fiotti. Così la giumenta, fecondata, rimane pregna e partorisce un puledro che vale un tesoro, perché non ve ne sono di eguali sulla terra. E proprio oggi è il giorno in cui verrà il cavallo marino. Quanto a me, ti prometto di accompagnarti, quando tutto sarà finito, dal nostro re Mihragiàn e di farti conoscere il nostro paese benedici Allah, il quale ha fatto sì che io t'incontrassi, perché senza di me tu saresti morto di tristezza e di solitudine su quest'isola e nessuno dei tuoi amici e dei tuoi parenti avrebbe più saputo nulla di te. "
Invocai su di lui le benedizioni di Allah e lo ringraziai per la sua cortesia; e mentre stavamo ancora parlando, ecco che uscì dal mare lo stallone; si guardò intorno e, dopo aver cacciato un forte nitrito, saltò sulla cavalla e la coprì. Quando ebbe terminato smontò dalla giumenta e voleva portarsela via con sé, ma quella non poteva muoversi a causa del paletto, e tirava calci e nitriva. In quel momento uscì fuori dalla caverna il guardiano della giumenta con in mano una spada e uno scudo che percuoteva facendo un grande fracasso. E intanto andava chiamando i suoi compagni che sbucavano di sotto terra da tutte le parti, anch'essi gridando e facendo baccano. Allora lo stallone impaurito lasciò la giumenta e tuffatosi nelle acque sparì sotto la superficie del mare. Quando tutto fu finito, anche gli altri palafrenieri, che recavano a mano una giumenta ciascuno, mi vennero vicino e mi chiesero chi fossi e di dove venissi.



Io raccontai a loro tutta la mia storia, ed essi si felicitarono con me, poi stesero per terra la tovaglia e ci rifocillammo. Dopo mangiatO mi fecero salire su una delle loro cavalle, e così viaggiammo fino a che non giungemmo nella città dove abitava il re Mihragiàn. Giunti che fummo a destinazione, i palafrenieri si recarono dal loro sovrano e lo informarono del mio arrivo, e questi chiese che io gli fossi condotto dinanzi. Il re Mihragiàn mi salutò con molta amicizia, dandomi il benvenuto, poi mi chiese di raccontargli la mia straordinaria avventura e quando ebbi finito esclamò:
" Per Allah, figlio mio, la tua salvezza è davvero un fatto miracoloso! Se tu non fossi destinato a vivere a lungo, non saresti scampato al naufragio; sia lodato Allah che ti ha tratto in salvo! "
Ciò detto, mi parlò con amicizia e considerazione, colmandomi di doni e di onori, e mi nominò anche capo del porto incaricandomi di tenere il registro di tutte le navi che entravano e uscivano. Così io presi a frequentare regolarmente il sovrano, il quale non mancava di dimostrarmi la sua benevolenza preferendomi a tutti gli altri suoi intimi e ricoprendomi di vesti preziose.
Salii a tal punto nella sua stima che la gente, quando aveva bisogno di qualche cosa, chiedeva a me di intercedere presso il sovrano. Nonostante tutto questo, però, non avevo dimenticato il mio paese e, ogni volta che mi trovavo a passare per il porto e vedevo giungere una nave, mi affrettavo a interrogare ì marinai sulla mia città, chiedendo loro se avessero notizie di Baghdad. E invariabilmente quelli mi rispondevano di non aver mai sentito nominare una città simile e di non sapere nemmeno dove si trovasse. Mi convinsi così che non avrei mai più veduto il mio paese e avrei dovuto finire i miei giorni in terra straniera. Un giorno, recatomi a trovare il re Mihragiàn, lo trovai in compagnia di alcuni signori indiani i quali mi chiesero notizie del mio paese ed io chiesi ad essi notizie del loro. Costoro mi dissero che gli indiani erano tutti divisi in caste,e che le caste più importanti erano quella degli Kshatria, composta da uomini nobili e giusti che non commettevano mai soprusi né facevano violenza a nessuno, e quella dei Bramani, i quali sono della gente che non beve vino ma ama trascorrere la vita in lieta serenità e possiede cammelli, cavalli ed armenti. Mi dissero anche che il popolo indiano è diviso in settantadue caste, che non hanno rapporti fra loro, il che mi stupì grandemente.
Fra le altre cose che vidi nelle terre del re Mihragiàn, c'era un'isola chiamata Kasil, dove ogni notte e per tutta la notte si sentivano suonare tamburi e tamburelli; ma sia gli abitanti delle isole vicine, sia i viaggiatori mi assicurarono che il popolo di quell'isola era composto da gente seria ed assennata. In quel mare vidi anche un pesce lungo duecento cubiti e molto temuto dai pescatori; vidi anche un altro pesce che aveva la testa simile a quella di un gufo e molte altre cose rare e meravigliose che sarebbe troppo lungo riferire.
Occupavo così il mio tempo visitando le isole, finché un giorno, che me ne stavo nel porto con il mio bastone in mano secondo l'abitudine che avevo preso, osservai una grande nave carica di mercanti che entrava in porto. Quando la nave si fu accostata alla banchina che è sotto le mura della città, il capitano ordinò di ammainare le vele e di ormeggiare il bastimento. Ciò fatto, misero fuori una passerella e i marinai cominciarono a scaricare le mercanzie mentre io, che stavo lì accosto, ne prendevo nota.
Alla fine chiesi al capitano: "E' rimasto niente altro nella tua nave? "
E quello mi rispose: " Signore, nella stiva sono rimaste diverse balle di mercanzia il cui proprietario è annegato durante il viaggio. Noi le abbiamo prese in consegna ed ora ci ripromettiamo di venderle facendone registrare il prezzo, che consegneremo poi ai parenti dello scomparso quando torneremo a Baghdad, città della pace. "
" E quale era il nome di questo mercante? " m'informai.
" Si chiamava Sindbad il Marinaio, " rispose il capitano.
Allora io lo guardai più dappresso e lo riconobbi e, gettato un gran grido, esclamai: " Capitano! Sappi che sono io quel Sindbad il Marinaio che viaggiava con voi; e quando il pesce si mosse e tu ci chiamasti, alcuni riuscirono a mettersi in salvo ed altri caddero in acqua; io fui fra questi. Ma Allah Onnipotente mi mise a portata di mano un mastello di legno al quale mi aggrappai, e i venti e le correnti marine mi gettarono su questa isola dove per grazia di Allah, incontrai alcuni servi del re Mihragiàn che mi condussero dal loro signore. E quando gli ebbi raccontato la mia storia egli mi colmò di benefici e mi nominò sovrintendente del porto. E in questa carica, come tu mi vedi, ho vissuto con larghezza, beneficato dal favore del sovrano. Perciò le balle che tu hai nella nave sono mie. "
Allora il capitano esclamò: " Non c'è maestà né potenza se non in Allah, il Glorioso, il Grande! Bisogna dire però che fra gli uomini non è rimasta né coscienza né buona fede! "
" Capitano, " dissi io, " Che significano queste parole, dopo che ti ho raccontato la mia storia? "
E quello rispose: " Quando hai sentito che avevo nella stiva queste merci il cui proprietario era annegato, hai pensato bene di volertele prendere con l'inganno. Ma non potrai farlo, perché noi l'abbiamo visto sprofondare nel mare con i nostri occhi, insieme con molti altri passeggeri, nessuno dei quali si è salvato. Quindi, come puoi pretendere di essere il padrone di queste merci? "
" Capitano, " dissi io, " ascolta tutta la mia storia senza prevenzioni e la verità ti apparirà manifesta. "
Così gli raccontai per filo e per segno tutto quanto mi era accaduto da quando ero partito da Baghdad fino al momento in cui eravamo sbarcati sul pesce isola, dove per poco non facemmo naufragio tutti; gli rammentai anche alcuni particolari che solo io e lui potevamo conoscere. Allora il capitano e i mercanti si convinsero che dicevo la verità e si complimentarono con me per la mia salvezza. Dopo di che il capitano mi consegnò le merci, e su ogni balla trovai scritto il mio nome e vidi che non mancava nulla. Cercai allora fra le mie robe e trovai un oggetto prezioso, e con quello mi recai dal sovrano al quale lo offrii in omaggio raccontandogli tutto quanto era avvenuto poco prima al porto.



Il re si stupì moltissimo di questo fatto e contraccambiò il mio regalo con ricchi doni. Nei giorni che seguirono, vendetti le mie merci guadagnando molto denaro e comprai altre mercanzie e oggetti tipici di quel paese. Poi, quando il capitano della nave mi annunciò che aveva intenzione di partire, andai dal re Mihragiàn, lo ringraziai della bontà che aveva avuto per me e gli chiesi licenza di tornare in patria, per rivedere il mio paese, la famiglia, gli amici.
Il re acconsentì di buon grado e mi regalò altre merci e prodotti della sua terra; poi mi congedò affabilmente e io, sceso al porto, m'imbarcai. Poiché così piacque ad Allah, viaggiammo senza inconvenienti per giorni e per notti e alla fine giungemmo a Bassora, dove sbarcai, felice di essere tornato sano e salvo sul suolo natio.
Rimasi alcuni giorni a Bassora, poi, portando meco grandi quantità di merci rare e preziose, partii per Baghdad, città della pace, ove entrai dopo un felice viaggio e, giunto nel mio quartiere e nella mia casa, amici e parenti vennero tutti a salutarmi e a rallegrarsi con me. Grazie al denaro che avevo, e alla gran copia di merci che avevo portato con me e che vendetti, acquistai eunuchi e concubine e schiavi e comprai case e giardini e terre, diventando cosi più ricco di quanto lo fossi stato prima.
Allora, senza darmi alcun pensiero al mondo, mi misi a frequentare gli amici trascorrendo con loro il tempo, dimentico dei pericoli, degli affanni e delle pene che avevo patito durante quel viaggio avventuroso. Gustai ogni piacere ed ogni delizia, mangiai cibi raffinati e bevvi vini squisiti, e andai avanti in questo modo per parecchio tempo, ché le mie ricchezze mi permettevano di condurre questo treno di vita.
Questa è la storia del mio primo viaggio, e domani, se Allah lo vuole, vi racconterò il secondo dei miei numerosi viaggi. Quindi Sindbad il Marinaio ordinò che venissero date a Sindbad il Facchino cento monete d'oro e gli disse:
" La tua presenza ci è stata molto gradita oggi." Il Facchino lo ringraziò e, preso il dono, se ne andò per la sua strada, riflettendo su quanto aveva udito e non cessando di meravigliarsi per le cose incredibili che possono capitare a un uomo. Quando si fece giorno, tornò a casa di Sindbad il Marinaio, che lo ricevette con gentilezza e lo fece sedere accanto a sé. Non appena gli altri amici del padrone di casa furono arrivati, vennero approntate le mense e tutti mangiarono e bevvero a sazietà.





Da Le Mille e una Notte



Secondo viaggio di Sindbad il Marinaio
Sappiate, fratelli miei, che io vivevo, come vi ho detto ieri, una vita serena ed agiata e non mi mancava nulla, fino a che un giorno nell'animo mio tornò a nascere il desiderio di viaggiare nei paesi degli uomini visitando isole e città nuove. Una volta che tale desiderio si fu insinuato nell'animo mio, non ebbi pace fino a che non presi la decisione.
Raccolsi tutto il denaro liquido che avevo in casa, acquistai gran copia di merci e di provviste e scesi sulla riva del Tigri, dove vidi, in procinto di salpare, una bella nave nuova di zecca, con grandi vele di tela robusta, bene attrezzata ed equipaggiata. Insieme con altri mercanti salii a bordo, dopo aver fatto caricare tutte le mie merci, e quello stesso giorno salpammo le ancore.
Navigammo felicemente per diversi mari, toccando porti e isole, e dovunque scendevamo a terra, salutati dalla gente, dai mercanti e dai notabili del luogo e concludevamo buoni affari vendendo e comprando.
Alla fine Allah volle che prendessimo terra in un'isola amena, tutta verdeggiante di alberi, dai quali pendevano frutti saporosi. L'aria di quest'isola era profumata dai fiori e risuonava per il canto di numerosi uccelli; dovunque scorrevano ruscelli d'acqua limpida e cristallina ma, per quanto cercassimo, non scorgemmo alcuna traccia di uomini: non vedemmo né abitanti né case.
Il capitano mise la nave alla fonda e i mercanti scesero a terra per godersi la frescura degli alberi, il profumo dei fiori e il canto degli uccelli, lodando l'Unico, il Vittorioso, l'Onnipotente che aveva creato tali meraviglie. Anch'io scesi con gli altri portando a terra qualche provvista. e mi sedetti vicino ad una fonte mangiando quello che Allah mi aveva destinato.
L'aria in quel luogo era così dolce, il profumo dei fiori cosi fragrante, che, dopo mangiato, mi stesi sull'erba per fare un pisolino. Quando mi svegliai, mi trovai solo; la nave era partita con tutti i suoi passeggeri e nessuno si era ricordato di me.
Cominciai a cercare affannosamente a destra e a sinistra, ma non trovai né uomini né spiriti. Ero completamente solo su quell'isola disabitata. Mi prese allora un grande sconforto e la vescica del fiele fu sul punto di rompersi per l'amarezza e l'afflizione. Disperando di poter mai uscire da quel luogo mi dissi:
" Cadi oggi e cadi domani, la giara finisce per rompersi! La prima volta riuscii a salvarmi perché qualcuno mi ricondusse nei paesi abitati, ma questa volta temo proprio che non vi sia speranza per me! ".
In un accesso di rabbia contro me stesso, mi misi a piangere e a gemere, rimproverandomi di avere voluto affrontare ancora una volta le incertezze e i pericoli di un viaggio per mare, quando a casa non mi mancava nulla e avevo tutto ciò che potevo desiderare e trascorrevo una vita serena e felice. Mi pentii amaramente di aver lasciato Baghdad, soprattutto dopo aver fatto l'esperienza del primo viaggio, durante il quale poco era mancato ch'io non perdessi la vita.
Allora esclamai: " Noi siamo cose di Allah ed a lui dobbiamo ritornare! "
Sentendomi impazzire, quasi in preda a un sortilegio, cominciai a camminare avanti e indietro senza sapere dove andassi né che cosa facessi. Alla fine mi arrampicai su un albero altissimo e cominciai a scrutare l'orizzonte, ma non vidi altro che cielo e mare, alberi e uccelli, isole e sabbia. Tuttavia, dopo un poco, guarda che ti riguarda, scorsi in lontananza verso l'estremità dell'isola una forma biancheggiante. Scesi dall'albero e mi diressi a quella volta e, quando fui abbastanza vicino, mi accorsi che quell'oggetto bianco era una grande cupola che si levava alta verso il cielo.
Cominciai à girarle intorno, ma non riuscii a trovare né porte né pertugi. Cercai di arrampicarmi, ma la cosa mi riuscì impossibile, perché la cupola era straordinariamente liscia e non offriva alcun appiglio. Tracciai un segno per terra nel luogo in cui mi trovavo e girai attorno alla cupola constatando che la sua circonferenza era di buoni cinquanta passi. Mentre me ne stavo lì a lambiccarmi il cervello sul modo migliore di entrare in quella cupola, ecco che d'un tratto il sole si oscurò, come se una grande nuvola lo avesse coperto. La cosa mi meravigliò moltissimo perché eravamo d'estate e il cielo era limpido e terso; allora levai in alto gli occhi e vidi un uccello dalla mole enorme e dalle ali larghissime che, volando nell'aria, aveva nascosto completamente il sole all'isola.
A quella vista il mio stupore non ebbe limiti; ma subito ricordai di aver sentito viaggiatori e pellegrini raccontare di un uccello enorme, chiamato Rukh, che abitava in una certa isola e che nutriva i suoi piccoli con gli elefanti. Non ebbi più dubbi che la cupola che aveva attirato la mia attenzione fosse un uovo del Rukh. Mentre io non finivo di meravigliarmi per le opere dell'Onnipotente, l'uccello si posò sulla cupola e cominciò a covarla, accovacciandosi con le zampe tese indietro. In questa posizione si addormentò, sia lode all'Insonne!
Quando fui sicuro che l'uccello dormiva, mi avvicinai, sciolsi il turbante e lo attorcigliai facendone una corda robusta e molto resistente e me ne legai strettamente un capo alla vita; l'altro capo lo assicurai a una zampa dell'uccello dicendomi:
" Chissà che questo uccello non mi porti in una terra dove siano uomini e città; questo sarà meglio che rimanere in un'isola deserta. "
Quella notte non dormii per tema che l'uccello volasse via all'improvviso. Non appena apparve in cielo il primo chiarore dell'alba, il Rukh si alzò dall'uovo, spalancò le enormi ali e, gettando un grido assordante, si levò in volo trascinandomi con sé. Salì e salì tanto in alto che pensai avesse raggiunto il limite del cielo; poi, a poco a poco cominciò a discendere fino a che prese terra in cima ad un'alta collina.
Non appena mi sentii la terraferma sotto i piedi, mi affrettai, con mani tremanti dalla paura, a scioglierne dal Rukh temendo che si accorgesse di me. Tuttavia l'uccello non mi prestò alcuna attenzione, ma si guardò in giro e dopo un poco vidi che aveva afferrato fra gli artigli qualcosa. Guardai più attentamente e mi accorsi che si trattava di un serpente dalle proporzioni smisurate. Tenendo ben stretta fra le zampe la sua preda, l'uccello si levò di nuovo in volo e dopo poco sparì dalla vista.
Pieno di meraviglia per ciò che mi era capitato e che avevo visto, avanzai fino al ciglio della collina e vidi al miei piedi una valle ampia e profonda, circondata da monti la cui altezza sarebbe impossibile descrivere; basterà dire che erano tanto alti che l'occhio umano non riusciva a scorgerne le vette. Quando ebbi visto il luogo in cui mi trovavo, esclamai:
" Avesse voluto il cielo che fossi rimasto su quell'isola! Quanto era meglio di questo deserto! Per lo meno laggiù c'era frutta da mangiare e acqua da bere, mentre qui non vi sono né alberi, né frutti, né ruscelli. Ma non vi è né grandezza né potenza se non in Allah, il Glorioso! Mi par proprio che il mio destino sia quello di scampare da un pericolo per cadere in un pericolo maggiore. "



Tuttavia mi feci coraggio e scesi verso la valle per esplorarla meglio. E fu allora che mi accorsi che il fondo della valle era fatto di diamanti, ma vidi anche, purtroppo, che il luogo era popolato di serpenti grossi come tronchi di palma, capaci di mangiare con un solo boccone un elefante o un bufalo, e tutti questi serpenti di giorno si nascondevano per paura dell'uccello Rukh e di notte uscivano fuori dai loro antri. Vedendo ciò, non potei fare a meno di esclamare:
" Per Allah, quanta fretta ho avuto di precipitarmi verso la morte! " Poiché il giorno stava per finire, pensai di cercare un nascondiglio dove passare la notte al riparo da quei serpenti spaventosi.
Guarda e guarda, alla fine scorsi una caverna con una entrata stretta; mi infilai in quel pertugio, feci rotolare una grossa pietra bloccandone l'ingresso e mi sedetti per terra tirando un sospiro di sollievo e dicendomi:
" Se Dio vuole, per questa notte sono in salvo; domani non appena farà giorno uscirò e vedrò quello che il destino tiene in serbo per me! ".
Ciò detto mi guardai intorno e allora i capelli mi si rizzarono sulla testa dalla paura e cominciai a sudare freddo, perché in fondo alla caverna c'era un enorme serpente acciambellato, intento a covare le sue uova. Mi raccomandai allora ad Allah misericordioso e, cercando di non muovermi e di non fare rumore, mi rincantucciai in un angolo e trascorsi la nottata in preda al timore. Appena si fece giorno, tolsi la pietra dall'apertura dell'antro e uscii fuori, barcollando come un ubriaco, stordito dall'insonnia, dalla fame e dalla paura.
Cominciai a girare per la valle pensando al modo di uscirne, quand'ecco che d'un tratto mi vidi cadere davanti ai piedi una bestia scannata. Alzai gli occhi e non vidi nessuno. Me ne stavo ancora stupito da quest'altro fenomeno , quando mi ricordai di aver sentito raccontare una volta da viaggiatori e mercanti che le montagne di diamanti sono luoghi pieni di pericoli e inaccessibili, ma che coloro i quali cercano i diamanti usano uno stratagemma per appropriarsene. Dall'alto di un monte gettano in fondo alla valle pecore scannate e quarti di bue, e le pietre di diamante che sono in fondo alla valle si attaccano alla carne ancora fresca.
I mercanti rimangono poi in attesa fino a che, a giorno fatto, non sopraggiungono aquile ed avvoltoi che, scorgendo la preda, la afferrano con gli artigli e se la portano in cima al monte. I mercanti piombano allora addosso agli uccelli emettendo alte grida e spaventandoli, così che quelli volano via. Allora essi tolgono le pietre di diamante rimaste attaccate alla carne fresca e se ne tornano ai loro paesi con il carico prezioso lasciando la carne alle aquile e agli avvoltoi. Né pare vi sia altro mezzo, se non questo, per impadronirsi dei diamanti.
Così, quando mi vidi cadere davanti quell'animale sgozzato, mi ricordai di questa storia e subito corsi a riempirmi le tasche, le pieghe dell'abito, il turbante con le pietre più belle che riuscii a trovare. Mentre ero intento a far ciò, ecco che mi vidi cadere davanti ai piedi un'altra bestia, più grande, sgozzata. Allora mi legai ad essa con il turbante e mi distesi per terra, lasciando che la carcassa dell'animale mi coprisse tutto.
Mi ero appena messo in posizione, quand'ecco una grossa aquila calò giù dal cielo, afferrò la carne con gli artigli e volò via trasportando anche me, che stavo aggrappato alla carcassa dell'animale ucciso. E tanto volò che giunse in cima a un monte, dove si posò. E stava per azzannare l'animale, sotto il quale io ero nascosto, quand'ecco si udirono strepiti e grida e l'aquila impaurita volò via. Allora io mi sciolsi dalla carcassa e mi alzai in piedi. Ed ecco che apparve il cercatore di diamanti che aveva gettato in fondo alla valle quella carcassa e vedendomi lì in piedi si prese paura non sapendo se io fossi un uomo o uno spirito. Poi si fece coraggio, si avvicinò alla bestia e non trovandovi alcun diamante attaccato cominciò a gemere e a lamentarsi battendo il petto:
" Povero me! Povero me! Solo nella maestà e nella potenza di Allah troviamo rifugio contro Satana il lapidato! Ahimè, povero me! Che faccenda è questa? "
Allora io mi avvicinai a lui ed egli mi disse:
" Chi sei tu e come mai ti trovi in questo luogo? "
E io: " Non temere. Io sono un uomo e non uno spirito: sono un onest'uomo e faccio il mercante. La mia storia è incredibile, le mie avventure sono meravigliose e il modo in cui sono giunto qui è prodigioso. Dunque sta' di buon animo e non temere nulla da me; e anzi, per dimostrarti la mia buona disposizione, ti darò tanti diamanti quanti tu non ne avresti mai potuti trovare attaccati a questa carne e più belli di quelli che tu abbia mai raccolto. Perciò, non temere nulla. "
A queste parole l'uomo si rallegrò e mi ringraziò e mi benedisse. Poi ci mettemmo a chiacchierare insieme, fino a che gli altri cercatori, sentendomi discorrere con il loro compagno, si fecero avanti e mi salutarono. Allora io raccontai tutta la mia storia e dissi delle sofferenze che avevo patito e del modo in cui ero giunto in fondo a quella valle. Quindi diedi al padrone della bestia macellata un certo numero di pietre fra quelle che avevo indosso ed egli fu molto contento ed invocò su di me ogni benedizione dicendo:
" Allah deve averti decretato una nuova vita, perché nessuno prima di te è mai sceso in quella valle e ne è uscito vivo. Sia dunque lodato Allah per la tua salvezza. "



Passammo la nottata in un luogo sicuro e piacevole, mentre io mi rallegravo per essere scampato alla valle dei serpenti e per essere giunto fra persone civili. La mattina di poi ci mettemmo in viaggio, attraversando l'imponente catena di monti e vedendo molti serpenti nella valle, finché alla fine giungemmo in una bellissima isola, dove c'era un giardino con grandissimi alberi di canfora, ognuno dei quali, con i suoi rami, poteva fare ombra a cento uomini .
Quando gli abitanti del posto hanno bisogno di canfora, con un lungo ferro fanno un buco nella parte superiore del tronco, ed ecco che dal buco esce acqua di canfora, che sarebbe la linfa dell'albero, ed essi la raccolgono in grandi recipienti dove subito diventa densa come resina. Però dopo questa operazione l'albero muore ed è buono solo per farne legna da ardere.
In questa stessa isola c'è una specie di bestia selvatica, chiamata karkadann, che pascola nei prati come da noi le vacche e i bufali, ma il suo corpo è più grande di quello di un cammello e si ciba di foglie d'alberi e di arbusti. È, un animale notevole, con un corno grande e grosso, lungo dieci cubiti, piazzato in mezzo alla fronte. e se questo corno si spacca in due dentro vi si vede la figura di un uomo.
Viaggiatori e mercanti dicono che questa bestia, chiamata karkadann, ha tanta forza che è capace di portare infilzato sul corno un elefante e continuare a pascolare per l'isola e lungo la costa senza avvedersene, fino a che l'elefante muore e il suo grasso, sciogliendosi al calore del sole, scorre negli occhi del karkadann e lo acceca. Allora l'animale si getta a terra sulla spiaggia adagiato su un lato e poi arriva il grande uccello Rukh, che lo afferra tra gli artigli e lo porta ai suoi piccoli i quali si cibano del karkadann e dell'elefante che ha infilzato sul corno.
In quell'isola vidi anche molte specie di buoi e di bufali che non hanno nulla a che vedere con quelli che si trovano nei nostri paesi. Colà vendetti una parte dei diamanti, cambiandoli in dinàr d'oro e in dirham d'argento, e con altri comprai alcuni prodotti del luogo; poi, dopo aver caricato su bestie da soma le merci, continuai a viaggiare con i mercanti di valle in valle e di città in città comprando e vendendo, osservando i paesi stranieri e le opere e le creature di Allah, fino a che giungemmo alla città di Bassora dove sostammo qualche giorno; dopo di che, congedatomi dai mercanti, continuai il mio viaggio verso Baghdad.
Qui giunto, mi riunii agli amici e ai parenti, dispensai il denaro in elemosine ed opere di carità e feci ai miei amici molti regali con gli oggetti che avevo portato dai paesi stranieri. Poi, col cuore leggero e con l'animo sgombro da ogni affanno, pensai solo a mangiare bene, a bere meglio e a trascorrere il tempo serenamente. E tutti quelli che udivano del mio ritorno a casa venivano a trovarmi e mi facevano una quantità di domande sulle avventure che avevo avuto e sui paesi stranieri che avevo visto. Ed io raccontavo loro tutto ciò che mi era successo e quello che avevo sofferto, e questo era motivo per tutti di grande gioia e non v'era chi non si rallegrasse perché ero tornato sano e salvo.
In tal modo si conclude la storia del mio secondo viaggio e domani, se Allah lo vuole, vi racconterò quello che mi accadde durante il terzo viaggio.
Quando i presenti ebbero finito di esprimere la loro meraviglia per questo racconto, furono portati i cibi e tutti cenarono abbondantemente. Poi Sindbad il Marinaio ordinò che venissero date cento monete d'oro a Sindbad il Facchino, il quale le prese, ringraziò e andò ad accudire alle sue faccende, continuando a stupirsi per le avventure capitate a Sindbad il Marinaio e lodando in cuor suo Allah che lo aveva salvato e benedicendo il suo benefattore.




Da Le Mille e una Notte



Terzo viaggio di Sindbad il Marinaio
Come vi dicevo ieri, tornai dal secondo viaggio felice per lo scampato pericolo e ancor più ricco di quando ero partito, perché Allah mi aveva concesso di guadagnare tanto denaro da poter compensare gli averi che avevo perduto.
Rimasi così per qualche tempo nella città di Baghdad, godendomi l'agiatezza e la felicità, fino a quando l'animo mio fu di nuovo preso dal desiderio di viaggi e di avventure ed altro il mio cuore non desiderò se non d'intraprendere nuovi traffici e di guadagnare altro denaro. Perché il nostro cuore è così fatto che sempre ci sprona verso il male.
Presa la mia decisione, misi insieme una grande quantità di merci e mi recai a Bassora, dove trovai nel porto una bella nave pronta a salpare, con la ciurma al completo e numerosi mercanti, uomini stimati e ricchi.
Mi imbarcai con loro e spiegammo le vele augurandoci l'un l'altro, con la benedizione e l'aiuto di Allah Onnipotente, di poter viaggiare sicuri e tornare a casa prosperi e in buona salute.
In effetti il nostro viaggio cominciò sotto i migliori auspici : viaggiammo da un mare all'altro, da un'isola all'altra, da una città all'altra, comprando e vendendo in ogni porto in cui scendevamo, visitando i luoghi e istruendoci sulle cose nuove che vedevamo.
Fino a che un giorno, mentre navigavamo in alto mare là dove le onde cozzano l'una contro l'altra, vedemmo il capitano della nave, che se ne stava sul ponte intento a scrutare l'oceano in tutte le direzioni, lanciare un gran grido e darsi degli schiaffi in faccia, e strapparsi i peli della barba e stracciarsi i vestiti e ordinare all'equipaggio di ammainare le vele e di gettare le ancore.
Noi gli chiedemmo: " Padrone, cos'è che non va? "
" Sappiate, fratelli miei, che Allah vi preservi, che il vento ci ha preso la mano e ci ha portato fuori dalla nostra rotta in mezzo all'oceano; e il destino, per nostra disgrazia, ha voluto che giungessimo sul Monte delle Scimmie, un luogo dal quale nessuno è mai tornato vivo; qualcosa in cuore mi dice che siamo tutti perduti. "
Aveva appena finito di pronunciare queste parole che le scimmie ci furono addosso, numerose come una torma di cavallette, mentre altre invadevano la spiaggia dell'isola gettando urla che ci facevano gelare il sangue. Queste scimmie erano creature spaventevoli e selvatiche, coperte di pelo nero, piccole (non erano più alte di quattro Capanne), con gli occhi gialli e le facce nere.
Nessuno conosce il loro linguaggio né sa a quale razza appartengano, ed esse odiano la vicinanza degli uomini.
A causa del loro numero, noi avevamo paura di scacciarle con i bastoni, perché pensavamo che se ne avessimo colpita o uccisa qualcuna le altre ci sarebbero piombate addosso e ci avrebbero dilaniato.
Rimanemmo così impietriti lasciando che facessero quello che volevano. Le scimmie, che erano salite a bordo, ruppero i cavi dell'ancora e tutte le gomene della nave, così che questa, sbattuta dal vento, andò ad arenarsi sulla spiaggia dell'isola.
Allora esse afferrarono mercanti e passeggeri e li gettarono a terra; quindi, impadronitesi delle nostre mercanzie, si allontanarono con la nave andando chissà dove.
Rimanemmo così abbandonati su quell'isola, cibandoci con i frutti che trovavano e con le erbe dei campi e bevendo l'acqua dei ruscelli, fino a che un giorno scorgemmo nell'interno dell'isola quella che sembrava essere una casa abitata.
Ci dirigemmo subito da quella parte e quando fummo più vicini vedemmo che si trattava di un castello, circondato da spesse mura, nelle quali si apriva una porta a due battenti di legno d'ebano.
Poiché la porta era aperta, entrammo e ci trovammo in un grande spiazzo, tutt'intorno al quale si aprivano altissime porte, anch'esse aperte, mentre a un'estremità scorgemmo una grande panca di pietra con accanto bracieri e arnesi da cucina e tutt'intorno numerose ossa.
Non vedemmo però nessuno degli abitanti del castello e di ciò ci meravigliammo moltissimo.



Ci sedemmo nello spiazzo del castello e, per la gran stanchezza, ci addormentammo subito. Dormimmo fino al tramonto del sole, quando fummo risvegliati di soprassalto sentendo la terra che tremava sotto di noi e nell'aria il boato di un tuono.
Alzammo gli occhi al cielo e vedemmo scendere verso di noi, dall'alto del castello, una creatura enorme in sembianze d'uomo, nera di pelle, alta come una palma da datteri, con gli occhi come tizzoni ardenti, zanne simili a quelle dei cinghiali e una bocca grande come la vera d'un pozzo.
Le labbra, simili a quelle d'un cammello, gli penzolavano giù fin sul petto; le orecchie erano due sventole enormi che arrivavano fino alle spalle, mentre le unghie delle mani parevano artigli di leone.
Quando vedemmo questo orribile gigante, ci sentimmo venir meno e rimanemmo impietriti dalla paura.
Giunto nello spiazzo, il gigante si sedette per un po' sulla panca, poi si alzò, si avvicinò a noi e mi prese per un braccio scegliendo me fra tutti i miei compagni mercanti.
Mi prese in mano e cominciò a girarmi e rigirarmi, tastandomi come fa il macellaio quando sceglie una pecora da scannare, ed io in mano sua ero appena un bocconcino. Tuttavia dovette trovarmi non abbastanza grasso per i suoi gusti perché, dopo avermi esaminato ben bene, mi lasciò andare e prese un altro, con il quale fece la stessa cosa e così, uno dopo l'altro, ci prese e ci tastò tutti quanti fino a che non arrivò al capitano della nave.
Questi era un pezzo d'uomo robusto e bene in carne e piacque al gigante, il quale lo afferrò, come fa il beccaio con la pecora, lo gettò a terra, poi gli pose un piede sul collo e glielo spezzò. Quindi prese uno spiedo, lo infilò nel sedere del capitano, e glielo fece uscire dalla testa, poi accese un bel fuoco, vi pose sopra lo spiedo e continuò a girarlo finché la carne non fu cotta. Quando il capitano fu ben rosolato, lo tolse dal fuoco e dallo spiedo, se lo mise davanti e cominciò a spezzarlo, come facciamo noi con una pollastra, strappando la carne con le unghie e mangiandosela.
Si mangiò così tutto il capitano, spolpando ben bene le ossa che gettò da una parte; poi, ben sazio, si sdraiò sulla panca e si addormentò mettendosi a russare che sembrava un montone sgozzato. Quando spuntò il giorno si alzò e se ne andò per i fatti suoi.



Appena fummo certi che se ne fosse andato, cominciammo a parlare fra di noi, piangendo e compatendoci per la nostra sorte, e dicendo:
" Volesse il cielo che fossimo annegati o che ci avessero sbranati le scimmie! Sarebbe stato sempre meglio che finire arrostiti sui carboni; questa, per Allah, è una morte ben disgraziata e orribile! Ma quello che Allah vuole deve avvenire e non vi è maestà e potenza se non in lui, il Glorioso, il Grande! Ormai non v'è dubbio, faremo una fine miserevole e nessuno saprà nulla di noi; da questo luogo non riusciremo mai a fuggire. "
Poi ci alzammo e cominciammo a vagare per l'isola, cercando un posto dove nasconderci o una via di scampo. Ma non era la morte che ci spaventava, bensì il fatto di finire arrosto e di essere mangiati.
Purtroppo non riuscimmo a trovare alcun nascondiglio, e così a sera tornammo al castello e ci sedemmo nello spiazzo, mezzi morti di paura.
Ed ecco che sentimmo tremare la terra ed arrivò il gigante nero il quale, come aveva fatto la sera innanzi, si avvicinò a noi e prese a tastarci fino a che trovò uno che gli parve abbastanza grasso e fece con lui quello che aveva fatto col capitano il giorno prima.
E dopo che ebbe mangiato si sdraiò sulla panca e, si addormentò mettendosi a russare. E all'alba del giorno dopo si alzò e se ne andò per le sue faccende.
Quando fummo rimasti soli, ci raccogliemmo in circolo e cominciammo a parlare, e uno di noi disse:
" Per Allah, sarebbe meglio se ci gettassimo in mare e annegassimo, piuttosto che morire arrostiti; perché questa è una morte abominevole! "
E un altro soggiunse: " Ascoltate le mie parole! Dovremmo trovare il modo di ucciderlo. Solo così potremo liberarci di questa minaccia e liberarne anche tutti i musulmani! "
Allora io mi alzai e dissi: " Ascoltatemi, fratelli miei, se l'unica via di scampo è quella di uccidere questo gigante, dovremo per prima cosa costruirci una zattera e tenerla pronta sulla riva del mare. Perché se noi riusciremo ad ucciderlo potremo fare due cose: imbarcarci e cercare di raggiungere i paesi civili, oppure rimanere su quest'isola in attesa che qualche nave ci scorga e ci raccolga. Ma se per caso non riusciamo ad ucciderlo, allora l'unica cosa che possiamo fare è quella di correre alla spiaggia, saltare sulla zattera e cercare di fuggire via. In un modo o nell'altro, una zattera ci è indispensabile. "
Udite le mie parole, tutti furono d'accordo, così ci mettemmo all'opera.
Costruimmo alla meglio una zattera, vi caricammo su delle provviste, la nascondemmo vicino alla spiaggia e poi tornammo al castello.
Quando arrivò la sera, ecco che di nuovo la terra cominciò a tremare e il gigante ci fu addosso ringhiando come un cane rabbioso. Come aveva fatto nelle due sere precedenti, scelse uno di noi, lo uccise, lo arrostì e lo mangiò, poi si sdraiò sulla panca e si mise a dormire.
Allora noi non appena fummo sicuri che dormiva della grossa, afferrammo due spiedi e li ponemmo sul fuoco lasciandoceli finché non furono bene arroventati. Poi li prendemmo e glieli ficcammo negli occhi, spingendo con tutta la forza delle nostre braccia, fino a che gli occhi non gli scoppiarono per il calore ed egli diventò completamente cieco.
Per il grande dolore, il gigante si svegliò lanciando un grido che ci fece quasi morire di paura, poi balzò in piedi e cominciò a cercarci; ma non poteva trovarci, perché era cieco e noi fuggivamo da tutte le parti.
Poiché non poteva nulla contro di noi, il gigante se ne uscì dal castello e noi gli tenemmo dietro per un po', quindi ci recammo nel luogo dove era nascosta la zattera dicendoci:
" Rimaniamo qui fino a sera, e se costui non torna vorrà dire che è morto e che noi potremo restare su quest'isola in tutta sicurezza; se poi dovesse tornare, metteremo subito la zattera in acqua e fuggiremo via. "
Avevamo appena finito di dire queste parole, quand'ecco che ricomparve il gigante cieco accompagnato da un altro gigante, se possibile ancor più orrendo e spaventoso di lui.
Non appena li vedemmo ci precipitammo sulla riva del mare, montammo sulla zattera e fuggimmo via.
Quelli intanto, accompagnandosi con orribili grida, cominciarono a scagliarci addosso massi di ogni forma e dimensione. E alcuni cadevano in acqua, ma altri colpivano la zattera. Alla fine, come Dio volle, ci trovammo in alto mare e fuori della loro portata.



Così, ci guardammo intorno e vedemmo che eravamo rimasti solo in tre, perché gli altri erano morti tutti, colpiti dai massi.
Continuammo ad andare in balia delle onde affranti e stremati, e tuttavia cercando dì rincuorarci a vicenda, fino a che i venti ci gettarono su un'isola, dove c'erano alberi, uccelli e corsi d'acqua.
Ci inoltrammo per un po' verso l'interno, poi mangiammo i frutti, degli alberi e bevemmo l'acqua dei ruscelli, e al calar della sera ci gettammo per terra e subito ci addormentammo tanta era la fatica che avevamo addosso. Avevamo appena chiuso gli occhi, quand'ecco fummo risvegliati da un sibilo e vedemmo un serpente enorme e mostruoso che ci aveva circondati con le sue spire e. afferrato uno di noi, lo aveva inghiottito fino alle spalle. Poi inghiotti anche il resto e noi sentimmo le costole del nostro compagno che si spezzavano nel ventre dell'animale. Fatto questo il serpente se ne andò, lasciandoci sbalorditi per quello che era capitato al nostro compagno.
Quando ci riavemmo dallo stupore, cominciammo a dire:
" Per Allah, questo è un fatto terribile! Ogni volta siamo minacciati da una morte peggiore della precedente. Ci rallegrammo di essere scampati alle scimmie e cademmo nelle mani del gigante nero; ci rallegrammo di essere sfuggiti al gigante nero, ma ora ci pare di essere minacciati da una morte ben peggiore. Non v'è forza se non in Allah! Ma, per l'Onnipotente, come faremo a evitare questo abominevole mostro serpentino? "
Girammo tutto il giorno per l'isola mangiando frutti e bevendo l'acqua dei ruscelli, e quando venne la sera, ci arrampicammo su un albero altissimo e ci accingemmo a dormire. Ma ecco che arrivò il serpente e cominciò a guardare a destra e a sinistra, fino a che ci vide in cima all'albero; allora, avvolgendosi con le spire intorno al tronco, cominciò a salire e raggiunse il mio compagno, che si trovava su un ramo più basso, e con un sol colpo lo inghiottì fino alle spalle, poi con un altro colpo lo inghiotti tutto.
Io me ne stavo lì terrorizzato e sentivo le ossa del mio compagno scricchiolare nel ventre dell'animale ed ero incapace di distogliere gli occhi da quello spettacolo orrendo.
Dopo che ebbe inghiottito il mio compagno, il serpente se ne andò come era venuto.
Il mattino dopo, quando fui sicuro che il serpente se ne era andato, scesi dall'albero, più morto che vivo dalla paura, e pensai sul momento di gettarmi in mare e por fine ad ogni affanno; ma non lo feci, perché la vita è l'ultima cosa alla quale si rinuncia.
Stetti così per un poco a riflettere, poi scelsi cinque rami d'albero, larghi e lunghi, e due me li legai in croce ai piedi, due me li legai ai fianchi e il quinto me lo legai sulla testa per il largo. Poi mi sdraiai per terra protetto da questa specie di gabbia e attesi.
Ed ecco che, scesa la sera, arrivò il serpente, il quale mi vide e si avvicinò; ma non poté inghiottirmi a causa dei rami che mi proteggevano. Allora mi girò intorno e cercò d'inghiottirmi dalla parte dei piedi, ma anche di là non riuscì a far nulla per via dei rami d'albero legati in croce.
E mentre quello mi girava intorno e studiava il modo d'ingoiarmi, io stavo lì e lo fissavo con gli occhi sbarrati dal terrore. Andò avanti così per tutta la notte, con il serpente che cercava di ingoiarmi e i rami che glielo impedivano. Quando spuntò il sole, il serpente se ne andò, soffiando per la rabbia.
Allora io mi sciolsi dalle tavole, mi alzai in piedi e ricominciai a camminare per l'isola finché, arrivato in cima a un promontorio, mentre guardavo distrattamente il mare, vidi in lontananza una imbarcazione e subito raccolsi un ramo frondoso e cominciai ad agitarlo gridando. Quando quelli della nave scorsero il ramo che io stavo agitando, si meravigliarono fortemente, perché sapevano che l'isola era disabitata; tuttavia si dissero che avrebbero fatto bene a venire a terra perché poteva anche darsi che si trattasse di un uomo.
Così si avvicinarono fino al punto di udire le mie grida e di scorgermi distintamente. Allora scesero a terra, mi presero con loro e mi portarono sulla nave, dove mi rifocillarono e mi diedero dei vestiti per coprirmi.



Io raccontai loro tutto quello che mi era accaduto ed essi si stupirono grandemente; e insieme lodammo l'altissimo per la protezione che mi aveva accordato. Quanto a me, dopo essere stato tante volte così vicino alla morte, trovarmi in salvo mi pareva un sogno.
Per il volere di Allah, navigammo così con vento favorevole fino a che giungemmo in un'isola chiamata Salàhita, ricca di legna di sandalo, dove il capitano gettò l'ancora. E i mercanti che erano a bordo sbarcarono le loro merci per vendere e comperare.
Allora il capitano della nave venne da me e mi disse: " Ascoltami bene, tu sei straniero e povero e le peripezie che ci hai raccontato mi hanno commosso; ho pensato perciò di favorirti in modo che tu possa tornare a casa tua, così che pregherai per me e mi benedirai per il resto dei tuoi giorni "
" Quanto a questo " risposi io, " avrai le mie preghiere. "
Allora il capitano proseguì: " Sappi che imbarcato con noi c'era un mercante che si è perduto e del quale non sappiamo più se sia vivo o se sia morto perché non ce ne sono più giunte notizie. Ho pensato di affidare a te le sue mercanzie acciocché tu le venda su quest'isola. Di quello che avrai guadagnato daremo a te una provvigione e il resto lo terremo da parte fino a che saremo arrivati a Baghdad, dove ci informeremo della famiglia di questo mercante e consegneremo a chi di ragione il denaro. E adesso dimmi, vuoi prenderti cura delle merci di questo mercante? "
Io risposi: " Ascolto e obbedisco, signore, e ti ringrazio per la tua cortesia. "
Allora il capitano ordinò ai marinai di scaricare anche le merci dell'altro mercante che erano rimaste a bordo e le affidò alla mia cura.
Ma lo scrivano di bordo chiese al capitano: " Padrone, che merci sono queste e a nome di chi devo iscriverle nel registro? "
E il capitano rispose: " Iscrivile al nome di Sindbad il Marinaio, di colui che era con noi a bordo della nave e che lasciammo sull'isola del Rukh senza averne più notizie. Voglio che questo straniero si prenda cura di queste cose e le venda, e sul guadagno che avrà fatto daremo a lui una provvigione; il resto lo porteremo a Baghdad e lo consegneremo al proprietario, se riusciremo a trovarlo, se no lo consegneremo alla sua famiglia. "
Lo scriba assentì e rispose: " Il 'tuo ragionamento è saggio, o signore, e il tuo discorso è giusto. "
Quando io sentii che il capitano dava ordine di registrare quelle merci a nome di Sindbad il Marinaio, pensai dentro di me: " Per Allah! ma Sindbad il Marinaio sono io! "
Tuttavia mi trattenni dal parlare subito. Aspettai che i mercanti Fossero scesi a terra,quindi mi avvicinai al capitano e gli chiesi:
"Signore, sai per caso che specie d'uomo fosse questo Sindbad di cui mi hai affidato le merci per la vendita? "
E il capitano mi rispose: " Di lui non so nulla, se non che era della città di Baghdad e si chiamava Sindbad, detto il Marinaio; lo abbandonammo per sbaglio su un'isola e di lui non abbiamo saputo più nulla. "
A questo punto non potei più trattenermi, gettai un gran grido ed esclamai:
" 0 capitano, che Allah ti protegga! Sappi che io sono Sindbad il Marinaio, proprio quello che voi abbandonaste sull'isola del Rukh, e che non sono morto ma sono vivo, proprio come tu ora mi vedi! "
Udendo le mie esclamazioni, gli uomini dell'equipaggio e i mercanti si radunarono subito intorno noi; allora io raccontai ad essi tutto quello che mi era capitato dal giorno in cui mi avevano abbandonato sull'isola del Rukh. Alcuni mi credettero, ma altri rimasero diffidenti. Ma ecco che uno in mezzo a loro si avanzò e disse:
" Ascoltate, brava gente, non vi avevo forse raccontato di aver trovato un uomo attaccato alla carcassa di un animale che avevo gettato nella valle dei serpenti per raccogliere i diamanti? Ma quando io vi raccontai questa storia voi non mi credeste e mi deste del bugiardo. "
" E vero, " dissero tutti, " tu ci hai raccontato questo fatto ma noi non ti abbiamo creduto. "
Allora quell'uomo riprese: " Ebbene io vi dico, e Allah mi è testimone, che questo straniero è proprio l'uomo del mio racconto, ed è lui che mi regalò bellissimi diamanti ed insieme con lui viaggiai fino a Bassora. "
Udendo le parole di quell'uomo, il capitano si avvicinò a me e mi chiese:
" Se tu sei veramente Sindbad il Marinaio, saprai com'è il marchio che c'è sulle tue balle di merci. "
Io gli dissi come era fatto il marchio e, in più gli rammentai alcuni fatti che erano intercorsi fra me e lui durante il viaggio. A queste parole il capitano si convinse che io ero davvero Sindbad il Marinaio e mi abbracciò e rallegrandosi per la mia salvezza disse:
" Per Allah, signore, il tuo caso è davvero meraviglioso e la tua storia incredibile. Ma sia lode ad Allah, che ci ha fatto incontrare di nuovo e ti ha ridato il possesso dei tuoi beni! "
Allora io disposi delle mie mercanzie e le vendetti ricavandone grandi somme di denaro, del che fui molto contento. Andammo avanti così, a, vendere e a comperare in ogni isola che toccavamo, finché non giungemmo nella terra dell'Ind dove comperammo chiodi di garofano e zenzero e molte altre spezie, e di là ci portammo nella terra del Sind, dove pure facemmo buoni affari.
E in questi paesi indiani vedemmo meraviglie senza numero, fra le quali un pesce simile ad una vacca, che alleva i piccoli nutrendoli alle mammelle come un essere umano; e con la sua pelle la gente del luogo ci fa delle pantofole; vidi anche animali marini simili ad asini, a cammelli, e tartarughe larghe venti cubiti. Vidi anche un uccello che nasce da una conchiglia marina e depone le uova sulla superficie del mare e colà le cova senza mai venire a terra.
Alla fine, con un buon vento e con la benedizione di Allah, iniziammo il viaggio di ritorno ed arrivammo sani e salvi a Bassora.
Qui rimasi qualche giorno, poi venni a Baghdad, dove non appena giunto nel mio quartiere e nella mia casa subito fui salutato da familiari e da amici. Durante questo viaggio avevo guadagnato ricchezze senza pari, perciò ne feci partecipi gli orfani e le vedove in segno di ringraziamento per il mio felice ritorno.
Quando mi fui sistemato a casa, organizzai feste e conviti, ai quali invitai amici e conoscenti, e cosi continuai a vivere, dimenticando le disgrazie e le sventure passate.
Questo è quanto di più meraviglioso mi accadde durante il mio terzo viaggio e domani, se Allah lo vuole, sarete di nuovo miei ospiti e vi racconterò le avventure del mio quarto viaggio, che sono ancora più meravigliose di quelle che avete già udito.
Poi Sindbad il Marinaio ordinò che fossero dati a Sindbad il Facchino cento dinàr d'oro e che venisse portata in tavola la cena. Tutti mangiarono e bevvero a sazietà e alla fine Sindbad il Facchino se ne tornò a casa, ringraziando l'ospite per la sua cortesia.




Da Le Mille e una Notte


Quarto viaggio di Sindbad il Marinaio
Sappiate, fratelli miei, che dopo qualche tempo che vivevo in pace e sereno godendomi l'agiatezza fui visitato da una compagnia di mercanti, i quali s'intrattennero con me parlando di viaggi e di traffici.
Allora il vecchio demone ch'era dentro di me cominciò ad agitarsi ed io tornai a desiderare di conoscere paesi stranieri, di commerciare e far quattrini. Decisi allora di unirmi alla compagnia di quelle persone e, dopo aver comprato quanto poteva occorrere per un lungo viaggio, nonché grandi scorte dì merci preziose, mi recai a Bassora, dove m'imbarcai su una nave con quei mercanti che erano fra i maggiori della città.
Confidando nell'aiuto di Allah Onnipotente, col favore dei venti propizi e di un mare tranquillo, navigammo nelle migliori condizioni da un'isola all'altra e da un mare all'altro, fino a che un giorno si levò un forte vento contrario che costrinse il capitano a gettare le ancore e a mettere la nave in panna per timore che potesse affondare in mezzo all'oceano.
Noi tutti allora ci gettammo a terra e cominciammo a pregare l'Onnipotente, e mentre eravamo così occupati arrivò un colpo di vento più forte degli altri, che stracciò le vele in mille pezzi, ruppe la gomena dell'ancora e la nave affondò con tutto il suo carico, mentre noi ci trovavamo in balia delle onde.
Come Dio volle, a un certo momento riuscii ad afferrare una tavola e insieme con me altri naufraghi e cominciammo a sbattere i piedi nell'acqua usandoli a mo' di remi. Poi la tempesta si placò e noi vagammo sul mare immenso per tutto quel giorno e per la notte seguente.
Al mattino i venti cominciarono di nuovo a soffiare e le onde a ingrossarsi, sì che alla fine fummo gettati sfiniti ed affamati su un'isola.
Ci mettemmo a camminare lungo la spiaggia e trovammo grande abbondanza di erbe, e, in mancanza di meglio, le mangiammo per poterci ristorare e per tenerci in piedi.
Dopo aver molto errato su quell'isola, scorgemmo in lontananza una casa. Ci avvicinammo ed ecco che dalla casa uscirono degli uomini nudi i quali, senza nemmeno salutarci e senza dire una parola, ci presero e ci portarono dal loro re. Questi, a cenni ci ordinò di sedere, quindi ci fece mettere davanti dei cibi che non avevamo mai visto in vita nostra.
I miei compagni, spinti dalla fame, ne mangiarono ma io, sentendomi rivoltare lo stomaco, non volli toccarli, e fu questa una grazia d'Allah, perché dal fatto di non aver toccato quei cibi dipese la salvezza della mia vita.
Infatti i miei compagni, non appena ebbero assaggiato quelle vivande, smarrirono la ragione, si comportarono come tanti stralunati e cominciarono a divorare il cibo come uomini posseduti da uno spirito maligno.
Poi quei selvaggi diedero da bere ai miei compagni olio di noce di cocco e con lo stesso olio li unsero su tutto il corpo. E non appena i miei compagni ebbero bevuto di quell'olio strabuzzarono gli occhi e ricominciarono a mangiare come forsennati anche se non ne avevano voglia.
Quando vidi ciò rimasi perplesso e mi preoccupai per i miei compagni; ma mi preoccupai anche per me stesso, a causa di quegli uomini nudi. Così mi misi ad osservarli attentamente e non mi ci volle molto per scoprire che si trattava di una tribù di maghi cannibali, il cui re era un orco.
Tutti quelli che avevano la sventura di capitare nel loro paese, essi li acchiappavano e li portavano dal loro re, poi li nutrivano con quei cibi e li ungevano con quell'olio cosi che il loro ventre si dilatava smisuratamente e gli infelici cominciavano a mangiare senza posa e a causa di ciò perdevano la ragione e diventavano come idioti.
Allora quei selvaggi ingozzavano i poveretti con quei cibi e con l'olio di cocco fino a che non erano diventati ben grassi, quindi li, sgozzavano e li arrostivano dandoli da mangiare al loro re.
Gli altri, voglio dire gli altri selvaggi, si contentavano di mangiare la carne umana cruda.
Quando ebbi fatto questa scoperta, mi sentii pieno di tristezza e di timore per la mia sorte e per quella dei miei compagni, tanto più in quanto vedevo, che la loro ragione vacillava e li abbandonava a mano a mano che essi ingrassavano, al punto che a forza di mangiare si abbruttirono completamente; e allora i selvaggi li affidarono a una specie di pastore, che ogni giorno li portava nei prati dove essi pascolavano come bestie.
Quanto a me, mentre i miei compagni ingrassavano, io ero dimagrito per la fame e per la paura, la carne mi si era seccata sulle ossa ed ero diventato simile ad uno scheletro.
Così nessuno si curò più di me e alla fine mi dimenticarono completamente.
Approfittai quindi del fatto che nessuno mi prestava più attenzione
 
3441746
3441746 Inviato: 17 Gen 2008 22:04
 

icon_biggrin.gif 42

cancella pure tutto....era solo polemica icon_mrgreen.gif icon_mrgreen.gif icon_mrgreen.gif icon_mrgreen.gif icon_mrgreen.gif icon_mrgreen.gif icon_mrgreen.gif icon_mrgreen.gif icon_mrgreen.gif icon_mrgreen.gif icon_mrgreen.gif icon_mrgreen.gif
 
3442541
3442541 Inviato: 17 Gen 2008 23:03
 

Il soldatino di piombo

Mamma, guarda come sono belli! - Esclamò il bambino saltellando dalla gioia. Il coperchio della scatola di legno, aperto con impazienza, fece ammirare una ventina di soldatini di piombo allineati come in una parata. Le uniformi rosso fiammante davano ai piccoli militari un fiero portamento: giacche scarlatte, pantaloni blu scuro, copricapi neri con piume rosse e bianche. Ognuno portava con fierezza il suo fucile. Il bambino li prese uno ad uno e li mise sul tavolo, guardandoli meravigliato. L'ultimo gli sembrò molto curioso: rimaneva perfetta-mente diritto, magnifico come il resto della truppa... ma aveva una gamba sola! Malgrado questo difetto, o forse proprio per questo, aveva uno sguardo più fiero, più audace degli altri. Subito, il ragazzino lo prese in simpatia e divenne il suo soldatino preferito. Sulla tavola si trovava anche un castello di carta... Con il tetto d'ardesia, le mura di pietra con i riflessi dorati, la scala con le ringhiere in ferro, questo castello assomigliava ad un maniero feudale. Era in mezzo ad un parco verdeggiante ricco di alberi e piante multicolori. Due cigni bianchissimi navigavano maestosamente in un lago di carta argentata. Ma la cosa più interessante era una graziosa ragazza che stava sulla porta d'entrata: i biondi capelli raccolti in trecce, gli occhi limpidi come l'acqua del lago, il sorriso dolce e attraente, la rendevano la più bella delle ballerine. Un vestito etereo, stretto in vita, la faceva sembrare ancora più delicata e fragile. Con le braccia alzate sopra la testa, rimaneva in perfetto equilibrio sulla punta di un piede. L'altra gamba, tesa in aria, era in parte nascosta dall'ampia gonna. Dopo essere uscito dalla scatola, il soldato, attratto dalla bellezza della ballerina, non smise di guardarla nemmeno un attimo. Egli credeva che avesse una sola gamba come lui e questa supposta infermità rinforzava il suo amore appena nato. Cercò allora di conoscerla e decise di andarle a far visita appena fosse venuta sera. Per far ciò, era indispensabile che il bambino si dimenticasse di allinearlo nella scatola. Il soldatino si lasciò scivolare dietro ad un cofanetto e li rimase sdraiato ed immobile. Come previsto, il bambino rimise i suoi soldati nella scatola dimenticandosi del nostro eroe! Venuta la sera, il silenzio invase la casa. Tutti i suoi abitanti dormivano tranquillamente... ad eccezione dei giocattoli. Nella penombra, incominciò una folle scorribanda: i palloni giocarono ai quattro cantoni, gli animali di peluche fecero alcune piroette e i soldatini di piombo sfilarono al suono del tamburo di un clown variopinto. In mezzo a tutta questa agitazione, rimanevano tranquille solo la ballerina di carta, che rimaneva nella sua posa acrobatica, e il soldatino di piombo che, nascosto dal cofanetto, continuava a fissarla. Malgrado la sua aria marziale e la sua prestanza, era timido e ritardava di minuto in minuto il momento dell'approccio. Questi momenti di esitazione gli furono fatali! Tutto preso dalla contemplazione della ballerina, il soldato di piombo non si accorse di un losco figuro, uno gnomo nero e gobbo come un diavoletto. Innamorato follemente della ragazza, vedeva nel soldatino un rivale pericoloso, giovane e bello. Cieco d'invidia, lo chiamò più volte, ma il giovane militare non lo ascoltò neppure. Allora lo gnomo lo fulminò con gli occhi e lo minacciò:
- Tu mi ignori! Ma ti accorgerai di me ben presto...
Il mattino seguente il bambino si accorse che il soldatino di piombo era rimasto nascosto dietro al cofanetto; lo prese e lo posò sul davanzale della finestra. Immediatamente, un malaugurato soffio di vento, o forse il soffio vendicatore del rivale, lo fece cadere nel vuoto. Girando su sé stesso, la testa in basso e i piedi in alto, cadde vertiginosamente. Non potendo chiudere gli occhi, vide avvicinarsi spaventosamente il terreno. Quando toccò il suolo, la sua baionetta, con la violenza del colpo, si infisse nell'asfalto e così restò, capovolto. Il bambino si precipitò in strada per cercarlo, ma le carrozze e i passanti lo nascosero ai suoi occhi. Disperato, ritornò a casa, piangendo la perdita del suo soldatino preferito. Improvvisamente cominciò a cadere una violenta pioggia estiva. In un attimo si formarono rivoli di acqua che inondarono gli scarichi che portano alle fogne. Due sfaccendati videro il soldatino di piombo ed ebbero la curiosa idea di metterlo in una barchetta di carta che stavano costruendo. Poi deposero l'imbarcazione sull'acqua. Sballottato, il fragile scafo fu rapidamente preso dalla corrente turbolenta e scomparve in un gorgo buio. Il soldatino, convinto che il responsabile delle sue disavventure fosse lo gnomo, pensò che fosse giunta la sua ultima ora. Passò momenti interminabili nell'oscurità, bagnato dagli spruzzi dell'acqua agitata. Nessun dubbio! navigava nelle fogne... Infine vide la luce del sole in lontananza. La luce si fece sempre più forte e divenne un grande orifizio aperto sulla campagna e la liberta.
- Uff! Sono sano e salvo... Sono scampato all'inferno. - Pensò il soldatino sospirando con sollievo.
Invece i suoi dispiaceri non erano finiti: un'enorme topo di fogna dall'aria feroce, bloccava l'uscita. I suoi occhi acuti avevano notato il naufrago che stava cercando una via d'uscita. La corrente era cosi forte che il topo, malgrado le sue cattive intenzioni, non poté prenderlo e con rabbia in cuore lo vide allontanarsi... Dopo l'ultimo scampato pericolo, la barchetta di carta continuò il suo viaggio attraverso i prati e i campi. Il corso d'acqua s'allargò diventando un ruscello. In piedi sull'imbarcazione, il soldatino di piombo osservava i fiori che ornavano le rive tranquille. Dopo questa momentanea calma, i flutti ridivennero violenti, il ruscello si trasformò in una cascata che si riversava in un lago. Presa da queste correnti, la barca non riuscì a resistere e si capovolse. Il soldatino di piombo colò a picco. Addio graziosa ballerina! Un enorme pesce che girovagava lo prese per una preda di cui era molto goloso, in un solo boccone lo afferrò e lo inghiotti tutto intero. Per il soldatino di piombo ci fu di nuovo l'oscurità... Poco dopo, il pesce venne catturato dalla rete di un pescatore del mercato. Il caso volle che il pesce fosse proprio comprato dalla cuoca al servizio dei genitori del bambino. Aprendo il ventre dell'animale per pulirlo, fu meravigliata di trovarci il soldatino perduto. Lo mise sul tavolo, vicino al castello di cartone. La ballerina gli mandò un sorriso così dolce da cui capì che anche lei lo amava. Che felicità dopo tante peripezie!
Ma lo gnomo non aveva ancora rinunciato alla sua vendetta. Malgrado i suoi sortilegi, infatti, i due giovani si amavano. Per farla finita suggerì al bambino di sbarazzarsi del soldatino con una sola gamba che rovinava la sua collezione. L'ingrato, dimenticandosi del suo preferito, lo gettò nel caminetto. Il soldatino si sciolse rapidamente per il calore, ma la testa, ancora intatta, continuava con gli occhi tristi bagnati di lacrime di piombo, a fissare la ballerina. All'improvviso s'aprì violentemente la porta, una corrente d'aria invase la stanza scaraventando il castello di carta sulle braci ardenti. Nello stesso istante prese fuoco e bruciò. Il giorno seguente, facendo le pulizie di casa, qualcuno mescolò le ceneri, ignorando, contrariamente alle intenzioni del diavoletto, di unire per l'eternità il soldatino di piombo e la ballerina di carta. A meno che il vento non disperda il piccolo mucchio di polvere grigia!
 
3454874
3454874 Inviato: 19 Gen 2008 16:05
 

Mamussi48! semmai un giorno avessi un figlio chiamo te per le storie prima di dormire eh!?
 
3455333
3455333 Inviato: 19 Gen 2008 17:57
 

Fenicefree ha scritto:
Mamussi48! semmai un giorno avessi un figlio chiamo te per le storie prima di dormire eh!?



icon_mrgreen.gif con tre figli vorrei proprio vedere se non ne conosci icon_mrgreen.gif icon_mrgreen.gif
 
Mostra prima i messaggi di:





Pagina 1 di 1

Non puoi inserire nuovi Topic
Non puoi rispondere ai Topic
Non puoi modificare i tuoi messaggi
Non puoi cancellare i tuoi messaggi
Non puoi votare nei sondaggi
 
Indice del forumMotobar

Forums ©